SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. La sentenza della Corte costituzionale n. 238/2014, che ha dichiarato non eseguibile in Italia la decisione della Corte internazionale di giustizia nel caso delle Immunità giurisdizionali dello Stato. – 3. Alcuni aspetti critici rilevati in dottrina. – 4. Prime ricadute nella giurisprudenza di merito e di legittimità. – 5. Pluralismo degli ordinamenti giuridici, “contro-limiti” e diritti umani. – Bibliografia.
1. Premessa
Il Focus del secondo numero della Rassegna è dedicato alla sentenza della Corte costituzionale del 22 ottobre 2014, n. 238, già oggetto di numerosi commenti e approfondimenti. Si tratta infatti di una di quelle pronunce della Corte costituzionale, certamente non frequenti, che imprimono un segno, o addirittura una svolta nel modo di concepire il rapporto tra diritto interno e diritto internazionale. Per questa ragione, nessun altro caso di prassi italiana, tra i tanti pure interessanti del biennio 2014-2015, poteva assumere rilevanza paragonabile nel contesto della Rassegna, che al tema del rapporto tra diritto internazionale e diritto interno è interamente dedicata. Inoltre, i due anni trascorsi dalla decisione della Corte costituzionale e la prassi giurisprudenziale – certo, ancora esigua – che ne è scaturita consentono di iniziare a verificare, con la dovuta cautela, ipotesi che sono state formulate circa le conseguenze sfavorevoli o, addirittura, i possibili effetti dirompenti di una decisione da molti definita “storica”, ma che, tutto sommato, ha suscitato più timori che consensi presso un discreto numero di giuristi.
Nelle pagine che seguono saranno dunque richiamati, anzitutto, i contenuti essenziali della sentenza n. 238/2014. Come è noto, la Corte costituzionale ha accertato l’impossibilità di applicare nell’ordinamento italiano, per contrasto con principi fondamentali della Costituzione, la sentenza della Corte internazionale di giustizia (CIG) del 3 febbraio 2012 nel caso delle Immunità giurisdizionali dello Stato (Germania c. Italia; Grecia interveniente). La decisione della Corte costituzionale investe sia il tema del rapporto tra Costituzione e norme consuetudinarie del diritto internazionale (a cui l’ordinamento italiano si conforma in virtù dell’art. 10, co. 1, Cost.), sia quello dell’esecuzione dei trattati, quest’ultimo sub specie applicazione interna delle sentenze della CIG, la cui obbligatorietà per le parti in causa è stabilita all’art. 94 della Carta delle Nazioni Unite.
Si cercherà poi di dare conto di alcuni aspetti critici che sono stati rilevati in dottrina, sia sul piano metodologico, in relazione all’impostazione generale della sentenza n. 238 e al ragionamento seguito dalla Corte in tema di ingresso delle norme consuetudinarie nell’ordinamento italiano, sia con riguardo al contenuto della decisione, ritenuto troppo in contrasto con il diritto internazionale. Nel paragrafo successivo, si farà invece riferimento ad alcune sentenze posteriori di giudici di merito e della Corte di cassazione, anch’esse riportate nella parte documentale della Rassegna, che costituiscono, nel loro insieme, una prima prassi giurisprudenziale originata dalla sentenza n. 238.
Su tali basi e facendo anche riferimento a pregresse decisioni della Corte costituzionale, si tenterà di trarre qualche conclusione provvisoria circa il carattere innovativo della sentenza n. 238 e la sua capacità di far evolvere non tanto la norma di diritto internazionale relativa all’immunità degli Stati (tema di indubbio interesse, ma che esorbita dai limiti del presente scritto), quanto una concezione cooperativa del rapporto tra diritto internazionale e diritto interno (o, se si vuole, tra Corti internazionali e nazionali) in funzione della massima garanzia possibile dei diritti umani fondamentali.
2. La sentenza della Corte costituzionale n. 238/2014, che ha dichiarato non eseguibile in Italia la decisione della Corte internazionale di giustizia nel caso delle Immunità giurisdizionali dello Stato
Con la sentenza n. 238, la Corte costituzionale si è pronunciata su alcune questioni di costituzionalità sollevate dal Tribunale di Firenze (davanti al quale pendevano diversi procedimenti rilevanti), con quattro identiche ordinanze del 21 gennaio 2014. Il senso complessivo delle ordinanze di rimessione era di porre in dubbio la compatibilità con la Costituzione della decisione con cui la CIG, nella sua sentenza del 2012, ha giudicato priva di fondamento nel diritto internazionale un’eccezione all’esenzione degli Stati dalla giurisdizione civile quando si tratti di risarcire le vittime di crimini di guerra o contro l’umanità, eccezione che era stata invece asserita nella giurisprudenza italiana a partire dal noto caso Ferrini c. Repubblica federale di Germania (C. cass., S.U., n. 5044/2004). Per la CIG, l’Italia si è resa responsabile della violazione di un obbligo internazionale, con la conseguenza di dover porre fine – per difetto di giurisdizione – ai procedimenti intentati contro la Germania, nonché revocare le sentenze nei confronti della Germania già passate in giudicato.
Sul piano tecnico, la contestazione della decisione della CIG e delle sue conseguenze da parte del Tribunale di Firenze si è tradotta nel sottoporre a sindacato di costituzionalità ex art. 134 Cost., anzitutto, la norma consuetudinaria sull’immunità degli Stati come interpretata dalla CIG, che, per il Tribunale, era operante anche nell’ordinamento italiano in virtù dell’art. 10, co. 1, Cost. In secondo luogo, la l. n. 848/1957, di esecuzione della Carta delle Nazioni Unite, è stata censurata per la parte in cui da essa discende l’obbligo delle autorità nazionali, compresa quella giudiziaria, di rispettare e applicare le sentenze pronunciate dalla CIG nei confronti dell’Italia. Venivano infine in rilievo le disposizioni con cui il Parlamento – all’atto di autorizzare la ratifica della Convenzione delle Nazioni Unite del 2004 sulle immunità giurisdizionali degli Stati e dei loro beni – si era preoccupato di assicurare, specificamente, l’applicazione interna della citata sentenza internazionale (art. 3 della l. n. 5/2013, su cui v. Dickman, 2014, p. 11 s.).
La Corte costituzionale ha ritenuto, in sintonia con le ordinanze di remissione, di non dovere porre nuovamente in discussione il contenuto della norma di diritto internazionale sull’immunità degli Stati già accertato dalla CIG. Per la Corte, questa scelta era in linea con le sentenze ‘gemelle’ n. 348 e n. 349 del 2007 nelle quali, riferendosi alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), la Consulta aveva già stabilito che il giudice nazionale ha l’obbligo di interpretare le norme interne in modo conforme alle disposizioni della CEDU, così come interpretate dalla Corte europea dei diritti umani. Se ciò non è possibile, il giudice non può discostarsi da quella interpretazione, né può immediatamente disapplicare le norme interne confliggenti, ma deve sottoporre alla Corte costituzionale la questione della loro possibile contrarietà all’art. 117, co. 1, Cost. Poiché detto articolo impone al legislatore di rispettare gli obblighi derivanti dal diritto internazionale (e dell’UE), le norme internazionali immesse nel nostro ordinamento operano ai fini del giudizio di costituzionalità delle leggi, quali parametri di costituzionalità “interposti”. Con la sentenza n. 238/2014, la Corte ha esteso all’interpretazione data dalla CIG l’applicazione del principio di interpretazione conforme nei giudizi interni: “Ora, deve riconoscersi che, sul piano del diritto internazionale, l’interpretazione da parte della CIG … è un’interpretazione particolarmente qualificata, che non consente un sindacato da parte di amministrazioni e/o giudici nazionali, ivi compresa questa Corte” (§ 3.1. delle considerazioni in diritto).
