L'Italia e l'applicazione del Diritto internazionale

Rassegna dell'Istituto di Studi Giuridici Internazionali
del Consiglio Nazionale delle Ricerche

FOCUS: Non discriminazione e violenza di genere in Italia al vaglio degli organi internazionali di controllo

di Rachele Cera* - Novembre 2019

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SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. La violenza di genere nel diritto internazionale: una questione di diritti umani. – 3. Obblighi degli Stati e standard di due diligence nel diritto internazionale e nella prassi degli organi internazionali. – 4. La normativa italiana sul contrasto alla violenza di genere. – 5. Valutazione della normativa italiana da parte degli organi internazionali di controllo. – 6. Il rispetto dello standard di due diligence da parte dell’Italia: la sentenza della Corte EDU nel caso Talpis c. Italia. – 7. Riflessioni sulle prospettive di evoluzione in Italia. – 8. Riferimenti bibliografici.

1. Premessa

L’intervallo temporale 2016-2017 del terzo numero della Rassegna è caratterizzato dalla presentazione da parte dell’Italia del settimo Rapporto periodico (CEDAW/C/ITA/7) relativo ai progressi realizzati nel periodo 2011–2015 nell’attuazione della Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione nei confronti delle donne (CEDAW). Il Comitato CEDAW ha esaminato il rapporto italiano nel luglio del 2017 ed ha rivolto all’Italia le sue Osservazioni conclusive (CEDAW/C/ITA/CO/7), molte delle quali dedicate alla questione della violenza di genere contro le donne1. Nel 2017 il Comitato CEDAW ha adottato anche la Raccomandazione generale n. 35 sulla violenza di genere contro le donne, che integra e aggiorna la Raccomandazione generale n. 19 del 1992, dando nuovo slancio alla considerazione della questione a livello internazionale e nazionale. Sempre nel 2017, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha reso la sentenza n. 41237/14 sul noto caso Talpis c. Italia, che ha ridefinito gli obblighi degli Stati in materia di contrasto della violenza domestica, suscettibile di avere un sostanziale impatto sulla giurisprudenza interna in Italia e all’estero.

Dall’indagine ISTAT 2015 sono emersi segnali di miglioramento rispetto alla situazione fotografata nel 2006, ma le violenze rilevate si sono manifestate con forme più gravi ed è aumentato il numero di donne che hanno temuto per la propria vita (dal 18,8% del 2006 al 34,5% del 2014).

Tutto questo dà la misura di quanto il fenomeno della violenza contro le donne continui ad essere in Italia ancora molto diffuso e strutturale, nonostante i profondi cambiamenti realizzati nella legislazione italiana rilevante. Infatti, dalle norme del Codice penale del 1930 che collocavano l’aggressione sessuale tra i reati contro la moralità pubblica e il buon costume, prevedevano effetti estintivi dei reati sessuali nell’ipotesi di “matrimonio riparatore” e attenuavano le pene in sussistenza della causa d’onore, il quadro normativo italiano si è progressivamente evoluto, spesso al fine di dare esecuzione agli obblighi convenzionali o riscontro alle sollecitazioni provenienti da organi internazionali.

Tuttavia, tale evoluzione non sembra essere in linea con gli strumenti giuridici internazionali in materia e la loro interpretazione da parte degli organi di controllo, né si è dimostrata idonea a contrastare la diffusione del fenomeno in Italia. Si rende, pertanto, opportuna una riflessione sul grado di sviluppo della normativa e delle politiche adottate in Italia per il contrasto alla violenza di genere contro le donne alla luce della loro valutazione da parte degli organi internazionali di controllo.

  • * Ricercatore di diritto internazionale presso l’Istituto di Studi Giuridici Internazionali (ISGI) del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR).
  • 1 L’Italia ha ratificato la CEDAW ai sensi della l. n. 132/1985 e ha aderito al Protocollo opzionale il 29 ottobre 2002.

2. La violenza di genere nel diritto internazionale: una questione di diritti umani

I significativi progressi realizzati negli ultimi anni a livello internazionale nel contrato alla violenza di genere contro le donne sono il risultato del riconoscimento esplicito della violenza come una questione di diritti umani, intrinsecamente radicata nella risalente e diffusa discriminazione nei confronti delle donne.

I trattati internazionali sui diritti umani, anche se vietano ogni forma di violenza, non contemplano espressamente la violenza contro le donne. Nemmeno la Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione nei confronti delle donne (CEDAW), che in modo estensivo protegge i diritti delle donne, contiene una disposizione specifica in materia, anche se molte delle sue disposizioni anti-discriminatorie erano sono state a lungo ritenute idonee a tutelare le donne dalla violenza.2

Se, quindi, l’affermazione del diritto all’eguaglianza e il divieto di discriminazione delle donne sono da tempo principi consolidati del diritto internazionale dei diritti umani, il tema della violenza contro le donne ha incontrato molte resistenze nel sistema dei diritti umani. A lungo il nodo centrale è stato il riconoscimento dell’appartenenza di questo tema alla sfera dei diritti umani, inquadrandosi nel dibattito generale relativo alla responsabilità degli Stati rispetto alle violazioni dei diritti umani compiute da soggetti privati. La violenza contro le donne era considerata come una questione circoscritta al diritto nazionale, spettando agli Stati nell’ambito della loro sovranità stabilire se e quali azioni definire reato e come reprimere tali reati.

Soltanto con la sua qualificazione come violazione dei diritti umani, in particolare come forma di discriminazione, la violenza contro le donne è stata sganciata dal contesto nazionale di protezione da parte dello Stato e integrata nell’alveo del diritto internazionale dei diritti umani. Questo passaggio è stato segnato dall’adozione della Raccomandazione generale n. 19 del Comitato CEDAW del 1992 (A/47/38), che ha integrato la violenza di genere nella definizione di discriminazione contro le donne di cui all’art. 1 della CEDAW3, ed è stato ribadito nella Dichiarazione delle Nazioni Unite sull’eliminazione della violenza contro le donne del 1993 (A/RES/48/104), che ha riconosciuto la violenza contro donne come violazione dei diritti umani, fino ad essere consacrato in strumenti giuridici vincolanti, quali la Convenzione inter-americana sulla prevenzione, punizione e sradicamento della violenza contro le donne del 1994 (Convenzione di Belém do Pará) e la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica del 2011 (Convenzione di Istanbul).

