Sentenza della Corte costituzionale 9 ottobre 2013, n. 279

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G.U. 27 novembre 2013, n. 48

Con la sentenza 279/2013, la Corte dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 147 c. p. (rinvio facoltativo della pena) sollevate dai Tribunali di sorveglianza di Venezia e di Milano in relazione agli artt. 2, 3, 27, co. 3, e 117 della Cost., quest’ultimo in riferimento all’art. 3 della CEDU (divieto di tortura). In particolare, la questione di legittimità veniva sollevata con riferimento alla parte in cui la norma penale non prevede, al di fuori dei casi espressamente contemplati, l’ipotesi di un rinvio facoltativo della pena quando essa debba svolgersi in condizioni contrarie al senso di umanità. Al riguardo, le due ordinanze richiamano la sentenza pilota dell’8 gennaio 2013, Torreggiani c. Italia, con la quale la Corte europea dei diritti dell’uomo evidenzia che il sovraffollamento delle carceri in Italia costituisce un problema strutturale e sistemico e che al di sotto dei parametri di “vivibilità minima”, la detenzione debba essere considerata un “trattamento inumano o degradante” che viola l’art. 3 della CEDU. La Corte cost., pur riconoscendo la sussistenza di un vulnus nel sistema carcerario italiano, ritiene inammissibile la questione di costituzionalità sollevata per la pluralità di soluzione normative che potrebbero essere adottate come rimedi preventivi. In conformità alla sentenza Torreggiani, la Corte rimette quindi la questione al legislatore affinché adotti soluzioni normative che impediscano il protrarsi di trattamenti detentivi contrari al senso di umanità.

  • Vedi anche:

    Sentenza della Corte europea dei diritti umani, II sez., 8 gennaio 2013, Torreggiani e altri c. Italia ; Sentenza della Corte costituzionale 3 giugno 2013, n. 135; Legge 1 luglio 2013, n. 78, Disposizioni urgenti in materia di esecuzione della pena.

  • Lingua originale: Italiano

Sentenza

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’articolo 147 del codice penale, promossi dal Tribunale di sorveglianza di Venezia con ordinanza del 18 febbraio 2013 e dal Tribunale di sorveglianza di Milano con ordinanza del 18 marzo 2013, iscritte rispettivamente ai nn. 67 e 82 del registro ordinanze 2013 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 16 e 18, prima serie speciale, dell’anno 2013.

Visti gli atti di intervento dell’Unione delle Camere penali italiane, dell’Associazione VOX–Osservatorio italiano sui diritti e del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 9 ottobre 2013 il Giudice relatore Giorgio Lattanzi.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza depositata il 18 febbraio 2013 (r.o. n. 67 del 2013), il Tribunale di sorveglianza di Venezia ha sollevato, in riferimento agli articoli 2, 3, 27, terzo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’articolo 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (d’ora in avanti: CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 147 del codice penale «nella parte in cui non prevede, oltre ai casi ivi espressamente contemplati, l’ipotesi di rinvio facoltativo dell’esecuzione della pena quando essa debba svolgersi in condizioni contrarie al senso di umanità».

Il rimettente riferisce di essere investito dell’istanza di rinvio facoltativo dell’esecuzione della pena presentata da un detenuto e rigettata in via interinale dal magistrato di sorveglianza, che ne aveva quindi rimesso l’esame, ai sensi dell’articolo 684 del codice di procedura penale, al tribunale di sorveglianza.

L’istanza era motivata non già con riferimento all’esistenza di una grave infermità fisica del detenuto, ma sulla base delle «condizioni di perenne sovraffollamento» in cui versava la Casa circondariale di Padova: si metteva in evidenza, infatti, una situazione che, per il numero dei detenuti ristretti in ciascuna cella (in media, da nove a undici), era tale da influire negativamente sulle condizioni psicofisiche, sottolineandosi come l’esecuzione della pena fosse «certamente contraria al senso di umanità e avversa al principio rieducativo della pena ed al rispetto della persona».