Ancora una volta in accordo con il giudice rimettente, la Corte ha invece ritenuto di sua esclusiva competenza accertare se la norma consuetudinaria relativa all’immunità degli Stati rilevata dalla CIG sia o meno compatibile con i principi fondamentali della Costituzione. Ed è appena il caso di ricordare che, per costante giurisprudenza, le norme costituzionali e quelle dotate di garanzia costituzionale – come sono sovente classificate, nella gerarchia delle fonti, le norme di diritto internazionale generalmente riconosciute introdotte dall’art. 10, co. 1, Cost. – sono anch’esse soggette al sindacato di legittimità ex art. 134. Alla Corte costituzionale spetta infatti valutarne la compatibilità con i principi fondamentali della Costituzione, ossia quelli che – come la forma repubblicana dello Stato, o i diritti inviolabili delle persone – non possono essere modificati attraverso il procedimento di revisione costituzionale previsto all’art. 138 (ex multis, C. cost. n. 1146/1988; v. anche Bin, 2016, par. 2).
Posta questa premessa, passava in certo senso in secondo piano il principale argomento logico-giuridico alla base della decisione sul caso Ferrini, ossia che il divieto imperativo dei crimini di guerra e contro l’umanità (una norma internazionale di ius cogens) debba prevalere sulla norma relativa all’esenzione degli Stati esteri dalla giurisdizione civile, anch’essa vigente nel diritto internazionale e di sicura natura consuetudinaria, ma non di carattere inderogabile. Anteriormente alla pronuncia della CIG, su questo argomento si erano fondati i giudici nazionali per affermare la loro giurisdizione rispetto ai procedimenti civili intentati contro la Germania da quei cittadini italiani (o dai loro eredi), che furono vittime di crimini di guerra durante la seconda guerra mondiale e che, in base alla legislazione tedesca, non hanno titolo al risarcimento dei danni.
Una volta spostata la questione esclusivamente sul piano del diritto interno, per la Corte costituzionale non si trattava più di ‘confrontare’ due norme internazionali al fine di stabilire la prevalenza dell’una o dell’altra, bensì di verificare se la decisione della CIG fosse o meno compatibile con i principi fondamentali dell’ordinamento italiano. La Corte, dunque, avrebbe potuto tralasciare di pronunciarsi sulle conclusioni, alquanto discutibili, a cui la CIG è pervenuta nella sentenza del 2012. Come è noto, essa ha ritenuto che, nel caso, non si delineasse un conflitto tra divieto dei crimini e immunità degli Stati, in quanto il primo è sancito da una norma sostanziale, mentre la seconda discende da una norma procedurale. Le due norme operano dunque su piani distinti. Ma la norma sull’immunità degli Stati, in quanto procedurale, opera preliminarmente, ciò che preclude alle corti nazionali l’esame degli aspetti relativi all’applicazione della norma (imperativa) sostanziale (per tutti, in senso critico, Pisillo Mazzeschi, 2012).
Nel giudizio di legittimità costituzionale, questa prospettazione è stata riproposta dall’Avvocatura generale dello Stato, che, nel motivare la richiesta della Presidenza del Consiglio di dichiarare inammissibili le questioni sollevate dal Tribunale di Firenze, ha invocato, tra l’altro, la “precedenza logica” della norma procedurale sull’immunità. È noto, del resto, che il governo italiano non ha mai fatto propria la tesi espressa nella sentenza Ferrini, attestando la sua difesa davanti alla CIG su una posizione alquanto diversa, tendente non già ad affermare che l’immunità degli Stati per atti iure imperii incontri un limite generale in relazione alla qualificazione di certi atti come crimini internazionali, bensì a giustificare, nel caso specifico, una deroga all’esenzione degli Stati dalla giurisdizione civile stabilita nel diritto internazionale generale. Ciò con varie argomentazioni, di cui la principale è stata il c.d. last resort argument: dato l’inadempimento da parte della Germania del suo obbligo di indennizzare le vittime dei crimini, a queste non restava altro mezzo che rivolgersi ai propri tribunali nazionali. Sul punto della precedenza da attribuire alla norma sull’immunità, la valutazione della Corte costituzionale è stata, però, opposta a quella della CIG: l’obiezione era mal fondata “per il semplice motivo che un’eccezione relativa alla giurisdizione richiede necessariamente una valutazione del petitum in base alla prospettazione della domanda, come formulata dalle parti” (sent. n. 238, § 2.2).
Venendo all’aspetto centrale della questione, la Corte costituzionale ha richiamato le sue precedenti decisioni secondo le quali il rispetto dei diritti inviolabili e di altri valori costituzionali fondamentali costituisce un limite all’introduzione nell’ordinamento interno di norme originate in un altro ordinamento. Ciò, sia con riguardo alle norme internazionali di natura consuetudinaria (tra le altre, C. cost. n. 48/1979, Russel, e n. 73/2001, Baraldini, sulle quali infra), sia con riferimento al diritto dell’UE. Proprio in relazione a quest’ultimo, la Corte ha più volte ribadito l’esistenza di “contro-limiti” costituzionali all’ingresso di norme comunitarie nell’ordinamento nazionale (sul punto, la sent. n. 238 richiama, ex multis, C. cost. n. 183/1973, n. 170/1984, n. 232/1989, n. 168/1991, n. 284/2007). Se, quindi, l’ordinamento italiano è ‘aperto’ al diritto internazionale – e le precisazioni di cui alle sentenze n. 348 e n. 349 del 2007 sono significative al riguardo –, ciò non significa che la Corte non debba esercitare il vaglio di costituzionalità sulle norme internazionali – generali e pattizie – immesse nell’ordinamento, al fine di accertare la loro compatibilità con i supremi principi costituzionali. Nel caso in esame, la Corte ha ritenuto fondata la censura riguardante il contrasto tra la norma consuetudinaria sull’immunità degli Stati come interpretata dalla CIG e l’art. 24 Cost. (“Tutti possono agire in giudizio per la difesa dei propri diritti e interessi legittimi”). Ciò “a maggior ragione” perché il diritto a un rimedio giurisdizionale – il quale già di per sé rientra tra i principi fondamentali dell’ordinamento – era collegato, in questo caso, al rispetto di diritti fondamentali protetti dall’art. 2 Cost. Ovviamente, nessun diritto fondamentale può dirsi effettivamente protetto, se non è assistito dal diritto di accesso al giudice in caso di violazione (sent. n. 238, § 3.4). Da questo passo della sentenza, non è chiaro se una compressione o, addirittura, l’esclusione del diritto al giudice possa invece ritenersi compatibile con i fondamenti dell’ordine costituzionale qualora la lesione che si intende far valere in giudizio non riguardi i diritti inviolabili protetti dall’art. 2.
Certo, come si legge nella sentenza, anche la norma sull’immunità degli Stati è posta a tutela di un rilevante interesse pubblico; essa deriva, infatti, dal riconoscimento, che gli Stati si fanno reciprocamente, della rispettiva sovranità. In tal senso, la Corte era consapevole dell’esistenza di un potenziale conflitto tra due principi costituzionali e del fatto che, in tali circostanze, è richiesto un bilanciamento dei principi coinvolti. Tuttavia, essa ha ritenuto che un bilanciamento non fosse possibile, perché la norma sull’immunità ‘assoluta’ degli Stati per atti iure imperii rilevata dalla CIG non poteva essere applicata senza determinare, date le circostanze del caso, un sacrificio altrettanto assoluto del diritto dei ricorrenti a un (qualsivoglia) rimedio giurisdizionale. Come si dirà meglio in seguito, l’argomento del last resort ha dunque svolto un ruolo, anche se non decisivo, nelle conclusioni della Corte. Ma più importante è stata la considerazione che un bilanciamento tra i due principi, in realtà, non era nemmeno necessario. Ratio della norma sull’immunità è infatti quella di preservare la libertà degli Stati di esercitare le loro funzioni pubbliche. Ma, per la Corte, i crimini di guerra e contro l’umanità non sono ricompresi, in senso sostanziale, nella categoria degli atti statali iure imperii, non potendosi ammettere che gravi violazioni di diritti umani fondamentali possano essere commesse nell’esercizio legittimo di poteri sovrani. Questo passo della sentenza (§ 3.4) mette in luce come l’approccio della Corte costituzionale alla questione di fondo oggetto della controversia tra Italia e Germania sia stato di gran lunga meno formalistico di quello della CIG e, per certi aspetti, vicino al ragionamento seguito dalla Cassazione nella sentenza Ferrini.