Con la Raccomandazione generale n. 35 del 2017, il Comitato CEDAW riprende gli aspetti di diritto sostanziale, così come i profili collegati alla qualificazione degli atti di violenza già trattati nella Raccomandazione n. 19 del 1992. Se in quel momento storico il Comitato si trovava a colmare un vuoto pressoché assoluto sul piano del diritto internazionale dei diritti umani in questa materia, il nuovo documento rafforza gli obblighi di protezione delle donne dalla violenza nelle relazioni affettive e familiari, nei luoghi di lavoro e in ogni altro ambito della vita sociale e privata, allargando così la fenomenologia della violenza in un’ottica intersezionale, che tiene conto delle tante differenze di cui le donne sono portatrici e sulle quali si innestano le discriminazioni di cui sono vittime. Proprio nel cambiamento delle norme sociali la Raccomandazione identifica un passaggio fondamentale per interrompere la spirale che permette il reiterarsi della violenza, anche sulla base di tradizioni culturali o religiose che di fatto negano il principio dell’eguaglianza di genere e veicolano forme plurali di violazioni dei diritti delle donne.

La principale innovazione della Raccomandazione del 2017 è costituita dall’affermazione che “l’opinio juris e la prassi degli Stati suggeriscono che la proibizione della violenza basata sul genere è evoluta in un principio di diritto internazionale consuetudinario” (par. 2). Sebbene in dottrina siano state sollevate perplessità sulla rilevazione di un “valore comune” emergente dalla prassi degli Stati per tutte le forme di violenza contro le donne (v. De Vido, 2018, p. 390 ss.), l’affermazione del Comitato CEDAW è intesa a riconoscere come patrimonio comune la consapevolezza dello stretto legame tra discriminazione e violenza contro le donne. La violenza, infatti, è legata alle strutture sociali e culturali delle relazioni donna/uomo che, in ragione del ruolo tradizionalmente riconosciutole, pongono la donna in una posizione di marginalità, sia dentro che fuori le mura domestiche, e rendono accettabili fattori socio-ambientali che possono dar luogo a una predisposizione specifica delle donne a subire aggressioni e a diventare soggetti passivi di certi reati. Tale prospettiva si riflette nella nuova definizione di violenza di genere contro le donne contenuta nella Raccomandazione n. 35. Sottolineando le cause sociali del fenomeno, la Raccomandazione osserva infatti che la violenza di genere è radicata nel diritto, nel privilegio e nell’affermazione del controllo e del potere maschili, che mantengono l’impunità diffusa per gli atti di violenza contro le donne (par. 19).

  • 2 V. l’art. 2 CEDAW che impegna gli Stati parti a perseguire una politica di eliminazione della discriminazione contro le donne e l’art. 5, par. a, CEDAW che impone di adottare ogni misura adeguata al fine di modificare gli schemi e i modelli di comportamento socio-culturale degli uomini e delle donne e di giungere ad una eliminazione dei pregiudizi e delle pratiche consuetudinarie o di altro genere, che siano basate sulla convinzione dell’inferiorità o della superiorità dell’uno e dell’altro sesso o sull’idea dei ruoli stereotipati degli uomini e delle donne.
  • 3 Intesa come “violenza diretta contro una donna perché è una donna o che colpisce le donne in modo sproporzionato Include atti che infliggono danni fisici, mentali o sessuali o sofferenze, minacce di tali atti, coercizione e altre privazioni della libertà”.

3. Obblighi e standard di due diligence secondo diritto internazionale e nella prassi degli organi internazionali

Inquadrata nel diritto internazionale dei diritti umani, la violenza contro le donne implica inequivocabilmente per gli Stati un problema di responsabilità, imponendo loro obblighi diretti a contrastare a diversi livelli la violenza contro le donne intesa nella sua più ampia accezione, sia essa perpetrata dallo Stato o da privati.

Tradizionalmente gli obblighi previsti dagli strumenti giuridici internazionali sui diritti umani si classificano come obblighi di rispetto, protezione e attuazione. Nel contesto della violenza di genere, tali obblighi si traducono negli obblighi di prevenire, indagare e sanzionare gli atti di violenza e di fornire rimedi alle vittime.

La determinazione della responsabilità dello Stato differisce a seconda che la violazione venga commessa dallo Stato – attraverso i suoi organi o funzionari – oppure da attori non statali. In quest’ultimo caso, la responsabilità dello Stato sussiste non per l’atto o omissione in sé, ma perché lo Stato non ha adottato misure ragionevoli e adeguate per prevenire o reprimere la violazione secondo il c.d. standard della due diligence. Tale concetto espande il perimetro della responsabilità degli Stati ed è particolarmente rilevante nel contesto della lotta alla violenza contro le donne per diverse ragioni. In primo luogo, l’obbligo di due diligence supera la visione dicotomica pubblico/privato della violenza contro le donne, idonea a produrre una sorta di effetto normalizzante della violenza nella sfera privata e a giustificare un intervento meno intenso dello Stato in tali situazioni rispetto a episodi di violenza ‘pubblica’. In secondo luogo, la due diligence pone l’accento sulla prevenzione, fungendo da correttivo al focus sulla repressione dominante in materia. In particolare, l’obbligo di due diligence richiede che i programmi, le politiche e le pratiche si concentrino sulle radici della violenza di genere, combattendo gli stereotipi, affrontando le ineguaglianze economiche di genere, garantendo l’accesso all’empowerment politico e al processo decisionale

I rapporti tematici delle Relatrici speciali delle Nazioni Unite sulla violenza contro le donne, le sue cause e conseguenze hanno contribuito a precisare la portata della responsabilità degli Stati nel contrasto alla violenza di genere(Coomaraswamy, E/CN.4/1999/68, 1999, para. 23-24; Ertürk, E/CN.4/2006/61, 2006, para. 69-115; Manjoo,A/HRC/23/49, 2013). Quello della Relatrice speciale Rashida Manjoo del 2013 è interamente dedicato allo studio delle responsabilità e degli obblighi degli Stati in materia. In generale, lo Stato è responsabile di ogni azione e/o omissione commessa da attori statali o da qualunque altro soggetto che agisce per conto dello Stato. Inoltre, secondo il principio della due diligence, lo Stato ha anche l’obbligo di intervenire per atti e/o omissioni compiuti da attori non statali.

