Ordinanza della Corte costituzionale 6 luglio 2016, n. 209

Pubblicato in:

G.U. 14 settembre 2016, n. 37

Con questa ordinanza, la Corte costituzionale ha ordinato la restituzione degli atti al Tribunale di Treviso, affinché valuti se le modifiche al sistema sanzionatorio tributario introdotte con d.lgs. n. 158/2015 abbiano inciso sulla questione di costituzionalità, da esso sollevata, relativa all’art. 10 bis d.lgs. n. 74/2000. Le disposizioni censurate, secondo il giudice ricorrente, determinavano, attraverso l’applicazione di sanzioni tributarie e penali nei confronti della stessa persona e per uno stesso fatto, la violazione del principio ne bis in idem come garantito dalla CEDU e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’UE.

Ordinanza

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 10-ter del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74 (Nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, a norma dell’articolo 9 della legge 25 giugno 1999, n. 205), aggiunto dall’art. 35, comma 7, del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 4 agosto 2006, n. 248, promosso dal Tribunale ordinario di Treviso nel procedimento penale a carico di B.F., con ordinanza del 18 febbraio 2015, iscritta al n. 318 del registro ordinanze 2015 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 52, prima serie speciale, dell’anno 2015.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 6 luglio 2016 il Giudice relatore Giorgio Lattanzi.

Ritenuto che, con ordinanza del 18 febbraio 2015 (r.o. n. 318 del 2015), il Tribunale ordinario di Treviso ha sollevato, in riferimento all’art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 4 del Protocollo n. 7 alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (d’ora in avanti «Protocollo n. 7 alla CEDU»), adottato a Strasburgo il 22 novembre 1984, ratificato e reso esecutivo con la legge 9 aprile 1990, n. 98, e all’art. 50 della Carta di Nizza (Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e, in una versione adattata, il 12 dicembre 2007 a Strasburgo, una questione di legittimità costituzionale dell’art. 10-ter del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74 (Nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, a norma dell’articolo 9 della legge 25 giugno 1999, n. 205), il quale, configurandosi, alla stregua della giurisprudenza prevalente della Corte di cassazione, come fattispecie “a dolo generico”, non si distinguerebbe neanche sotto il profilo dell’elemento soggettivo dal corrispondente illecito tributario;

che il giudice a quo premette di essere investito del giudizio nei confronti di un imputato per il «reato di cui all’art. 10 ter, in relazione all’art. 10 bis» del d.lgs. n. 74 del 2000, perché «nella sua veste di legale rappresentante della ditta “Barbon Trasporti s.r.l.”, non versava l’imposta sul valore aggiunto dovuta in base alla dichiarazione annuale Modello Unico per l’anno d’imposta 2009 per un ammontare pari ad euro 128.889,00 entro il termine per il versamento dell’acconto relativo al periodo d’imposta successivo»;

che secondo il giudice a quo, in virtù della previsione dell’art. 10-ter del d.lgs. n. 74 del 2000, la sanzione prevista dall’art. 10-bis per il delitto di omesso versamento di ritenute certificate si applica anche a chiunque non versi l’imposta sul valore aggiunto (IVA), dovuta in base alla dichiarazione annuale, «entro il termine del versamento del conto relativo al periodo di imposta successivo»;

che l’omesso versamento dell’IVA sarebbe anche punito in via amministrativa dall’art. 13 del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 471 (Riforma delle sanzioni tributarie non penali in materia di imposte dirette, di imposta sul valore aggiunto e di riscossione dei tributi, a norma dell’articolo 3, comma 133, lettera q, della legge 23 dicembre 1996, n. 662), che assoggetta ad una sanzione amministrativa, pari al trenta per cento di ogni importo non versato, chiunque non esegue, in tutto o in parte, alle prescritte scadenze periodiche i versamenti relativi ai debiti IVA;