Guardando alle conclusioni, la decisione è stata di sostanziale accoglimento delle tesi del giudice remittente. Tuttavia, riguardo alla norma consuetudinaria sull’immunità degli Stati così come interpretata dalla CIG, la Corte ha pronunciato una sentenza interpretativa di rigetto. Essa ha infatti dichiarato infondata la questione, sulla base del fatto che, a causa dell’indicato contrasto con gli artt. 2 e 24 Cost., il meccanismo di adattamento automatico ex art. 10, co. 1, non poteva operare relativamente a quella parte della norma internazionale che riconosce agli Stati l’esenzione dalla giurisdizione civile anche nei procedimenti per il risarcimento di danni causati da crimini. Pertanto, e contrariamente a quanto ritenuto dal giudice remittente, per questa specifica parte la norma internazionale non può avere ingresso nell’ordinamento italiano, non ne fa parte e non vi esplica alcun effetto (sent. n. 238, § 3.5).
La Corte ha invece dichiarato fondate le questioni di costituzionalità riguardanti le disposizioni legislative da cui discendeva l’obbligo per il giudice italiano di conformarsi alla sentenza della CIG. Con riguardo all’art. 1 della l. n. 848/1957, che ha dato esecuzione in Italia alla Carta dell’ONU, la Corte ha precisato che la declaratoria di illegittimità è circoscritta all’esecuzione interna della decisione della CIG nel caso delle Immunità giurisdizionali dello Stato. In termini generali, il rispetto degli obblighi derivanti all’Italia da tutte le disposizioni della Carta, compreso l’art. 94, resta impregiudicato (sent. n. 238, § 4.1). Le altre e più specifiche disposizioni censurate erano contenute, come già detto, nell’art. 3 della l. n. 5/2013. Al primo comma, l’art. 3 stabiliva infatti che “quando la Corte internazionale di giustizia, con sentenza che ha definito un procedimento di cui è stato parte lo Stato italiano, ha escluso l’assoggettamento di specifiche condotte di altro Stato alla giurisdizione civile”, i giudici italiani dinanzi ai quali pende la controversia possono rilevare d’ufficio il proprio difetto di giurisdizione, in ogni stato e grado del processo. Con il secondo comma, si disponeva un’integrazione all’art. 395 c.p.c., relativo alla revocazione delle sentenze passate in giudicato, per rendere possibile, in applicazione della decisione della CIG, la revocazione per difetto di giurisdizione delle sentenze definitive nei confronti della Germania. Tutte queste disposizioni sono state dichiarate incostituzionali (sent. n. 238, § 5.1).
Le indicate conclusioni sono state confermate, punto per punto, dalla Corte costituzionale agli inizi del 2015, quando, con ritardo dovuto a questioni procedurali, anche l’ultima delle quattro ordinanze identiche del Tribunale di Firenze (la n. 143 del 21 gennaio 2014) è giunta al suo esame. La Corte ha infatti dichiarato inammissibili tutte le questioni di legittimità proposte: quelle relative all’art. 1 della l. n. 848/1957 e all’art. 3 della l. n. 5/2013, per carenza d’oggetto sopravvenuta a seguito della sentenza n. 238/2014; quella relativa alla norma internazionale consuetudinaria sull’immunità ‘assoluta’ degli Stati per atti iure imperii, come carente d’oggetto ab origine, in quanto la norma impugnata non esiste nell’ordinamento italiano (C. cost., ord. 11 febbraio 2015, n. 30).
3. Alcuni aspetti critici rilevati in dottrina
Le difficoltà che si sarebbero incontrate nel dare esecuzione in Italia alla sentenza della CIG erano state segnalate tempestivamente (Padelletti, 2012; v. anche infra). Non per nulla, l’art. 3 della l. n. 5/2013 – giustamente definito nella sentenza n. 238/2014 una “misura di adattamento ordinario” – era intervenuto a rafforzare con una norma ad hoc il principio, già vigente, secondo cui il difetto di giurisdizione è rilevabile d’ufficio, in ogni stato e grado del procedimento, “se la giurisdizione italiana è esclusa per effetto di una norma internazionale” (art. 11 della l. n. 218/1995). Come già detto, l’art. 3 aveva anche provveduto ad ampliare la base giuridica per la revocazione di sentenze definitive, così da ricomprendervi le sentenze contrastanti con la decisione della CIG. Ulteriori complicazioni derivavano dalla richiesta fatta dalla CIG all’Italia di ‘revocare’ anche gli effetti dell’avvenuto riconoscimento di analoghe sentenze straniere nei confronti della Germania, emesse, in particolare, da tribunali civili della Grecia (su questo aspetto della controversia, Lopes Pegna, 2012).
In dottrina, era stato altresì messo in conto che la sentenza della CIG potesse costituire un banco di prova per la tenuta della teoria dei “contro-limiti”, come delineatasi nella giurisprudenza costituzionale (tra i primi commenti, Palombino, 2012). E una dimostrazione di questo assunto si leggeva, in controluce, già nei rilievi critici contenuti nella sentenza n. 32139/2012 con cui la Corte di cassazione aveva infine optato, pur di fronte a tali perplessità, per un deciso revirement della linea interpretativa inaugurata con il caso Ferrini e ora definita “… un tentativo, dettato da esigenze di affermazione di principi di civiltà giuridica, che, in difetto della sua ‘convalida’ da parte della Comunità internazionale, della quale la Corte dell’Aja è il massimo momento di sintesi giurisdizionale, non è stato, o non è stato ancora, fornito della necessaria condivisione e che, per questa ineluttabile considerazione, non può essere portato ad ulteriori applicazioni” (§ 6 delle considerazioni in diritto; corsivi originali).
Se queste erano le considerazioni diffuse al livello nazionale, è altrettanto vero che la decisione della Corte costituzionale di dichiarare non eseguibile la sentenza della CIG è stata da molti percepita come un vulnus al diritto internazionale, nella forma di una netta interruzione della normale dialettica tra questo e il diritto interno. Alla sentenza n. 238 si è rimproverato di essere improntata a una concezione esasperata del ‘dualismo’, o pluralismo degli ordinamenti, da cui sarebbe derivata un’impostazione discutibile nelle premesse e, quanto alla decisione, una sorta di ‘muro contro muro’ tra Corti. Tralasciando reazioni esagerate e, in verità, poco attente ai reali contenuti della sentenza (Kolb, 2014), merita considerare se la Corte costituzionale avrebbe fatto meglio a contestare l’interpretazione data dalla CIG alla norma internazionale sull’immunità degli Stati (ex multis, Cannizzaro, 2015). In tal modo – è stato detto – si sarebbe evitato di sconfessare la linea interpretativa proposta nella giurisprudenza italiana (e in quella greca), così contribuendo a un’auspicabile evoluzione della regola consuetudinaria, che conduca a escludere l’immunità degli Stati per atti compiuti iure imperi ma qualificabili come crimini internazionali.
Questa prospettiva era senza dubbio presente alla Corte costituzionale, che ha infatti richiamato il ruolo svolto in passato dalla giurisprudenza nazionale, soprattutto italiana e belga, nel favorire il passaggio dall’immunità assoluta degli Stati all’immunità c.d. ristretta, limitata, cioè, agli atti compiuti nell’esercizio di funzioni pubbliche (v. la sent. n. 238, § 3.3). Certo, la Corte avrebbe potuto andare oltre e sostenere che il limite all’immunità degli Stati rappresentato dai crimini si è già consolidato nel diritto internazionale generale (v. l’Opinione dissenziente del giudice Cançado Trindade alla sentenza della CIG, nonché, in dottrina, Gradoni, 2014, p. 194). Va detto, però, che questa parte della sentenza della CIG è in linea con un orientamento che appare abbastanza consolidato nella giurisprudenza internazionale (De Sena, The Judgment, 2014, p. 25).