Stando a quanto emerge dal Rapporto, lo standard della due diligence è il parametro di riferimento per accertare gli adempimenti e le eventuali mancanze dello Stato nella lotta contro la violenza sulle donne (v. Goldscheid, Liebowtiz, 2015). Sulla base di tale parametro vengono identificati gli obblighi degli Stati, distinguendo lo standard di due diligence in due categorie: quella individuale e quella sistemica. La due diligence individuale si riferisce alla catena di obblighi degli Stati verso le vittime di violenza, dalla protezione alla punizione, dalla messa a disposizione di rimedi efficaci fino all’assistenza nella ricostruzione post-violenza. La due diligence sistemica concerne l’obbligo degli Stati di assicurare un modello olistico e duraturo di prevenzione, protezione, punizione e riparazione per atti di violenza contro le donne. In questa prospettiva, oltre a rendersi partecipi di una trasformazione generale della società per combattere le ineguaglianze e la discriminazione strutturale di genere, gli Stati sono tenuti ad adottare o modificare la normativa nazionale, a sviluppare strategie, piani di azione e campagne di sensibilizzazione sul tema, a rafforzare le capacità dei servizi di polizia e del sistema giudiziario.

Con la Raccomandazione generale n. 35 del 2017, il Comitato CEDAW ha enucleato gli obblighi degli Stati nel contesto della Convenzione, allargando e completando la struttura elaborata nelle precedenti raccomandazioni.

In primo luogo, il Comitato ha ribadito la regola generale, codificata negli Articoli sulla responsabilità dello Stato per fatti internazionalmente illeciti della Commissione di diritto internazionale del 2001, secondo cui gli Stati sono responsabili per atti o omissioni dei propri organi, riallacciandola agli obblighi di protezione antidiscriminatoria contenuti nell’art. 2 della CEDAW (CEDAW/C/GC/35, para. 22). Rientrerebbero in questa forma di violenza c.d. ‘istituzionale’, come definita dalla Corte inter-americana dei diritti dell’uomo nella decisione del 2010 sul caso Fernandez Ortega e al. c. Messico, le violenze commesse da militari o nei confronti di detenute all’interno di carceri gestite dallo Stato (De Vido, 2018, p. 388; Khair, 2003, p. 28 ss.). Sollevano profili di responsabilità dello Stato anche le azioni o omissioni di attori non statali, intesi quali attori privati autorizzati a esercitare elementi dell’autorità governativa, compresi gli organismi privati che forniscono servizi pubblici, come l’assistenza sanitaria o l’istruzione (CEDAW/C/GC/35, par. 24, lett. a).

Quanto alla violenza commessa da privati, gli Stati sono responsabili quando non agiscono con la dovuta diligenza per prevenire, proteggere, perseguire, punire e fornire riparazione per tali atti in virtù dell’art. 2, par. e, della CEDAW in base al quale gli Stati adottano le misure appropriate per eliminare la discriminazione contro le donne da parte di qualunque persona, organizzazione o impresa. In tale contesto, il Comitato CEDAW specifica che costituiscono violazioni dei diritti umani la mancata adozione di tutte le misure appropriate per prevenire atti di violenza di genere contro le donne nei casi in cui le autorità statali sono consapevoli o debbano essere consapevoli del rischio di violenza, o la mancata investigazione, prosecuzione in giudizio e sanzione degli autori, e riparazione alle vittime di tali atti, come anche il tacito consenso o l’incoraggiamento a perpetrare atti di violenza di genere contro le donne.

Delineando in tal modo gli obblighi degli Stati, la Raccomandazione recepisce e diffonde al livello universale il c.d. “approccio delle 4 P” (prevention, protection, prosecution e integrated policies) alla base della Convenzione di Istanbul. Quest’ultima rappresenta il livello più avanzato dello standard internazionale di prevenzione e contrasto della violenza di genere, di protezione delle vittime e di criminalizzazione dei responsabili. Gli obblighi degli Stati contraenti sono precisati nell’art. 5 della Convenzione (States obligations and Due Diligence): all’obbligo generale diastensione da condotte integrative di violenza contro le donne direttamente o indirettamente imputabili agli organi statali, si accompagna la prescrizione dello standard di due diligence nel prevenire, indagare, punire i responsabili ericonoscere alle vittime adeguate misure di riparazione per i casi di violenza imputabili a soggetti privati. Tali obblighi rispondono ai quattro momenti costitutivi dell’architettura garantistica convenzionale, corrispondenti alle quattro “P” di prevenzione, protezione delle vittime, prosecuzione degli autori delle violazioni e politiche integrate per il contrasto e l’eliminazione della violenza contro le donne e della violenza domestica. La Convenzione contiene anche specifiche disposizioni di interesse penalistico che sanciscono obblighi di penalizzazione di condotte costitutive di fattispecie di violenza, ovvero lesive di diritti fondamentali e discriminatorie nel senso precisato dalla Convenzione.

Dall’insieme delle norme convenzionali e delle indicazioni provenienti dagli organismi internazionali di controllo si ricava un quadro dettagliato di obblighi degli Stati e di orientamenti pratici su come realizzarli a cui fare riferimento per valutare la conformità della normativa italiana in materia.

4. La normativa italiana sul contrasto alla violenza di genere

Le norme, soprattutto di diritto penale sostanziale e processuale, emanate dal legislatore italiano negli ultimi trent’anni sono ispirate da una ratio di incremento della risposta repressiva ai reati di genere, da un lato, e di implementazione degli strumenti giuridici internazionali di tutela delle donne dalla violenza, dall’altro.

Il tassello della normativa italiana in materia di violenza contro le donne è costituto dalla l. n. 66/1996, a partire dalla quale la violenza sessuale contro le donne è qualificata come reato contro la persona, e non più come un’offesa contro la morale e il buon costume. Con la l. n. 154/2001 è stato previsto l’allontanamento del familiare violento e sono state introdotte misure di protezione sociale per le donne che subiscono violenza. Le mutilazioni genitali femminili sono vietate come figura delittuosa e sanzionate come ipotesi autonoma rispetto alla fattispecie di base di lesioni personali dalla l. n. 7/2006. Il d l. n. 11/2009, convertito con modificazioni in l. n. 38/2009, ha introdotto nel codice penale la fattispecie di stalking (art. 612 bis c.p.), sanzionando la consumazione di atti persecutori consistenti nella reiterazione di condotte di molestia o minaccia idonee a cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura. In attuazione della Convenzione di Lanzarote, la l. n. 172/2012 di autorizzazione alla ratifica ha apportato modifiche alla fattispecie di maltrattamenti in famiglia (art. 572 c.p.) e ha raddoppiato i termini di prescrizione in relazione a vari reati, tra cui quelli di violenza sessuale e maltrattamenti (art. 157 c.p.).