che le sezioni unite della Corte di cassazione avrebbero statuito che la fattispecie di reato prevista all’art. 10-bis del d.lgs. n. 74 del 2000 non si pone in rapporto di specialità, ma di progressione illecita con l’art. 13, comma 1, del d.lgs. n. 471 del 1997, sì che non vi sarebbe violazione, né dell’art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU, né dell’art. 50 della Carta di Nizza, che stabiliscono il principio del ne bis in idem in materia penale, sia perché non ricorrerebbe l’identità del fatto, sia perché il principio in questione si riferirebbe solo ai procedimenti penali e non potrebbe riguardare l’ipotesi dell’applicazione congiunta di una sanzione penale e di una sanzione amministrativa tributaria;

che secondo la Corte di giustizia dell’Unione europea, ai fini della valutazione della natura penale delle sanzioni tributarie, sarebbero rilevanti tre criteri: «la qualificazione giuridica dell’illecito nel diritto nazionale, la natura dell’illecito e, infine, la natura e il grado di severità della sanzione», spettando «al giudice nazionale “verificare” la natura penale o meno della sanzione e conseguentemente “valutare”» alla luce dei citati criteri se procedere o no ad «un esame del cumulo di sanzioni tributarie e penali previsto dalla legislazione nazionale sotto il profilo degli standard nazionali, circostanza che potrebbe eventualmente indurlo a considerare tale cumulo contrario a detti standard, a condizione che le rimanenti sanzioni siano effettive, proporzionate e dissuasive»;

che la pronuncia delle sezioni unite della Corte di cassazione, riguardante il reato di cui all’art. 10-bis del d.lgs. n. 74 del 2000, ignorerebbe del tutto proprio il fatto storico «connesso alla commissione dell’illecito, sia sotto il profilo oggettivo che sotto il profilo soggettivo», in quanto l’agente «che omette consapevolmente di volta in volta i versamenti fiscali mensili», rappresentati dai tributi IVA, integrerebbe, con la medesima condotta, sia l’illecito amministrativo, sia una frazione di quello penale;

che, infatti, una volta raggiunta la cosiddetta soglia di punibilità per l’integrazione della fattispecie penale, l’agente non si porrebbe «in un diverso rapporto di consapevolezza con l’illecito commesso», in quanto non avrebbe «fatto altro che porre in essere le medesime condotte che hanno già integrato una serie di illeciti amministrativi e a quel punto integrano anche l’illecito penale»;

che la diversità del fatto andrebbe riconosciuta solo ove la fattispecie penale richiedesse per il suo perfezionamento il dolo specifico di evasione delle imposte, su cui sarebbe incentrata tutta la ratio del d.lgs. n. 74 del 2000, e che costituirebbe l’unico elemento distintivo fra l’illecito penale e l’illecito amministrativo;

che, poiché però, secondo la prevalente giurisprudenza della Corte di cassazione, gli illeciti di cui agli artt. 10-bis e 10-ter del d.lgs. n. 74 del 2000 costituirebbero fattispecie “a dolo generico”, sì da non distinguersi dai corrispondenti illeciti di natura tributaria, sarebbe violato il divieto di bis in idem, previsto dall’art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU e dall’art. 50 della Carta di Nizza, e di conseguenza l’art. 117, primo comma, Cost.;

che è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, e ha chiesto «la restituzione degli atti al giudice a quo, per una nuova valutazione in ordine alla rilevanza» della questione di legittimità costituzionale;

che l’Avvocatura generale ha sottolineato che successivamente all’ordinanza di rimessione è intervenuto il decreto legislativo 24 settembre 2015, n. 158 (Revisione del sistema sanzionatorio, in attuazione dell’articolo 8, comma 1, della legge 11 marzo 2014, n. 23), che avrebbe apportato un ampio complesso di modifiche al sistema sanzionatorio tributario, sia penale che amministrativo;