Un eventuale dissenso della Corte costituzionale circa la ricostruzione della norma consuetudinaria operata dalla CIG avrebbe avuto scarso effetto anche ai fini della formazione di una prassi costante dell’Italia, a meno di riuscire a modificare l’atteggiamento non coincidente del governo, di cui si è già detto (v. anche infra). Non convince, infatti, l’osservazione (De Sena, op. cit, p. 27) che, nella rilevazione della prassi, alla giurisprudenza della Corte costituzionale – in quanto suprema istanza giurisdizionale dello Stato – vada riconosciuto un peso maggiore di quello attribuibile all’opinio iuris dell’Esecutivo, o alla legislazione nazionale. Ma, soprattutto, la scelta di rimettere in discussione il contenuto della norma internazionale sull’immunità, dopo che la CIG lo aveva accertato, avrebbe avuto anch’essa implicazioni sfavorevoli sul rapporto tra ordinamento italiano e diritto internazionale. A nostro avviso, una tale scelta sarebbe stata infatti regressiva rispetto al principio della conformità dei giudizi interni all’interpretazione data alle norme del diritto internazionale, nel loro ordinamento d’origine, dagli organi internazionali competenti. Questo principio che, grazie alle sentenze ‘gemelle’ del 2007 è pienamente operante nei tribunali italiani rispetto alla CEDU e di cui la Corte ha ora affermato un’applicazione più ampia, rappresenta infatti il superamento di una pregressa e discutibile tendenza dei tribunali interni a interpretare ‘unilateralmente’ il diritto internazionale secondo le categorie proprie dell’ordinamento interno (v., già, Giuliano, Scovazzi, Treves, 1991, p. 340 s.). Da ultimo, ma non in ordine d’importanza, un dissenso della Corte costituzionale sul piano del diritto internazionale anziché nazionale, non sarebbe valso a evitare la conseguenza della sentenza n. 238 che desta maggiore preoccupazione in merito al rapporto tra l’ordinamento italiano e il diritto internazionale, ossia la non coincidenza delle rispettive valutazioni e il rischio di continuata responsabilità dell’Italia per illecito internazionale (v. infra).
Un secondo ordine di argomenti ha riguardato il fatto che, nella sentenza n. 238, la Corte ha sì richiamato la consueta prassi del bilanciamento dei valori costituzionali, ma l’ha disattesa nei fatti, limitandosi ad affermare che un bilanciamento non era possibile nel caso. Evidentemente, essa ha ritenuto che il mancato riconoscimento dei diritti dei ricorrenti in base alla legislazione della Germania e, dunque, l’impossibilità per essi di rivolgersi ai tribunali tedeschi, configurasse di per sé un contrasto insanabile con l’art. 24 Cost., una volta che la giurisdizione italiana fosse esclusa per effetto della norma sull’immunità (per una critica al fatto che detto ragionamento non è stato esplicitato, Tanzi, 2015). La Corte non ha affatto considerato se vi fossero mezzi alternativi per assicurare soddisfazione alle vittime senza sacrificare il principio di immunità, quali la ripresa del negoziato tra Italia e Germania (raccomandata anche dalla CIG nella sent. del 2012, § 104) o la possibilità che il governo italiano faccia valere i diritti dei ricorrenti sul piano internazionale, assumendone la protezione diplomatica.
Tralasciando l’esito molto incerto dei negoziati (v. infra), è da osservare che l’idoneità della protezione diplomatica a realizzare una tutela equivalente dei diritti dei ricorrenti è molto dubbia, considerata la natura meramente facoltativa di questo istituto, che assegna al governo dello Stato nazionale della persona danneggiata non solo la scelta sul punto di esercitare o meno la protezione, ma anche la decisione sulla effettiva destinazione delle somme eventualmente ottenute a titolo di risarcimento. Ciò almeno in attesa di auspicabili sviluppi nel diritto internazionale o nella legislazione italiana, per ora soltanto ipotizzati (cfr. Palchetti, 2014). Non è chiaro, inoltre, come la Corte costituzionale avrebbe potuto ‘pretendere’ una determinata condotta dal governo italiano. Se, infatti, per il principio della separazione dei poteri, l’Esecutivo non può imporre ai giudici di dichiarare la propria incompetenza in conformità alla decisione della CIG, analogamente la Corte costituzionale non può esigere dall’Esecutivo che esso assuma la protezione diplomatica dei reclamanti, o che riprenda il negoziato con la Germania – magari, in vista dell’istituzione di una commissione mista dei reclami, come sarebbe certo desiderabile –, per tacere della totale inutilità di una pronuncia siffatta nei riguardi della Germania (su una eventuale sentenza “monitoria” v., comunque, Russo, 2014).
Se il mancato bilanciamento dei principi coinvolti appare poco argomentato, ciò è dunque dovuto in parte al fatto che un tentativo in questa direzione non avrebbe potuto condurre a una soluzione differente, perché non vi erano, ragionevolmente, strumenti alternativi atti a garantire soddisfazione alle vittime, ossia una protezione equivalente a quella giurisdizionale (De Sena, Spunti, 2014, p. 201 ss.). Ma, soprattutto, per la Corte costituzionale, l’immunità della Germania non poteva essere riconosciuta, nell’ordinamento italiano, in presenza di crimini di tale gravità come quelli che hanno dato origine ai reclami nei confronti della Germania (sul valore preponderante di questo argomento in merito al mancato bilanciamento v., in particolare, Pinelli, 2014, p. 40).
Anche per l’aspetto della gravità dei fatti in causa, tuttavia, non sono mancate giuste perplessità, dovute alla circostanza che le azioni intentate contro la Germania avevano tutte ad oggetto la richiesta di un risarcimento pecuniario. Come è stato osservato (v. ancora Cannizzaro, 2015), riconoscere alla Germania l’esenzione dalla giurisdizione italiana non avrebbe dunque comportato, per i ricorrenti, la lesione di un bene primario (diritto alla vita, alla libertà, etc.), ma secondario (diritto a un risarcimento monetario, per di più a beneficio, in molti casi, non delle vittime ma di loro aventi causa). Nel valutare questo aspetto, va tuttavia ricordato che le lesioni lamentate si riferivano a violazioni gravissime e sistematiche del diritto umanitario: deportazione e internamento di civili nei campi tedeschi, sottoposizione a lavoro forzato e ad altri trattamenti inumani, mancato riconoscimento dello status di prigionieri di guerra secondo le convenzioni applicabili. In mancanza di altre forme di riconoscimento dei diritti dei ricorrenti, il giudizio civile per il risarcimento di superstiti, o familiari è ormai l’unico modo possibile per constatare in giudizio la commissione dei crimini e rendere qualche forma di giustizia alle vittime.
Il tema della gravità dei crimini ha messo in ombra, in certa misura, anche l’argomento della exception territorielle (o tort exception), fondato sull’art. 12 della già citata Convenzione ONU sulle immunità giurisdizionali degli Stati (non ancora in vigore sul piano internazionale). Secondo questa regola, l’esenzione dalla giurisdizione interna non può essere invocata nei procedimenti concernenti azioni di riparazione pecuniaria in caso di decesso o lesione dell’integrità fisica di una persona, o di danni o perdita di beni materiali attribuibili all’azione o omissione di uno Stato, se la condotta da cui il danno è derivato si è prodotta “interamente o in parte” sul territorio dello Stato del foro (su questo aspetto è incentrata l’Opinione dissenziente del giudice Gaja alla sentenza della CIG). Ora, nella sentenza n. 238, la Corte costituzionale ha avuto cura di specificare più volte che i fatti all’esame del giudice remittente erano stati commessi “almeno in parte, in territorio italiano”. Tuttavia non vi è stata una particolare valorizzazione di questa circostanza e, soprattutto, nel dispositivo non ve ne è traccia (v. il punto 2, in cui l’art. 1 della legge di esecuzione della Carta dell’ONU è dichiarato incostituzionale, senza alcun riferimento all’exception territorielle, “nella parte in cui obbliga il giudice italiano ad adeguarsi alla pronuncia della Corte internazionale di giustizia (CIG) del 3 febbraio 2012, che gli impone di negare la propria giurisdizione in riferimento ad atti di uno Stato straniero che consistano in crimini di guerra e contro l’umanità, lesivi di diritti inviolabili della persona”).