Riferisce ancora il Tribunale di sorveglianza di Venezia che, nelle more, il detenuto era stato trasferito nella Casa di reclusione di Padova, nella quale «permanevano e permangono le condizioni di sovraffollamento lamentate nell’istanza» risultanti dagli elementi acquisiti in via istruttoria, che segnalano la presenza di 889 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 369. Il detenuto istante, oltre ad essere «appellante» in un procedimento per violenza privata e violazione degli obblighi della sorveglianza speciale (nel cui ambito è sottoposto alla misura cautelare degli arresti domiciliari) e ad essere destinatario della misura di sicurezza dell’assegnazione ad una casa di lavoro (da applicarsi, previo riesame da parte del magistrato di sorveglianza, all’esito dell’espiazione della pena), sta scontando una pena complessiva di due anni, otto mesi, sedici giorni di reclusione e sedici giorni di arresto per vari reati (furto, falsa attestazione sulla propria identità, guida in stato di ebbrezza, violazione degli obblighi della sorveglianza speciale, evasione), con fine pena al 18 giugno 2015.

Per il titolo definitivo, riferisce ancora il Tribunale rimettente, il condannato è stato ristretto presso la Casa circondariale di Padova (dove dal 27 luglio 2012 al 13 agosto 2012 era stato detenuto in custodia cautelare) dal 19 settembre 2012 all’11 gennaio 2013, venendo ospitato, per la maggior parte del tempo, in una cella di mq. 24,58 e con un numero di detenuti mediamente pari a nove-dieci; successivamente è stato ristretto presso la Casa di reclusione di Padova in una cella, divisa con altri due detenuti, di mq. 9,09 e con bagno attiguo. La cella presenta le misure “standard” fissate dal Ministero della salute per le camere da letto di abitazione civile, misure adottate dall’Amministrazione penitenziaria quale parametro di riferimento delle camere di pernottamento benché, peraltro, «ivi si svolga l’intera vita del detenuto».

Osserva dunque il giudice a quo che lo spazio a disposizione dell’istante presso la casa circondariale è stato di mq. 2,43 (per 9 giorni) e di mq. 2,58 (per 122 giorni), mentre presso la casa di reclusione è stato di mq. 3,03 (per 33 giorni). I primi due dati risultano inferiori al limite minimo considerato “vitale” dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (sentenza 16 luglio 2009, Sulejmanovic contro Italia; sentenza 8 gennaio 2013, Torreggiani contro Italia), mentre il terzo risulta superiore di cmq. 3, ma si deve considerare la riduzione dello spazio effettivamente utilizzabile derivante dall’ingombro costituito dal mobilio, fattore incidente sullo spazio vitale secondo la Corte di Strasburgo: sottratta l’area occupata da tale ingombro, lo spazio a disposizione del detenuto presso la casa di reclusione si riduce a mq. 2,85, «nettamente al di sotto del limite “vitale” di 3 mq. come stabilito dalla Corte europea».

Sebbene, sottolinea il Tribunale di sorveglianza di Venezia, il criterio indicato dal secondo Rapporto generale del 13 aprile 1991 del Comitato per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti disumani o degradanti sia di almeno mq. 7, inteso come superficie minima “desiderabile” per una cella di detenzione, «la Corte di Strasburgo ha ritenuto che il parametro dei 3 mq. debba essere ritenuto il minimo consentito al di sotto del quale si avrebbe violazione “flagrante” dell’art. 3 della Convenzione e dunque, per ciò solo, “trattamento disumano e degradante”, e ciò indipendentemente dalle altre condizioni di vita detentiva» (concernenti, in particolare, le ore d’aria disponibili o le ore di socialità, l’apertura delle porte della cella, la quantità di luce e aria dalle finestre, il regime trattamentale effettivamente praticato in istituto).

Non sarebbe dunque revocabile in dubbio che l’istante «stia subendo ed abbia subito per tutto il periodo della detenzione fino ad oggi un trattamento “disumano e degradante”», sicché verrebbe in rilievo la compatibilità della sua detenzione con i principi di non disumanità della pena e di rispetto della dignità della persona detenuta, principi sottesi all’applicazione proprio dell’istituto del differimento della pena che viene invocato dall’interessato.

La norma impugnata sarebbe inerente al giudizio a quo, in quanto «il richiedente invoca la sospensione della pena proprio per l’aspetto di una sua ineseguibilità a causa delle condizioni di intollerabile restrizione alla quale è sottoposto per il sovraffollamento dell’istituto», e la questione riguarderebbe l’ambito di applicazione della norma censurata, che avrebbe incidenza attuale, e non meramente eventuale, nel procedimento principale.