che, nel quadro degli interventi di revisione del sistema sanzionatorio, l’art. 8 del d.lgs. n. 158 del 2015 avrebbe modificato anche la norma censurata, innalzando il «valore soglia (penale)» dell’omesso versamento dell’IVA per ciascun periodo di imposta, portandolo a duecentocinquantamila euro;

che inoltre l’art. 13, comma 1, del d.lgs. n. 74 del 2000, come modificato dall’art. 11 del d.lgs. n. 158 del 2015, dispone che «[i] reati di cui agli articoli 10-bis, 10-ter e 10-quater, comma 1, non sono punibili se, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, i debiti tributari, comprese sanzioni amministrative e interessi, sono stati estinti mediante integrale pagamento degli importi dovuti»;

che, tenuto conto dell’ammontare dell’imposta non versata, pari a 128.889,00 euro, come risulta dall’ordinanza di rimessione, l’Avvocatura generale ha concluso chiedendo la restituzione degli atti al giudice rimettente, per una nuova valutazione della rilevanza della questione di legittimità costituzionale.

Considerato che il Tribunale ordinario di Treviso, con riferimento all’art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 4 del Protocollo n. 7 alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (d’ora in avanti «Protocollo n. 7 alla CEDU»), adottato a Strasburgo il 22 novembre 1984, ratificato e reso esecutivo con la legge 9 aprile 1990, n. 98, e all’art. 50 della Carta di Nizza (Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e, in una versione adattata, il 12 dicembre 2007 a Strasburgo, dubita della legittimità costituzionale dell’art. 10-ter del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74 (Nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, a norma dell’articolo 9 della legge 25 giugno 1999, n. 205);

che, successivamente all’ordinanza di rimessione, è intervenuto il decreto legislativo 24 settembre 2015, n. 158 (Revisione del sistema sanzionatorio, in attuazione dell’articolo 8, comma 1, della legge 11 marzo 2014, n. 23), che ha apportato numerose modificazioni al sistema sanzionatorio tributario, tanto penale che amministrativo (ordinanza n. 116 del 2016);

che l’art. 8 del citato decreto legislativo ha modificato anche la norma censurata, eliminando il rinvio, presente nel testo originario, all’art. 10-bis del d.lgs. n. 74 del 2000 (per la determinazione della pena e della soglia di punibilità), e ha descritto compiutamente la fattispecie, innalzando la soglia della punibilità dell’illecito dai precedenti cinquantamila euro a duecentocinquantamila euro per ciascun periodo di imposta;

che quest’ultimo importo è superiore a quello indicato nel capo di imputazione;

che – secondo quanto già più volte affermato dalla Corte di cassazione (per tutte, con riguardo all’omesso versamento dell’IVA, Corte di cassazione, terza sezione penale, 4 febbraio 2016, n. 11359 e 11 novembre 2015, n. 13217/16) – l’aumento delle soglie di punibilità, traducendosi in una modificazione favorevole al reo, è destinato a operare, ai sensi dell’art. 2 del codice penale, anche per i fatti anteriori alla riforma;

che inoltre la novella legislativa, innovando la disciplina del rapporto tra gli illeciti penali e gli illeciti amministrativi in questione, ha modificato l’art. 13 del d.lgs. n. 74 del 2000 e introdotto, fra l’altro, una causa di non punibilità nel caso di pagamento dell’imposta dovuta e delle sanzioni amministrative;

che spetta al giudice rimettente valutare le ricadute nel giudizio a quo di tali modificazioni normative, specie ai fini della rilevanza della proposta questione di legittimità costituzionale (ordinanza n. 112 del 2016);

che pertanto deve disporsi la restituzione degli atti al giudice rimettente perché rivaluti la rilevanza della questione alla luce del novum normativo.

Visto l’art. 9, commi 1 e 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

La Corte Costituzionale

ordina la restituzione degli atti al Tribunale ordinario di Treviso.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 6 luglio 2016.