Il vero giro di boa si registra nel 2013 quando, subito dopo la ratifica della Convenzione di Istanbul da parte dell’Italia in base alla l. n. 77/2013, il legislatore italiano affrontava “il susseguirsi di eventi di gravissima efferatezza in danno di donne e il conseguente allarme sociale che ne è derivato”, adottando, nelle forme della decretazione d’urgenza, un articolato intervento normativo teso “ad inasprire, per finalità dissuasive, il trattamento punitivo degli autori di tali fatti, introducendo, in determinati casi, misure di prevenzione finalizzate alla anticipata tutela delle donne e di ogni vittima di violenza domestica”. Veniva così introdotto dal Capo dello Stato, il d.l. n. 93/2013, poi convertito con modifiche nella l. n. 119 /2013, individuando nei molteplici episodi di femminicidio degli ultimi anni “i casi straordinari di necessità e urgenza” che giustificano l’eccezionale potere legislativo del Governo previsto dall’art. 77 della Costituzione.

Da subito l’adozione del d.l. n. 93/2013 è stata accompagnata da numerose ed aspre critiche da parte degli operatori del diritto, prima tra tutti l’Unione delle Camere penali, che hanno evidenziato l’inadeguatezza dello strumento della decretazione d’urgenza per affrontare un problema così rilevante e radicato come quello della violenza di genere (Unione delle Camere penali, 2013). In particolare, è stato ritenuto inopportuno il rilievo dato quasi esclusivamente al profilo repressivo rispetto all’elemento educativo e culturale che è alla base della prevenzione, sottolineando lo stridio di questo approccio con lo spirito della Convenzione di Istanbul nel cui preambolo si riconosce che “il raggiungimento dell’uguaglianza di genere, de iure e de facto, è un elemento chiave per prevenire la violenza contro le donne” e che “la violenza contro le donne è una manifestazione dei rapporti storicamente diseguali tra sessi che hanno portato alla discriminazione nei loro confronti da parte degli uomini e impedito la loro piena emancipazione”.

Alcune modifiche introdotte dalla l. n. 119/2013 nel diritto penale sostanziale e processuale hanno adeguato la normativa italiana alla Convenzione di Istanbul. Tra queste, la previsione di circostanze aggravanti in relazione a contesti fattuali di accentuato disvalore (art. 46 della Convenzione di Istanbul), come l’aggravante della consumazione del reato in presenza o in danno di minore (c.d. violenza assistita) o in danno di persona in stato di gravidanza. Ulteriori circostanze aggravanti sono state inserite con riferimento alla fattispecie di violenza sessuale commessa in danno di vittima in stato di gravidanza o da soggetto legato alla vittima da relazione affettiva. Sotto il profilo processuale, le modifiche introdotte concernono le misure cautelari (allontanamento dalla casa familiare), gli strumenti di indagine (intercettazioni telefoniche), le misure coercitive (arresto obbligatorio in flagranza) e altre misure dirette a tutelare le vittime durante la trattazione dei processi, dando ad esempio la priorità assoluta, nella formazione dei ruoli di udienza, alla trattazione dei processi aventi ad oggetto i delitti di maltrattamenti in famiglia, atti persecutori e violenza sessuale, con la ratio di evitare una ‘vittimizzazione secondaria’ della donna.

Altri aspetti positivi riguardano il reato di stalking che è stato modificato con particolare riferimento al regime della querela di parte. La querela è irrevocabile se il fatto è stato commesso mediante minacce reiterate e aggravate; in tutti gli altri casi, comunque, una volta presentata la querela, la rimessione potrà avvenire soltanto in sede processuale. Il delitto resta perseguibile d’ufficio se il fatto è commesso nei confronti di un minore o di una persona con disabilità, nonché quando il fatto è connesso ad altro delitto per il quale si deve procedere d’ufficio. La riforma ha inoltre previsto una aggravante quando il fatto è commesso attraverso strumenti informatici o telematici.

Particolarmente delicato è il profilo relativo alla verifica della conformità dell’ordinamento agli obblighi riconducibili alle esigenze di prevenzione e protezione egualmente contemplati dal regime convenzionale. L’art. 5 della l. 119/2013 rinvia a un secondo momento l’adozione di un “Piano d’azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere” volto a garantire azioni idonee a raggiungere le finalità indicate nella Convenzione in materia di informazione, prevenzione, sensibilizzazione, educazione, formazione, monitoraggio e potenziamento delle strutture di sostegno per le vittime e per i minori coinvolti.

Il governo italiano ha prodotto negli anni tre Piani di azione nazionale: il primo del 2011 Piano nazionale contro la violenza di genere e lo stalking, il secondo Piano di azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere 2015-2017 e il terzo, Piano strategico nazionale sulla violenza maschile contro le donne 2017-2020. Sia il primo che il secondo Piano sono stati fortemente criticati per la loro impostazione emergenziale e non di intervento strutturale e per le misure ritenute generiche e prive di concretezza, con accento quasi esclusivo sulla protezione.

È solo quando si struttura il Piano strategico 2017-2020 (il c.d. terzo Piano) che si tenta una programmazione che possa prevedere modifiche strutturali e di lunga durata mirando a un cambiamento culturale sulla violenza contro le donne. Gli obiettivi del Piano riflettono quelli della Convenzione di Istanbul. In materia di prevenzione, le priorità sono il rafforzamento del ruolo strategico del sistema educativo, la formazione degli operatori del settore pubblico e del privato sociale, l’attivazione di programmi di intervento per gli uomini autori o potenziali autori di violenza, la sensibilizzazione dei mass media sul ruolo di stereotipi e sessismo. Sul versante della protezione e del sostegno alle vittime, il Piano si articola secondo la presa in carico delle vittime da parte di servizi specializzati (centri antiviolenza e case rifugio), percorsi di empowerment economico, lavorativo, autonomia abitativa e azioni specifiche di protezione e supporto dei minori vittime di violenza assistita. Quanto alla repressione dei reati, le priorità indicate nel Piano sono garantire la tutela delle donne vittime di violenza (compreso lo stalking) attraverso una efficace e rapida valutazione e gestione del rischio di letalità, gravità, reiterazione e recidiva; migliorare l’efficacia dei procedimenti giudiziari a tutela delle vittime di abusi e violenze e di delitti connessi alla violenza maschile contro le donne.

Alle norme e politiche di contrasto della violenza contro le donne sono riconducibili gli strumenti normativi di recepimento di alcune direttive europee che hanno rilevanza sul tema (2011/99/UE, 2012/29/UE, 2004/80/CE) e dirette a fornire strumenti di tutela generale delle vittime (anche potenziali) di reato.