Sul piano strettamente tecnico, poi, non tutti hanno condiviso il ragionamento relativo alla non ricevibilità nell’ordinamento italiano della norma internazionale sull’immunità degli Stati come interpretata dalla CIG. Ci si è chiesto, al riguardo, se l’impostazione data alla questione dal Tribunale di Firenze, tendente a una declaratoria di illegittimità della corrispondente norma interna, non fosse, tutto sommato, preferibile alla via prescelta dalla Corte di dichiarare che una norma siffatta non può avere ingresso nell’ordinamento nazionale (tra gli altri, De Sena, Spunti, 2014, p. 227 ss.; Gradoni, 2014, p. 185). Entrambe le opzioni sono state utilizzate dalla Corte in precedenti sentenze. Tuttavia, la sentenza n. 238 sembra presentare una commistione dei due schemi logici, in quanto la Corte, da un lato, ha ritenuto non esistente la norma impugnata, dall’altro si è soffermata a considerarne il possibile bilanciamento con gli artt. 2 e 24 Cost., mentre è evidente che un bilanciamento può prospettarsi solo tra norme di uno stesso ordinamento (Pinelli, 2014, p. 38 s.). Detta circostanza, tra l’altro, ha condotto a dubitare, a dispetto delle apparenze, del carattere rigorosamente dualistico della sentenza (Pisillo Mazzeschi, 2015, p. 24 s.). Inoltre, è stato detto, lo schema logico del non-ingresso della norma consuetudinaria sull’immunità nell’ordinamento italiano avrebbe dovuto condurre a una pronuncia non di rigetto, ma di inammissibilità della questione per carenza d’oggetto (come è poi avvenuto, in effetti, nell’ord. n. 30 del 2015). Secondo un’altra opinione, tuttavia, la scelta operata dalla Corte è più in linea con la funzione di ‘trasformatore permanente’ dell’art. 10, co. 1, Cost., in virtù del quale le norme consuetudinarie entrano a far parte dell’ordinamento italiano così come vigenti, in un dato momento, nel diritto internazionale. Sotto questo profilo, la tecnica della sentenza interpretativa di rigetto appare appropriata come soluzione più flessibile, che non preclude la possibilità di ricostruzioni diverse in caso di riproposizione (Palombino, 2015).
Altrettante perplessità ha sollevato la declaratoria di illegittimità della legge di esecuzione della Carta dell’ONU, sia pure circoscritta all’applicazione di una singola sentenza della CIG. Nel decidere su questo punto, la Corte non ha fatto riferimento all’art. 11 Cost., sebbene questo dovesse ragionevolmente venire in rilievo tra i valori costituzionali coinvolti (sull’assenza di un esplicito bilanciamento tra i principi racchiusi negli artt. 2 e 24 Cost. e quelli risultanti dalle disposizioni che determinano l’apertura del diritto interno al diritto internazionale – art. 10, art. 11, art. 117 –, v. ancora Tanzi, 2015, p. 18 ss.).
In termini più generali, si teme l’impatto della sentenza n. 238 sulla percezione dell’Italia come Stato in grado di adempiere effettivamente i suoi obblighi internazionali. È un fatto che la sentenza è suscettibile di ulteriori conseguenze problematiche nei rapporti dell’Italia con la Germania e, eventualmente, con altri Stati. Di ciò sono indicative alcune decisioni di poco posteriori, in cui i principi affermati dalla Corte costituzionale sono stati concretamente applicati.
4. Prime ricadute nella giurisprudenza di merito e di legittimità
Alla ripresa dei processi che erano stati sospesi in attesa della decisione della Corte costituzionale, la Germania ha ribadito, come era prevedibile, l’eccezione relativa al difetto di giurisdizione del Tribunale di Firenze secondo il diritto internazionale e la sentenza della CIG. Nell’impasse determinata dal contrasto tra le norme applicabili del diritto costituzionale e del diritto internazionale, il Tribunale ha esplorato, inizialmente, la possibilità di una soluzione conciliativa, che a detta di alcuni anche la Corte costituzionale avrebbe dovuto considerare. La differenza tra i due casi è peraltro evidente, se si pone mente all’oggetto e alla finalità, rispettivamente, del giudizio di costituzionalità ex art. 134 Cost. e dei procedimenti relativi ad azioni per il risarcimento di danni, nell’ambito dei quali il giudice civile può imporre alle parti di esperire un tentativo di conciliazione con la procedura prevista all’art. 185 c.p.c.
Applicando tale procedura, il Tribunale di Firenze ha inteso tenere conto – dichiaratamente – dell’autorevole raccomandazione rivolta dalla CIG a Italia e Germania affinché riprendano il negoziato sulle questioni pendenti e, per altro verso, del rischio di continuata responsabilità dell’Italia sul piano internazionale, in caso di nuove decisioni analoghe alla sentenza Ferrini. In particolare, nel caso Alessi e altri c. Germania i termini di regolamento proposti dal Tribunale, su cui le parti non si sono accordate, prevedevano la rinuncia dei ricorrenti all’azione civile a fronte dell’impegno dello Stato convenuto a consentire loro di usufruire di un periodo di soggiorno e studio gratuito in Germania (Trib. Firenze, II sez. civ., ord. 23 marzo 2015).
Nelle due sentenze identiche del 6 luglio 2015, n. 2468 (Bergamini c. Germania) e n. 2469 (Simoncioni c. Germania), la stessa sezione del Tribunale di Firenze ha rilevato l’assenza di progressi, finora, del negoziato tra i due Stati, e così pure il fatto che i tentativi di conciliazione ex art. 185 c.p.c. erano rimasti senza esito in tutti i processi rilevanti. Esso ha poi esaminato e rigettato l’eccezione preliminare relativa al difetto di giurisdizione formulata dalla Germania (e riproposta in fase dibattimentale, nonché ribadita, per via diplomatica, al governo italiano). Tale eccezione era fondata soprattutto, e per quanto qui maggiormente interessa, sull’art. 10, co. 1, Cost. in combinato disposto con la sentenza della CIG. Il governo italiano, intervenuto nei due procedimenti, ha confermato la sua consueta linea di condotta, eccependo anch’esso l’incompetenza del Tribunale. Quest’ultimo si è però attenuto, come inevitabile, alla decisione della Corte costituzionale, argomentando che, nei processi in questione, dichiarare il difetto di giurisdizione avrebbe comportato un sacrificio inaccettabile di principi fondamentali dell’ordinamento nazionale (artt. 2 e 24 Cost.). Nel merito, il Tribunale ha ritenuto provata la responsabilità della Germania (che la Repubblica federale ha sempre riconosciuto per i crimini del terzo Reich) e, dunque, l’obbligo di risarcire i ricorrenti, in entrambi i casi. Esso ha poi deciso su un’ulteriore questione – prospettata dalla Germania in subordine e contestata dal governo italiano – che riguardava l’eventuale obbligo dell’Italia di tenere indenne la Germania, in caso di soccombenza, da ogni perdita economica conseguente al giudizio. Secondo la Germania, tale obbligo deriverebbe dal mancato rispetto, da parte dell’Italia, delle norme rilevanti del Trattato di pace del 1947 e dei due accordi bilaterali del 1961 relativi all’indennizzo di italiani o, in alternativa, dalla mancata esecuzione della decisione della CIG. Sul punto, il Tribunale ha riconosciuto che, secondo un principio generale codificato nell’art. 27 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, uno Stato non può invocare disposizioni del suo diritto interno per giustificare l’inadempimento di un obbligo internazionale. Tuttavia, nei casi in esame, l’inadempimento era dovuto a uno stato di necessità, che esclude l’illiceità della condotta (art. 2045 c.c.). Ciò perché, in presenza di crimini, l’obbligo costituzionale di garantire un rimedio giurisdizionale contro gravi lesioni di diritti inviolabili prevale, di necessità, sugli altri obblighi dello Stato (sui due casi, più ampiamente, Ferrajolo, 2016, pp. 3-5).