Sempre a proposito della rilevanza della questione di legittimità costituzionale, il rimettente riferisce che all’istante non potrebbe essere applicata la misura dell’esecuzione presso il domicilio della pena detentiva a norma dell’art. 1 della legge 26 novembre 2010, n. 199 (Disposizioni relative all’esecuzione presso il domicilio delle pene detentive non superiori a diciotto mesi), come modificato dall’art. 3 del decreto-legge 22 dicembre 2011, n. 211 (Interventi urgenti per il contrasto della tensione detentiva determinata dal sovraffollamento delle carceri), convertito, con modificazioni, dalla legge 17 febbraio 2012, n. 9, in quanto il residuo della pena sarebbe superiore a diciotto mesi e il condannato è stato dichiarato delinquente abituale. La preclusione, derivante dall’applicazione, nelle condanne in esecuzione, della recidiva reiterata, sarebbe inoltre ostativa alla concessione della detenzione domiciliare ai sensi dell’art. 47-ter, comma 1-bis, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà) e della semilibertà se non dopo l’espiazione di due terzi di pena (art. 50-bis dell’ordinamento penitenziario). Sarebbe, invece, astrattamente concedibile al condannato la misura dell’affidamento in prova al servizio sociale (peraltro non richiesta dall’interessato), ma, sottolinea il rimettente, essa richiede «l’apprezzamento in fatto di un percorso rieducativo per il tramite di una congrua osservazione» ovvero, anche senza osservazione, «presuppone un’idoneità a prevenire il pericolo di commissione di reati, allorquando il comportamento serbato dopo la commissione del reato sia tale da consentire un giudizio favorevole». Analogamente preclusa dall’art. 30-quater, comma 1, lettera a), dell’ordinamento penitenziario sarebbe la concedibilità di permessi premio.

Pertanto, non resterebbe che ricorrere alla norma di chiusura, invocata dall’istante, costituita dal rinvio facoltativo dell’esecuzione della pena, non soggetto a preclusioni ex lege ed espressivo del principio costituzionale di non disumanità della pena. Tuttavia, osserva il Tribunale di sorveglianza di Venezia, tale istituto è riservato ai soli casi previsti, da ritenersi tassativi, in cui «più evidente appare il contrasto tra il carattere obbligatorio ed irrefragabile dell’esecuzione di una pena detentiva e il principio di legalità della stessa cui è speculare il divieto di trattamenti inumani» di cui all’art. 27, terzo comma, Cost. Discenderebbe da tale principio l’esigenza che il soggetto non venga sottoposto ad una pena più grave di quella irrogata, esigenza che risulterebbe contraddetta se, per particolari condizioni fisiche individuate dalla legge, la carcerazione incidesse non solo sulla libertà, ma anche sull’integrità personale.

Il Tribunale rimettente dovrebbe dare applicazione al principio di non disumanità della pena in un caso in cui, pur ricorrendo i parametri in fatto di un trattamento disumano e degradante, così come verificati in casi analoghi dalla costante giurisprudenza della Corte di Strasburgo, sarebbe precluso il ricorso all’istituto di cui all’art. 147 cod. pen. poiché, non lamentando il detenuto una grave infermità fisica, tale ipotesi non sarebbe ricompresa tra quelle tassativamente previste dalla norma. Se integrato dalla pronuncia richiesta attraverso l’incidente di legittimità costituzionale, l’art. 147 cod. pen., anche in quanto “norma di chiusura” del sistema, costituirebbe «l’unico strumento di effettiva tutela in sede giurisdizionale al fine di ricondurre nell’alveo della legalità costituzionale l’esecuzione della pena a fronte di condizioni detentive che si risolvono in trattamenti disumani e degradanti».

Osserva inoltre il rimettente che, da un lato, il trattamento inumano non potrebbe tollerare una sua indebita protrazione e che, dall’altro, pur attribuendo alla magistratura di sorveglianza la funzione di tutela dei diritti dei detenuti in sede di reclamo giurisdizionale, il sistema sarebbe comunque privo di qualsiasi «meccanismo di esecuzione forzata, finendo dunque per generare quei fenomeni di ineffettività della tutela che sono la negazione del concetto stesso di giurisdizione». D’altra parte, anche ipotizzando che, in accoglimento del ricorso del condannato che invochi la tutela del proprio diritto all’esecuzione di una pena non disumana, il magistrato di sorveglianza ordini il trasferimento del ricorrente presso una stanza detentiva non sovraffollata, sarebbe evidente che «rendendo conforme al senso di umanità l’esecuzione penale nella cella ad quam, ciò avrebbe comportato la disumanità dell’esecuzione della pena nella cella a qua, nella quale subito l’Amministrazione avrebbe allocato altro detenuto per far posto al ricorrente vittorioso nella prima, e così via: poiché appartiene al fatto notorio la circostanza che la capienza (sia regolamentare sia tollerabile) degli istituti di pena italiani è di gran lunga inferiore rispetto alla grandezza delle effettive presenze, tale strumento di tutela sarebbe comunque rimasto inefficace».