Al riguardo, viene in rilievo il d.lgs. n. 9/2015, attuativo della direttiva 2011/99/UE del Parlamento europeo e del Consiglio sull’Ordine di protezione europeo (OPE), volto a garantire il riconoscimento reciproco degli effetti delle misure di protezione per le vittime di reato quando adottate dalle autorità giudiziarie degli Stati membri dell’UE. Il d.lgs. n. 212/2015, di attuazione della direttiva 2012/29/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, che istituisce norme minime in materia di assistenza, protezione e diritti processuali delle vittime di reato nel procedimento penale.

In attuazione della direttiva 2004/80/CE, la l. n. 122/2016, Legge europea 2015-2016, modificata dalla Legge europea 2017 (l. n. 167/2017), ha riconosciuto il diritto all’indennizzo delle vittime di reati intenzionali violenti attraverso il Fondo antimafia e antiusura (sanando così l’inadempienza rilevata dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea con la sentenza 11 ottobre 2016, causa C-601/14).

Ulteriori interventi legislativi sono stati adottati a completamento della normativa esistente. La l. n. 161/2017 di riforma del Codice antimafia ha previsto nuove misure di prevenzione nei confronti degli indiziati di stalking, come la sorveglianza speciale di pubblica scurezza, il divieto di soggiorno in uno o più comuni e l’applicazione del braccialetto elettronico. Sempre con riguardo allo stalking la l. n. 172/2017, di conversione del d.l. n. 148/2017, ha escluso la possibilità di estinguere il reato di atti persecutori a seguito di condotte riparatorie.

In tema di riparazione, la l. n. 4/2018 riconosce tutele processuali ed economiche nei confronti di figli minorenni e maggiorenni economicamente non autosufficienti della vittima di crimini domestici. La legge, inoltre modifica il codice penale intervenendo sull’omicidio aggravato dalle relazioni personali, prevedendo l’ergastolo per l’uxoricidio ed estendendone l’applicazione al rapporto di unione civile e alla convivenza in caso di attualità del legame personale.

5. Valutazione della normativa italiana da parte degli organi internazionali di controllo

Il quadro giuridico italiano di contrasto alla violenza di genere non sembra essere il riflesso di un evoluto panorama culturale e sociale del Paese. Il Comitato CEDAW nelle Osservazioni conclusive del 2011 si era detto preoccupato “per il persistere di attitudini socio-culturali che condonano la violenza domestica” e sottolineava “l’elevato numero di donne uccise dai propri partner o ex partner, che può indicare il fallimento delle autorità dello Stato parte nel proteggere adeguatamente le donne” (CEDAW/C/ITA/CO/6, para. 26).

Nel rapporto elaborato in seguito alla sua visita in Italia nel 2012, la Relatrice speciale Manjoo stigmatizzava gli stereotipi di genere che predeterminano il ruolo degli uomini e delle donne in Italia e che attribuiscono alla donna la responsabilità principale nell’assistenza domiciliare (mentre il contributo degli uomini è tra i più bassi del mondo) e la associano culturalmente, attraverso la sua rappresentazione nei media, a questioni come sesso, moda e bellezza (solo in minima parte a impegno sociale e professionismo) (Consiglio dei diritti umani, Rapporto della Relatrice speciale sulla violenza contro le donne, le sue cause e conseguenze, Rashida Manjoo, Addendum: Missione in Italia, 2012, A/HRC/2016/Add.2, par. 11).

Secondo la Relatrice Manjoo, le norme esistenti in materia non sempre vengono applicate nel modo adeguato per la disomogeneità del grado di tutela a livello regionale, le punizioni inadeguate dei colpevoli e la mancanza di efficaci rimedi giuridici per le donne vittime di violenza. Inoltre, gli interventi legislativi e le politiche sono minati nella loro efficacia dalla persistenza di un sostrato diffuso di pregiudizi e stereotipi discriminatori nei confronti delle donne che rallenta o addirittura impedisce l’operatività delle disposizioni normative esistenti in materia. La pericolosità di questo problema culturale è apprezzabile non solo nella pubblica opinione, ma anche tra gli operatori che lavorano con le donne che subiscono violenza e addirittura in ambito giudiziario, come dimostrano alcune recenti sentenze che la Corte di cassazione ha annullato, chiedendo l’intervento degli uffici dell’ispettorato del Ministero della giustizia, per le motivazioni fortemente stereotipate idonee a produrre una sorta di effetto di legittimazione giudiziaria della violenza di genere (v. Filice, 2019; F.Q., 2019).

A conclusione del ciclo di valutazione del VII Rapporto dell’Italia, il Comitato CEDAW nelle sue Osservazioni conclusive del 2017 ha rilevato la persistenza di stereotipi di genere nella società italiana, chiedendo interventi più decisivi nel sistema scolastico e rispetto ai media (par. 25 e 26),  ed ha considerato con preoccupazione la priorità attribuita dal Dipartimento per le politiche della famiglia alla protezione della famiglia rispetto all’eliminazione delle discriminazioni contro le donne (par. 21 e 22) (sulle Osservazioni conclusive, v. Antoniazzi, 2017).

In materia di violenza di genere contro le donne, il Comitato CEDAW ha apprezzato gli sforzi dell’Italia per migliorare la propria cornice normativa, istituzionale e delle politiche rilevanti, come l’adozione della l. n. 119/2013 e del Piano nazionale straordinario contro la violenza sessuale e di genere, l’istituzione dell’Osservatorio nazionale sulla violenza ed la creazione del Database nazionale sulla violenza di genere (par. 27).

Tuttavia, sono ancora ampi i margini di miglioramento dell’Italia sul tema e non poco dettagliato è l’elenco degli aspetti di maggiore preoccupazione rilevati dal Comitato, tra i quali l’underreporting della violenza; il basso tasso di azioni penali e condanne, che si traducono in impunità per gli autori di reato; le difficoltà incontrate dalle donne nell’ottenere ordini di restrizione/allontanamento, la prassi dei giudici di rinviare le vittime a procedimenti alternativi di risoluzione delle controversie, quali la mediazione e la conciliazione; le disparità regionali e locali nella disponibilità e qualità dei servizi di assistenza e protezione, compresi i rifugi per le donne vittime di violenza.

Il tema della violenza riaffiora nelle osservazioni del Comitato relative a donne appartenenti a gruppi svantaggiati in quanto soffrono l’impatto cumulativo dell’intersezione di più motivi di discriminazione e che, pertanto, sono più esposte alla violenza, come le migranti, le richiedenti asilo e le rifugiate, o le donne con disabilità.

Con riguardo alle donne di alcuni di questi gruppi svantaggiati, a fronte di una normativa di principio sensibile al tema della violenza, si staglia un’evoluzione applicativa e un orientamento normativo di segno opposto.