Le istanze di revocazione di sentenze passate in giudicato hanno incontrato gli stessi ostacoli. Così è stato per la decisione con cui la Corte d’appello di Firenze aveva riconosciuto gli effetti della sentenza pronunciata in Grecia che obbligava la Germania a versare un risarcimento pecuniario alla Prefettura di Voiotia, quale legale rappresentante delle vittime di un massacro di civili ivi commesso dalle forze naziste durante la seconda guerra mondiale. Il riconoscimento della sentenza era diventato definitivo con il rigetto del ricorso per cassazione (C. cass., I sez. civ., n. 11163/2011). Dopo la sentenza della CIG, la Germania aveva introdotto un’istanza di revocazione fondata sull’art. 395 c.c. come integrato dall’art. 3 della l. n. 5/2013. Per la Prefettura di Voiotia è stato però agevole replicare che, nel frattempo, la Corte costituzionale ha dichiarato incostituzionale le invocate disposizioni, come pure l’art. 1 della legge di esecuzione della Carta dell’ONU per la parte in cui obbligava il giudice italiano ad applicare la sentenza della CIG. Accogliendo tali argomentazioni, le Sezioni Unite hanno dichiarato inammissibile l’istanza (C. cass., S.U., 24 marzo 2015, n. 9097).
Nel considerare l’impatto della sentenza n. 238 sulla giurisprudenza italiana, non si può trascurare che, mentre ogni decisione della CIG ha effetto solo per le parti in causa e relativamente al caso deciso (art. 59 Statuto CIG), i principi affermati dalla Corte costituzionale nell’esercizio del sindacato di costituzionalità delle leggi hanno un ambito d’applicazione molto più ampio. In proposito, vale la pena soffermarsi su due decisioni adottate dalla Suprema Corte nel 2015. La prima è relativa al caso Opacic Dobrivoje, in cui era coinvolta la responsabilità della Repubblica serba per un crimine di guerra, mentre la seconda ha riguardato, ancora una volta, il riconoscimento di una sentenza pronunciata all’estero (in questo caso, negli Stati Uniti) nei confronti di un terzo Stato (l’Iran), accusato di terrorismo internazionale.
Nel caso Opacic Dobrivoje, alcuni membri dell’esercito della ex Iugoslavia sono stati perseguiti penalmente in Italia per avere abbattuto, nel 1992, un elicottero militare italiano impegnato in una missione di monitoraggio dell’UE (“European Community Monitoring Mission” – ECMM). L’attacco aveva avuto luogo nel territorio della Croazia, il cui distacco dalla Iugoslavia non si era ancora compiuto, e aveva provocato la morte dell’intero equipaggio (4 militari italiani e uno francese). Nel 2013, la Corte d’assise d’appello di Roma, riformando la sentenza di primo grado che aveva condannato soltanto l’esecutore materiale (Ass. Roma, 16 luglio 2008), aveva ritenuto responsabile l’intera catena di comando. In quanto autorità militare che aveva ordinato un deliberato attacco contro persone protette dal diritto internazionale, Opacic Dobrivoje era stato condannato a 28 anni di reclusione e a risarcire gli eredi delle vittime, in solido con la Repubblica serba, quale Stato successore della ex Iugoslavia (Ass. app. Roma, 22 maggio 2013). Nel suo ricorso per cassazione, la Serbia ha considerato pacifico che l’esenzione dalla giurisdizione civile non le sarebbe stata riconosciuta ove fosse provata la commissione di crimini, considerato il noto orientamento contrario della Suprema Corte, ora confermato dalla sentenza n. 238/2014 della Corte costituzionale. Essa ha invece contestato che un attacco isolato contro un obiettivo protetto costituisca un crimine di guerra secondo le norme applicabili (in particolare, l’art. 8 dello Statuto della Corte penale internazionale). Una seconda obiezione riguardava il fatto che, a differenza dei casi relativi ai reclami nei confronti della Germania, i ricorrenti avrebbero potuto avvalersi di altri mezzi per ottenere giustizia, anziché ricorrere ai tribunali italiani.
Sul primo punto, la Corte ha ritenuto che i fatti si inquadrassero nella nozione di crimine di guerra comunemente accettata, ossia una grave violazione del diritto umanitario, non necessariamente estesa o sistematica. Sulla seconda obiezione, la Corte ha autorevolmente confermato una lettura diffusa della sentenza n. 238, secondo la quale sebbene la Corte costituzionale abbia preso in considerazione anche l’argomento del last resort, ciò non è stato determinante per la decisione. Secondo la Cassazione, il contenuto essenziale di quest’ultima è, semplicemente, che l’esenzione dalla giurisdizione interna riconosciuta agli Stati esteri per gli atti iure imperii, in base al diritto internazionale e nazionale, viene meno se è in gioco la tutela giurisdizionale di diritti inviolabili (C. cass., I sez. pen., 14 settembre 2015, n. 43696). Questa conclusione avrebbe forse assorbito un’ulteriore obiezione, che la Serbia, in verità, non ha sollevato e che contribuiva a differenziare il caso Opacic Dobrivoje da quelli riguardanti la Germania, ossia la circostanza che il crimine non era stato commesso, nemmeno in parte, in territorio italiano.
In conclusione, se il contro-limite individuato dalla Corte costituzionale è risultato operante nel caso ora richiamato, ciò è dovuto al fatto che la sua portata non è stata meglio specificata, o circoscritta, come sarebbe stato opportuno, in base, ad esempio, al criterio del locus commissi delicti (come nell’art. 12 della Convenzione ONU) o all’inesistenza di mezzi alternativi di tutela equivalente, principi che avrebbero in parte attenuato il contrasto tra giudizio interno e diritto internazionale. Per altro verso, nel caso Opacic Dobrivoje la Cassazione non ha attribuito un peso decisivo alla soglia di gravità del crimine. È utile ricordare che, nella sentenza Ferrini, invece, la norma a protezione dei diritti umani era stata ritenuta prevalente su altre norme internazionali consuetudinarie – tutte immesse nell’ordinamento italiano – in presenza della “violazione particolarmente grave per intensità e sistematicità dei diritti fondamentali della persona umana …” (Cass.. n. 5044/2004, § 9, corsivo aggiunto). Su questi stessi gravissimi crimini si è poi espressa, in senso conforme, la Corte costituzionale. Ma forse, ancora una volta, essa ha mancato di rendere esplicito un criterio molto rilevante, con il rischio che il contro-limite venga applicato anche in presenza di singoli episodi criminosi, o comunque di crimini che non raggiungono la soglia di gravità di quelli a cui la sentenza n. 238 si riferisce.
Quanto al secondo caso deciso dalla Cassazione nel 2015, esso ha avuto origine, come si è detto, dalla richiesta di exequatur della decisione con cui una corte degli Stati Uniti aveva stabilito la responsabilità civile dell’Iran per avere diretto e facilitato un attacco terroristico compiuto in Israele da una fazione di Hamas, nel quale aveva perso la vita una cittadina statunitense (Corte distrettuale della Columbia, 11 marzo 1998, n. 97-396). Nel giudizio davanti alla Corte d’appello di Roma, l’esenzione degli Stati stranieri dalla giurisdizione civile ed esecutiva era stata eccepita sia dall’Iran che dal governo italiano. L’eccezione era stata accolta, sulla base dell’art. 10, co. 1, Cost. e della decisione della CIG sul caso delle Immunità giurisdizionali dello Stato (App. Roma, 8 luglio 2013, n. 3909). Quando la Corte di cassazione si è pronunciata sul ricorso avverso la decisione della Corte d’appello, il quadro giuridico era però mutato per effetto della sentenza n. 238/2014 della Corte costituzionale. Le Sezioni Unite hanno quindi ritenuto non più applicabile il principio di immunità, perché l’attentato era “riconducibile tra i crimini contro l’umanità, essendosi trattato di un atto criminoso perpetrato nell’ambito di un attacco sistematico e consapevole della inerme popolazione civile, ispirato da ragioni di odio razziale, etnico, politico e religioso e gravemente pericoloso per la sicurezza e l’ordine internazionali” (C. cass., S.U., 30 settembre 2015, n. 21946, § 5).
