Con la sentenza del 2015 sul caso Contrada c. Italia, la Corte europea dei diritti umani ha condannato l’Italia per violazione del principio di legalità in materia penale (art. 7 CEDU) in quanto il reato di ‘concorso esterno in associazione mafiosa’ (ex artt. 110 e 416 bis c.p.) per il quale Contrada era stato condannato con sentenza passata in giudicato si è configurato con chiarezza nell’ordinamento italiano solo a partire dalla decisione della Corte di cassazione sul caso Demitry del 1994, ossia successivamente ai fatti contestati all’imputato. Malgrado ciò, l’istanza di revisione della sentenza definitiva veniva rigettata dalla Corte d’appello di Caltanissetta con sent. 18 novembre 2015. Con la sentenza n. 43112, la I sez. pen. della Corte di cassazione ha però ritenuto che non vi è un margine di discrezionalità dei giudici italiani rispetto all’obbligo di conformarsi alla decisione della Corte europea in conformità all’art. 46 CEDU e che la sopravvenuta inefficacia della sentenza definitiva di condanna nei confronti di Contrada poteva essere dichiarata dal giudice dell’esecuzione, applicando gli artt. 666 e 670 c.p.p. (relativi, rispettivamente, al procedimento di esecuzione e ai poteri del giudice dell’esecuzione). La Corte ha quindi annullato i residui effetti della condanna definitiva di Contrada pronunciata in violazione dell’art. 7 CEDU.
Sentenza della Corte europea dei diritti umani, IV sez., 14 aprile 2015, Contrada c. Italia; Sentenza della Corte d’appello di Caltanissetta 18 novembre 2015; Sentenza del Giudice delle indagini preliminari del Tribunale di Catania 21 dicembre 2015, n. 1077; Sentenza della Corte di cassazione, I sez. pen., 10 aprile 2017, n. 53610