È il caso delle donne migranti per le quali l’art. 4 della l. n. 119/2013 ha inserito nel Testo unico sull’immigrazione (d.lgs n. 286/1998) l’apposita norma di cui all’art. 18 bis, che prevede il rilascio di un permesso di soggiorno per motivi umanitari per consentire alla vittima straniera di sottrarsi alla violenza, quando questa sia accertata, e emerga un concreto e attuale pericolo per la sua incolumità. La norma ha svolto una rilevante funzione propulsiva nei confronti dell’emersione di fenomeni gravi di violenza sulle donne straniere perché contiene anche la previsione della predisposizione di misure di accoglienza, ma le misure e le politiche antitratta sono state progressivamente indebolite dalla prevalenza della finalità repressiva dell’immigrazione irregolare. Nei rapporti ombra elaborato dalle ONG sul Rapporto italiano al Comitato CEDAW, si segnala, infatti, che la difficoltà di avere accesso ad un titolo di soggiorno rimane il principale fattore che in Italia espone le donne straniere a discriminazioni multiple e alla violenza di genere, nonché a ostacoli nell’accesso ai centri antiviolenza, e che il permesso di soggiorno per violenza domestica risulta di scarsa applicazione (Rapporto ombra di Human Rights Watch, 2017). Molto spesso situazioni di donne migranti meritevoli del rifugio politico o della protezione sussidiaria vengono “liquidate” con una tutela inferiore, quale il permesso di soggiorno per motivi umanitari, senza invece considerare, come ha riconosciuto la Cassazione nell’ordinanza n. 12333/17, che la violenza domestica rientra nei trattamenti inumani e degradanti alla luce dell’art. 3 della Convenzione di Istanbul, e se uno Stato non offre un’adeguata protezione della donna vittima, quest’ultima ha diritto a ottenere la protezione sussidiaria secondo quanto previsto dal d.lgs. n. 251/2007 di attuazione della direttiva 2004/83/EC sulla qualifica di rifugiato e di persone bisognose di protezione internazionale.

Questa situazione si riflette nelle osservazioni del Comitato CEDAW sulla mancanza di adeguati meccanismi di identificazione e rinvio delle vittime di tratta, che necessitano protezione e che sono spesso considerate autrici di reato e migranti irregolari piuttosto che vittime (para. 29, lett. c).

Rispetto al tema, il d.l. n.113/2018, comunemente noto come Decreto Salvini e convertito con modificazioni dalla l. n. 132/2018, segna un notevole passo indietro nella tutela dei diritti dei richiedenti asilo, in particolare delle donne vittime di violenza di genere, in quanto ha abrogato il permesso di soggiorno per motivi umanitari, facendolo ricadere in una delle ipotesi del ‘permesso per casi speciali’ che però non offrirebbe uguali garanzie alle donne vittime di tratta o violenza.

Per quanto concerne le donne con disabilità, il Comitato CEDAW ha rilevato una diffusa condizione di dipendenza economica che le pone a rischio di violenza. Nell’ordinamento giuridico italiano non esiste una normativa specifica a loro tutela dalla discriminazione, applicandosi pertanto la normativa sulle pari opportunità e parità di trattamento di genere tra uomo e donna senza specifici riferimenti alla condizione di disabilità.

Con riguardo alla violenza, non ci sono indicazioni specifiche sulle donne con disabilità nella l. 66/1996, ma solo un generico aggravamento della pena per le violenze compiute a danno delle persone con disabilità a prescindere dal genere. Emerge la totale assenza di riferimenti alle donne con disabilità nel Piano d’azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere2015-2017. Se nel Piano strategico 2017-2020 si dedica finalmente un’attenzione specifica alla situazione delle donne migranti, rifugiate e richiedenti asilo, per le donne con disabilità si rimanda ad una generica citazione delle “persistenti fenomenologie che devono indurre a riflessioni ed interventi specifici, come ad esempio l’esposizione alla violenza di gruppi vulnerabili (giovani donne, donne disabili) […]”, inidonea a produrre azioni a tutela di queste donne.

Il Comitato CEDAW torna sul tema della violenza in materia di determinazione della custodia minorile, sottolineando la necessità di considerare la violenza di genere nella sfera domestica in tale contesto (par. 51, lett. b). In particolare, il riferimento è all’utilizzo della ‘sindrome da alienazione genitoriale’ (PAS, dalla formula in inglese) nelle cause di separazione e di affidamento dei figli e che è anche prevista nel d.d.l. n. 735, presentato al Senato il 1° agosto 2018 e noto come d.d.l. Pillon. La PAS è spesso utilizzata in maniera strumentale dai padri maltrattanti durante le cause di affidamento dei figli per imputare alle madri i comportamenti di alienazione assunti dai minori nei loro confronti. Il richiamo del Comitato CEDAW conferma la contrarietà, sottolineata da molte ONG, del d.d.l. Pillon all’art. 31 della Convenzione di Istanbul, che impone agli Stati parti di adottare le misure normative e di altro genere per garantire che, nel determinare diritti di custodia e di visita dei figli, sia presi in considerazione gli episodi di violenza contemplati dalla Convenzione.

In questa dissonanza si riflette, inoltre, quell’“incomunicabilità” tra giurisdizione penale e quella civile nelle vicende personali e familiari connesse a dinamiche di maltrattamento segnalata nella Relazione finale della Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio, nonché su ogni forma di violenza di genere (pp. 392-394).

Non è solo sulla violenza contro le donne commessa da privati che l’Italia è stata ammonita dagli organi internazionali di controllo. Nel reclamo n. 91/2013, presentato dalla CGIL ed esaminato nel 2016, il Comitato europeo dei diritti sociali del Consiglio d’Europa ha riscontrato una violazione dell’art. 11 della Carta Sociale Europea (diritto alla protezione della salute), nonché dell’art. E (non-discriminazione) in combinato disposto con l’art. 11, per le considerevoli difficoltà che le donne incontrano nell’accesso alle pratiche di interruzione di gravidanza. Secondo il Comitato, l’alta percentuale di obiezione di coscienza all’interruzione volontaria di gravidanza del personale sanitario e la mancata adozione delle necessarie misure da parte delle competenti autorità statali e regionali per rendere effettiva l’applicazione della l. n. 194/1978 violano il diritto alla salute della donna (e il diritto al lavoro del personale sanitario non obiettore). La decisione del Comitato del Consiglio d’Europa evidenzia, quindi, un defaultdell’Italia anche con riguardo alla violenza c.d. ‘istituzionale’, inserendosi nel solco tracciato da altri organi internazionali di controllo sulla qualificazione della criminalizzazione dell’aborto come forma di violenza di genere contro le donne (v. il Comitato CEDAW nella Raccomandazione generale n. 35, par. 18; il Relatore speciale delle Nazioni Unite sulla tortura e gli altri trattamenti crudeli, inumani e degradanti nel Rapporto del 5 gennaio 2016, A/HRC/31/57, par. 44. V. De Vido, 2019).