Questa volta, però, non si è avuta una decisione sfavorevole allo Stato estero, perché la Corte statunitense che si era pronunciata sul caso non era competente a conoscere della causa secondo i criteri sulla competenza giurisdizionale propri dell’ordinamento italiano. Come noto, detti criteri sono richiamati nell’art. 3, par. 1, della l. n. 218/1995, ai fini del riconoscimento delle sentenze straniere. In particolare, l’Iran non aveva potuto avere un proprio rappresentante nel processo celebrato negli Stati Uniti, data l’interruzione, all’epoca, delle relazioni diplomatiche tra i due Stati (v. Ferrajolo, 2016, pp. 8-10). Al riguardo, le Sezioni Unite hanno precisato che i criteri di giurisdizione stabiliti nella legislazione italiana non possono considerarsi superati per effetto della sentenza n. 238 della Corte costituzionale. Da questa, infatti, non deriva “un principio di giurisdizione civile universale per le azioni risarcitorie da delicta imperii ma l’inoperatività della norma consuetudinaria sull’immunità dalla giurisdizione civile in presenza di domande dirette ad ottenere il risarcimento dei danni derivati dalla commissione, nel territorio dello Stato del foro, di crimini di guerra e contro l’umanità” (v. ancora il § 5 della sentenza). In questo caso, la Cassazione sembra dunque ricomprendere l’elemento territoriale tra quelli integranti la fattispecie su cui la Consulta si è pronunciata. A parte questo aspetto, la decisione non lascia dubbi circa il fatto che il contro-limite opera solo dopo che la competenza del giudice italiano sia instaurata, secondo i normali criteri di giurisdizione.
Vale la pena ricordare che, negli Stati Uniti, l’orientamento di cui è espressione, tra molte altre, la citata sentenza nei confronti dell’Iran si è consolidato ulteriormente con l’adozione, il 28 settembre 2016, del Justice against Sponsors of Terrorism Act – JUSTA. In base a tale legge – approvata dal Congresso contro il parere del Presidente Obama –, gli Stati stranieri non godono di esenzione dalla giurisdizione dei tribunali statunitensi in caso di azioni per il risarcimento di danni pecuniari da lesioni a persone o cose, o dalla morte di persone verificatisi in territorio statunitense e causati a) da un atto di terrorismo internazionale commesso nel territorio degli Stati Uniti, oppure b) da un atto illecito dello Stato straniero, compiuto nell’esercizio di funzioni pubbliche, “regardless where the tortious act or acts of the foreign state occurred” (JUSTA, Section 3).
Viceversa il Parlamento italiano, dopo avere adottato con la l. n. 5/2013 disposizioni volte a consentire che la sentenza della CIG dispiegasse tutti i suoi effetti in Italia, ha proseguito in direzione analoga, anche dopo che quelle disposizioni sono state dichiarate incostituzionali. Con l’art. 19 bis della l. 10 novembre 2014, n. 162, esso ha infatti stabilito che i conti correnti delle rappresentanze diplomatiche e consolari straniere in Italia sono sottratti all’esecuzione forzata in modo automatico (ossia senza il vaglio di un giudice), in presenza di una semplice dichiarazione del capo-missione che le somme depositate sono destinate esclusivamente all’espletamento di funzioni pubbliche. Questa norma anacronistica (Conforti, 2015) potrebbe da un lato vanificare, nei casi concreti, gli effetti delle sentenze che stabiliscono obblighi di risarcimento a carico della Germania o di altri Stati e, dall’altro, originare un nuovo ricorso alla Corte costituzionale. Non è chiaro, infatti, se i principi affermati nella sentenza n. 238/2014 riguardino esclusivamente l’immunità dalla giurisdizione di cognizione o anche da quella esecutiva (nel senso dell’esclusione di quest’ultima, Pustorino, 2015, p. 52 ss.).
5. Pluralismo degli ordinamenti giuridici, “contro-limiti” e diritti umani
Come già osservato, la decisione adottata dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 238/2014, più che innovare, ha portato a logiche conseguenze l’applicazione di principi già noti e ripetutamente affermati.
Nella sentenza Russel del 1979, riguardante le immunità degli agenti diplomatici, la Corte aveva già stabilito che “… per quanto attiene alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute che venissero ad esistenza dopo l’entrata in vigore della Costituzione, … il meccanismo di adeguamento automatico previsto dall’art. 10 Cost. non potrà in alcun modo consentire la violazione dei principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale …”. (sent. n. 48/1979, § 3 delle considerazioni in diritto). Rispetto a questo precedente, la sentenza n. 238/2014 ha ampliato l’ambito di applicazione dei “contro-limiti”, in quanto la norma consuetudinaria sull’immunità giurisdizionale degli Stati stranieri è sicuramente anteriore alla Costituzione. A parte questo aspetto, non si può negare la sostanziale continuità della giurisprudenza della Consulta in materia. La sentenza Baraldini, in particolare, presenta numerosi elementi di affinità con il caso in esame, specie nel punto in cui la Corte ha precisato che “I ‘principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale’ e i ‘diritti inalienabili della persona’ costituiscono … limite all’ingresso tanto delle norme internazionali generalmente riconosciute …; quanto delle norme contenute in trattati istitutivi di organizzazioni internazionali aventi gli scopi indicati dall’art. 11 della Costituzione o derivanti da tali organizzazioni …” (C. cost. n. 73/2001, § 3.1 delle considerazioni in diritto). Gli aspetti relativi all’art. 11, che non sono stati espressamente considerati nella sentenza n. 238/2014, saranno invece centrali, prevedibilmente, se la Corte si pronuncerà nel merito di un’ulteriore invocazione di “contro-limiti” che si è profilata, questa volta, con riguardo al diritto dell’UE. Ci riferiamo alla questione di legittimità costituzionale della legge di ratifica ed esecuzione del Trattato di Lisbona (l. n. 130/2008), che è stata sollevata, prima dalla Corte d’appello di Milano e poi dalla Cassazione, in relazione agli effetti interni della sentenza Taricco della Corte di giustizia dell’UE. Nell’opinione dei giudici remittenti, tale sentenza contrasterebbe, in quanto apportatrice di una sorta di ius superveniens in tema di prescrizione di reati finanziari, con il principio di legalità ex art. 25 Cost., sicuramente appartenente al novero di quelli fondanti l’ordinamento nazionale (v. le ordinanze di rimessione App. Milano, II. sez. pen., 18 settembre 2015, in Diritto penale contemporaneo, e C. cass., III sez. pen., 16 marzo 2016, in Giurisprudenza penale; per una critica ‘preventiva’ all’eventuale accoglimento, Mastroianni, 2016).
Tornando alla sentenza n. 238/2014, è da ribadire che, per le ragioni già chiarite, essa non è in discontinuità ma in coerenza con le sentenze “gemelle” del 2007. Queste, infatti, nel considerare con estrema ampiezza l’incidenza delle norme immesse nell’ordinamento nazionale (compresa l’interpretazione delle corti internazionali competenti), hanno anche ribadito l’esistenza di limiti costituzionali invalicabili. Prima della sentenza n. 238, del resto, si era già avuto un caso concreto in cui l’applicazione dei “contro-limiti” aveva condotto la Corte costituzionale a una decisione palesemente in contrasto con quella di un giudice internazionale. Nella sentenza n. 264/2012, infatti, l’obbligo di applicare la CEDU nel diritto interno, così come interpretata dalla Corte europea dei diritti umani nel caso Maggio e altri c. Italia sulle c.d. “pensioni svizzere”, è risultato soccombente nel bilanciamento con valori supremi dell’ordinamento nazionale (peraltro non bene specificati). Pur non esente da critiche (Pustorino, 2013), la decisione non ha sollevato particolari reazioni sul piano nazionale o internazionale, e a ragione. Infatti, “il diritto internazionale non [può] pretendere di essere applicato fino al limite di rottura con valori costituzionalmente protetti” (Conforti, 2013, p. 529).
È dubbio, peraltro, che i “contro-limiti” – quali sono venuti affermandosi, nel corso degli anni, nella giurisprudenza costituzionale dell’Italia, della Germania e di altri Stati – possano valere, sul piano del diritto internazionale, come causa di esclusione dell’illiceità di una condotta contraria a un obbligo internazionale. Se è stato ipotizzato che un limite di applicazione a salvaguardia dei fondamenti dell’ordine interno sia intrinseco al diritto internazionale (Conforti, op. loc. cit.), numerosi elementi depongono in senso contrario (Tanzi, 2015, p. 23 ss.). Un dibattito simile ha riguardato, a suo tempo, la possibilità di invocare la violazione di norme interne sulla competenza a stipulare quale vizio del consenso invalidante il trattato, regola poi introdotta nell’art. 46 della Convenzione di Vienna del 1969. Infatti, durante i lavori di codificazione, questa eccezione alla regola generale dell’irrilevanza del diritto interno era recisamente negata da alcuni, mentre altri la ritenevano organica al diritto internazionale (cfr. International Law Commission, “Draft Articles on the Law of Treaties with Commentaries”, 1966, “Article 46”, p. 240 ss.). È quindi possibile che una seconda eccezione si consolidi con il tempo, se sostenuta da una prassi più generalizzata e dall’opinio iuris degli Stati. In tal senso, è vero che la sentenza n. 238 della Corte costituzionale può contribuire a futuri sviluppi nel diritto internazionale, non solo in tema di immunità (Pisillo Mazzeschi, 2015, pp. 27-28).
Del resto, l’esistenza di una pluralità di ordinamenti giuridici comporta la possibilità di qualche divergenza (temporaneamente) inconciliabile. Può accadere che alla violazione di un obbligo internazionale corrisponda un comportamento considerato legittimo, o addirittura dovuto nell’ordinamento nazionale (Morelli, p. 73 ss.). Se è vero che la divergenza va risolta adattando il diritto interno agli obblighi internazionali dello Stato, nel caso della sentenza n. 238/2014 la soluzione inversa sembra quella auspicabile. Questa apparente anomalia si spiega con il fatto che la tutela dei diritti umani e il divieto dei crimini appartengono al diritto internazionale non meno che alla Costituzione italiana. Il conflitto che si è delineato, dunque, esiste non tanto tra questi ultimi, quanto tra due norme del diritto internazionale, anche se il “conservatorismo” della CIG ha impedito di risolverlo nella sua sede naturale (Lanciotti e Longobardo, 2015, p. 5). È quindi da condividere l’opinione che la netta divergenza tra giudizio interno e giudizio internazionale sia stata frutto di un “concorso di colpa”, in cui la CIG ha la maggiore responsabilità (Gradoni, 2014, p. 184).
Il “dialogo a distanza” tra Corti è diventato una costante nell’applicazione dei diritti umani, almeno in Europa, dove il confronto tra la giurisprudenza, rispettivamente, della Corte di giustizia dell’UE, della Corte europea dei diritti umani e dei tribunali nazionali presenta importanti profili di convergenza, ma anche divergenze, più o meno occasionali (Villani, 2012, p. 4). A maggior ragione, è normale che si manifestino divergenze, come nel caso Kadi, tra il contesto normativo e istituzionale europeo, relativamente omogeneo, e quello dell’ONU, molto più articolato. L’operare di più corti – internazionali, regionali e nazionali – può determinare delle incongruità, se più d’una è chiamata a pronunciarsi su uno stesso caso. Di fatto, però, esso si traduce quasi sempre in una maggiore garanzia di tutela dei diritti degli individui. Basti ricordare, che l’Italia è stata più volte censurata dalla Corte europea dei diritti umani proprio per la violazione del diritto a un rimedio giurisdizionale effettivo (art. 13 della CEDU). Paradossalmente, nel caso della extraordinary rendition di Abu Omar, sospettato di terrorismo internazionale, la violazione dell’art. 13 della CEDU (in connessione agli artt. 3, sul divieto di tortura e 8, sul rispetto della vita privata e familiare) è derivata principalmente dalla valutazione della Corte costituzionale italiana secondo cui il potere dell’Esecutivo di opporre il segreto di stato dovesse prevalere sul diritto della vittima a un giudizio effettivo nei confronti di tutti i responsabili. Questa decisione è stata presa e reiterata dalla Consulta, nonostante i fatti in causa presentassero un inquadramento quanto meno dubbio nella legislazione nazionale sul segreto di stato, a fronte della sicura presenza di atti gravemente lesivi di diritti inviolabili (v. C. cost. n. 106/2009 e n. 24/2014). Ponendo mente a quella decisione, o al caso precedente Hirsi Jamaa – nel quale la violazione del divieto di refoulement da parte delle autorità italiane ha causato, tra l’altro, l’impossibilità per i migranti di avere accesso a qualsiasi forma di tutela giurisdizionale –, è difficile non ritenere che la sentenza n. 238/2014 sia stata, nella sostanza, molto più coerente con il diritto internazionale (dei diritti umani).
Non a caso, un criterio che è stato proposto per valutare l’applicazione dei “contro-limiti” dal punto di vista dell’ordinamento internazionale fa leva proprio sull’elemento della maggiore o minore aderenza del giudizio interno a valori ‘universali’. Così, mentre la divergenza tra la sentenza della CIG e la sentenza n. 238/2014 della Corte costituzionale sembra collocarsi prevalentemente sul piano dell’interpretazione e applicazione di norme presenti in entrambi gli ordinamenti rilevanti, non può dirsi altrettanto della sentenza n. 264/2012 sulle “pensioni svizzere”, già citata. Infatti, in quella occasione la decisione della Corte costituzionale italiana è stata espressione di una preoccupazione (quella di salvaguardare il bilancio dello Stato in tempo di crisi, anche al prezzo di una diminuita tutela dei diritti sociali) che – a differenza del diritto al giudice quale garanzia di diritti inviolabili – non può trovare riconoscimento nella CEDU o nel diritto internazionale generale (Cataldi, 2015, p. 47 s.).
Tali considerazioni non valgono a eliminare – allo stato – il carattere internazionalmente illecito dei giudizi interni contrari ad obblighi internazionali. Tuttavia, il criterio proposto appare quanto meno utile a distinguere tra una prassi di applicazione dei “contro-limiti” palesemente contra legem ed una prassi che potrebbe considerarsi infra legem dal punto di vista del diritto internazionale. La sentenza n. 238/2014 ricade certamente nella seconda ipotesi. Infatti, che la si guardi come un tentativo di stabilire un limite all’immunità giurisdizionale degli Stati in presenza di crimini, o di configurare – a tutela dei supremi valori costituzionali – una possibile eccezione all’irrilevanza del diritto interno quale causa di esclusione dell’illiceità della violazione di un obbligo internazionale, essa tende chiaramente a colmare un vuoto, facendo emergere regole di condotta plausibili e coerenti con il diritto internazionale vigente, anche se non (ancora) contemplate da norme consuetudinarie.
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© Ornella Ferrajolo, dicembre 2016.
Citazione: O. Ferrajolo, La sentenza n. 238/2014 della Corte costituzionale e i suoi seguiti: alcune osservazioni a favore di un approccio costruttivo alla teoria dei “contro-limiti”, in L’Italia e l’applicazione del diritto internazionale. Rassegna dell’Istituto di Studi Giuridici Internazionali del Consiglio Nazionale delle Ricerche, diretta da G. Palmisano e O. Ferrajolo, n. 2: 2014-2015, Roma, 2016, http://www.larassegna.isgi.cnr.it/focus-la-sentenza-n-2382014-della-corte-costituzionale-e-i-suoi-seguiti-alcune-osservazioni-a-favore-di-un-approccio-costruttivo-alla-teoria-dei-contro-limiti/