6. Il rispetto dello standard di due diligence da parte dell’Italia: la sentenza della Corte EDU nel caso Talpis c. Italia

Alla luce delle indicazioni del Comitato CEDAW, lo standard della due diligence rappresenta il metro di misurazione con cui viene valutata l’azione degli Stati nel contrasto alla violenza contro le donne. Questo è quanto emerge anche dalle raccomandazioni rivolte dal Comitato CEDAW all’Italia, in quanto la due diligence rappresenta il cardine attorno a cui ruotano molte delle misure di cui si chiede l’attuazione, quale l’adozione di una legge omnibus per prevenire, combattere e punire tutte le forme di violenza contro le donne, nonché di un nuovo Piano d’Azione Nazionale contro la violenza di genere (par. 28, lett. a); la valutazione della risposta di polizia e magistratura alle denunce di reati sessuali e l’introduzione di capacity-building obbligatorio per giudici, pubblici ministeri, funzionari di polizia ed altri funzionari delle forze dell’ordine, per un’applicazione puntuale delle norme del diritto penale relative alla violenza di genere contro le donne e alle procedure gender-sensitive per le interviste alle donne vittime di violenza, (par. 28, lett. b); la garanzia che atti razzisti e xenofobi e sessisti contro le donne siano investigati in profondità e perseguiti e che le sentenze comminate nei confronti dei rei siano commisurate alla gravità dei loro crimini (par. 28, lett. e); il rafforzamento della protezione e assistenza alle donne vittime di violenza, compreso il potenziamento della capacità dei rifugi con l’allocazione di risorse umane, tecniche e finanziarie adeguate (par. 28, lett. f); la raccolta di dati statistici sulla violenza domestica e sessuale, disaggregati per sesso, età, nazionalità e relazione tra la vittima e l’autore del reato (par. 28, lett. g).

Le raccomandazioni del Comitato CEDAW in tema di due diligence riecheggiano le conclusioni raggiunte pochi mesi prima dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza n. 41237/14 del 2 marzo 2017 sul caso Talpis c. Italia. Oggetto principale del ricorso era l’(in)adempimento da parte delle autorità italiane del dovere di proteggere la vittima a fronte di numerosi episodi di violenza domestica (seguiti da denuncia) a danno della ricorrente da parte del marito – episodi che ebbero come esito il tentato omicidio della stessa e l’omicidio del figlio. La sentenza, che ha avuto grande attenzione in dottrina con una copiosa letteratura di commento, merita di essere segnalata per l’efficace ricostruzione dell’obbligo di due diligence rispetto ad atti criminali compiuti da privati, elaborata dalla Corte di Strasburgo in modo evolutivo con riguardo alla violenza domestica nei confronti delle donne rispetto alla sua pregressa giurisprudenza.

Il nodo da sciogliere consisteva, infatti, nello stabilire se le autorità italiane avessero o meno usato la dovuta diligenza richiesta dalla Convenzione nel prevenire le aggressioni perpetrate dal coniuge nei confronti della ricorrente e del figlio, che integravano una violazione dell’art. 2 (diritto alla vita), dell’art. 3 (divieto di trattamenti inumani e degradanti) e dell’art. 14 (divieto di discriminazione) della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Il punto di partenza è stato il “test Osman” elaborato dalla Corte europea nella sentenza n. 23452/94 del 28 ottobre 1998 nel caso Osman c. Regno Unito per definire la portata degli obblighi convenzionali nella protezione di individui minacciati da azioni dannose compiute da terzi e che poi, a partire  dalla sentenza n. 33401/02 del 9 giugno 2009 nel caso Opuz c.Turchia, è stato utilizzato per verificare la diligenza dovuta dagli Stati nei casi concernenti atti di violenza domestica. In base al ‘test Osman’, perché sorga una responsabilità a titolo omissivo in capo allo Stato deve essere accertato che «le autorità sapevano o avrebbero dovuto sapere lì per lì che una determinata persona era minacciata in maniera effettiva e immediata nella sua vita e che esse non hanno adottato, nell’ambito dei loro poteri, le misure che da un punto di vista ragionevole avrebbero senza dubbio ovviato a tale rischio».  Muovendo da tale assunto, la Corte europea ha evidenziato che, soprattutto in materia di violenza domestica, gli Stati parte della Convenzione devono non solo dotarsi di un quadro normativo adeguato che offra una protezione contro eventuali atti di violenza, ma anche adottare in via preliminare misure di ordine pratico per proteggere l’individuo la cui vita è minacciata da atti criminali di terzi. Tuttavia, come rammentato dalla Corte, non ogni minaccia impone alle autorità di adottare misure per prevenirne il concretizzarsi, ma solo quelle il cui rischio risulta essere ‘reale e imminente’ (par. 100-101). Pertanto, anche nel contesto di minacce provenienti da violenze domestiche, per accertare la responsabilità degli Stati, non è sufficiente rilevare, ex post, l’intento omicida o violento dell’aggressore, ma occorre provare che di tale intento le autorità ragionevolmente avevano (o avrebbero dovuto avere) contezza e, ciononostante, non hanno posto in essere le necessarie misure protettive.

Applicando tali principi nel caso di specie, la Corte ha censurato la passività della autorità giudiziarie e di polizia italiane in seguito al deposito della denuncia della ricorrente, ritenendo che tale inerzia abbia “privato la stessa denuncia di ogni efficacia”, con l’effetto di creare un “contesto di impunità” favorevole alla reiterazione degli atti di violenza (par. 127). Tale passività, insieme all’inadeguatezza dell’intervento della polizia nella notte dei tragici eventi, ha indotto la Corte a concludere sulla mancata dovuta diligenza da parte dell’Italia. Introducendo un’interpretazione più severa dello standard di diligenza, la Corte ha affermato che l’obbligo di protezione è intensificato in considerazione dall’appartenenza della ricorrente alla categoria di soggetti vulnerabili e del contesto endemico di discriminazione nei confronti delle donne in Italia. Dalla vulnerabilità del soggetto e dalla discriminazione strutturale deriverebbe, secondo la Corte, l’insorgere di un dovere di protezione anticipato. In altre parole, ad un rischio strutturale corrisponde un dovere di protezione rinforzato e misure preventive speciali. Sulla base di queste premesse, la Corte di Strasburgo ha ritenuto che il comportamento tenuto dalle autorità italiane si sia attestato sotto la soglia della diligenza imposta dalla Convenzione, integrando una violazione degli artt. 2, 8 e 14 (in combinato disposto degli altri articoli) della Convenzione.

Rinviando per l’esame dei profili critici della sentenza alla letteratura rilevante (tra gli altri v. Casiraghi, 2017; De Franceschi, 2018; De Vido, 2017), nel contesto della Rassegna si impone una riflessione riguardo all’impatto della pronuncia nella giurisprudenza interna, in particolare in materia di responsabilità civile dei magistrati per dolo o colpa grave nei casi di violenza contro le donne. Il riferimento è alla sentenza n. 1566/2017 con cui il Tribunale di Messina, a distanza di pochi mesi dalla sentenza della Corte europea, ha riconosciuto la responsabilità della Procura della Repubblica per non aver disposto alcun atto di indagine e per non aver adottato “nessuna misura volta a neutralizzare la pericolosità dell’[autore del reato]” davanti alle plurime denunce presentate da una donna vittima di maltrattamenti da parte del marito, che l’aveva infine uccisa. Dopo dieci anni dalla commissione del reato, il Tribunale di prime cure ha accertato una “violazione di legge con negligenza inescusabile” da parte dei magistrati competenti con conseguente condanna della Presidenza del Consiglio al risarcimento ai figli della vittima del danno patrimoniale derivato dalla morte della madre (sulla sentenza v. Buscemi, 2017; De Vivo, 2017). Ciò che rileva ai nostri fini è che l’enunciazione dei principi di diritto nella sentenza resa dal Tribunale di Messina richiama espressamente la pronuncia della Corte di Strasburgo per ribadire che in materia di violenza domestica il compito di uno Stato non si esaurisce nella mera adozione di disposizioni di legge a tutela dei soggetti maggiormente vulnerabili, ma si estende ad assicurare che la protezione di tali soggetti sia effettiva, evidenziando che l’inerzia delle autorità nell’applicare tali disposizioni di legge si risolve in una vanificazione degli strumenti in esse previsti.

Le conclusioni del Tribunale di Messina non riflettono un orientamento giurisprudenziale condiviso sull’interpretazione degli obblighi di due diligence dello Stato in materia di violenza contro le donne, visto che la Corte d’Appello di Messina con sentenza n. 198 del 19 marzo 2019 ha ribaltato la pronuncia di primo grado, annullando il risarcimento ai figli della vittima, sul presupposto della mancanza di qualsiasi responsabilità delle istituzioni per l’accaduto, sia perché la normativa di allora non prevedeva il reato di stalking, sia perché i maltrattamenti e le minacce denunciate dalla vittima non apparivano sufficientemente gravi da consentire l’applicazione della misura cautelare al marito.

7. Riflessioni sulle prospettive di evoluzione in Italia

Se è dunque nel prisma della prevenzione e della due diligence– non dunque la sola reazione penale – che il contrasto alla violenza di genere può dirsi efficace, l’Italia dovrà adoperarsi sotto questi profili alla luce delle valutazioni degli organi internazionali. I numerosi interventi normativi effettuati nel corso del tempo hanno progressivamente colmato i vuoti di tutela e le inadeguatezze degli assetti normativi in Italia. Tuttavia, persiste l’esigenza di interventi normativi che affrontino la questione della violenza contro le donne da una prospettiva olistica e strutturale.

Non si intravede, tuttavia, un cambio di prospettiva da parte del legislatore, le cui recenti iniziative in materia non si discostano dal filone prettamente repressivo. La l. n. 69/2019, denominata “Codice Rosso”, è caratterizzata da un generale inasprimento sanzionatorio e dall’introduzione di nuovi reati, come la diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti (il c.d. revenge porn), la deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso, la costrizione o induzione al matrimonio. Dal punto di vista della due diligence, la l. n. 69/2019 prevede che la polizia giudiziaria riferisca al magistrato la notizia di reato e che la donna denunciante una violenza debba essere sentita obbligatoriamente dal pubblico ministero entro tre giorni. È chiaro lo scopo delle nuove disposizioni: garantire un intervento immediato della magistratura, se del caso anche di natura cautelare personale, nel contempo dimostrando alla persona offesa la vicinanza dello Stato. Tuttavia, l’effettuazione di tale adempimento non comporterà per la donna alcuna reale possibilità di fruire di una protezione maggiore e più efficace dopo avere denunciato una violenza.

Le norme del “Codice rosso” affrontano il problema della violenza di genere secondo un’ottica essenzialmente repressiva, senza introdurre misure volte a migliorare la prevenzione del fenomeno. Anche gli aspetti culturali ed educativi sono scarsamente presi in considerazione, con una sola norma che prevede la subordinazione della sospensione condizionale della pena alla partecipazione a corsi di recupero presso enti che si occupano di prevenzione, assistenza psicologica e recupero dei soggetti condannati per questo tipo di reati. Si tratta, però, di una norma che presuppone che sia stato già commesso un reato e che si sia pervenuti ad una sentenza di condanna, la quale dunque non appare iscriversi in un’ottica di prevenzione e di educazione culturale volta a scongiurare la commissione di tali reati (v. Cardamone, 2019).

Tuttavia, è proprio dagli aspetti culturali ed educativi, nei quali la violenza contro le donne storicamente affonda le sue radici, che bisogna ripartire. Di fronte al contrasto della violenza contro le donne, il diritto può efficacemente svolgere il proprio ruolo soltanto combattendo lo stereotipo di genere che la innesca. Se non accompagnato da una adeguata consapevolezza della matrice culturale di questi delitti, l’insieme delle norme adottate può essere vanificato nel suo scopo. Quanto più, dunque, si coltiveranno questi aspetti tanto più l’adattamento del diritto interno risulterà ‘fedele’ a quanto impone il diritto internazionale in materia e il contrasto alla violenza troverà il luogo fertile per l’attuazione del diritto.

Riferimenti bibliografici

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© Rachele Cera e ISGI, novembre 2019.

Citazione: R. Cera, Non discriminazione e violenza di genere in Italia al vaglio degli organi internazionali di controllo, in L’Italia e l’applicazione del diritto internazionale. Rassegna dell’Istituto di Studi Giuridici Internazionali del Consiglio Nazionale delle Ricerche, diretta da G. Palmisano e O. Ferrajolo, n. 3: 2016-2017, novembre 2019, http://www.larassegna.isgi.cnr.it/focus-non-discriminazione-e-violenza-di-genere-in-italia-al-vaglio-degli-organi-internazionali-di-controllo/.