Prevedendo il rinvio facoltativo dell’esecuzione della pena, l’art. 147 cod. pen. affiderebbe la decisione al prudente apprezzamento del tribunale di sorveglianza, che, per un verso, potrebbe negare il rinvio stesso qualora sussista un concreto pericolo di commissione di delitti e, per altro verso, potrebbe invece applicare la detenzione domiciliare “in surroga”, a norma dell’art. 47-ter, comma 1-ter, dell’ordinamento penitenziario: sarebbe perciò rimesso all’autorità giudiziaria il «congruo bilanciamento degli interessi da un lato di non disumanità della pena e dall’altro di difesa sociale», che, in casi di particolare pericolosità del condannato, potrebbe impedire il differimento dell’esecuzione.

Secondo il Tribunale di sorveglianza di Venezia, se la norma in questione consentisse il differimento della pena per ineseguibilità di quest’ultima a causa delle condizioni di intollerabile sovraffollamento, tali da comportare un trattamento «disumano e degradante», il differimento stesso non sarebbe precluso, nel caso di specie, dal divieto di cui al comma quarto dell’art. 147 cod. pen., non potendosi ritenere concreto il pericolo di commissione di delitti. L’applicazione della norma sarebbe, invece, impedita dalla mancata previsione di un’ipotesi di un «rinvio facoltativo, rimesso alla prudente valutazione dell’autorità giudiziaria, allorché ricorrano gli estremi di un trattamento disumano e degradante come definito dalla giurisprudenza europea sopra richiamata».

Ritiene dunque il rimettente non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 147 cod. pen. «nella parte in cui non prevede, oltre alle ipotesi espressamente indicate, da ritenersi tassative, anche il caso di rinvio dell’esecuzione della pena quando quest’ultima debba avvenire in condizioni contrarie al principio di umanità» sancito dall’art. 27, terzo comma, Cost. e dall’art. 117, primo comma, Cost. in relazione all’art. 3 della CEDU, così come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, che ha individuato i parametri di «vivibilità minima» alla luce dei quali una detenzione può definirsi «trattamento inumano o degradante». Ad avviso del Tribunale di sorveglianza di Venezia l’attribuzione del pieno valore giuridico alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e l’adesione della stessa Unione alla CEDU determinerebbero un «vincolo diretto negli ordinamenti interni al rispetto della dignità e dei diritti delle persone», vincolo che consentirebbe ai giudici nazionali di invocare le norme sovranazionali come ulteriori parametri di riferimento quando si faccia questione di diritti fondamentali; le norme interposte diventerebbero, a loro volta, canone di valutazione, entrando a far parte di uno dei termini della questione di costituzionalità. Nella parte in cui non può essere applicato all’ipotesi presa in considerazione, l’art. 147 cod. pen. sarebbe in contrasto con il principio inviolabile della dignità della persona, che la Repubblica in ogni caso garantisce a norma dell’art. 2 Cost. e che a sua volta è presupposto dell’art. 27 Cost.

Il rimettente esclude la praticabilità di un’interpretazione costituzionalmente conforme, in quanto la norma censurata prevederebbe casi tassativi di univoca interpretazione e non estensibili in via analogica.

In particolare, la norma non sarebbe applicabile oltre l’ipotesi della «grave infermità fisica» prevista dall’art. 147, comma 1, numero 2), cod. pen., comunemente intesa come «una situazione di grave compromissione dell’organismo comportante o un serio pericolo per la vita del condannato ovvero la probabilità di altre rilevanti conseguenze dannose»; inoltre, sottolinea il Tribunale di sorveglianza di Venezia, la serietà del quadro patologico sarebbe da intendere in senso particolarmente rigoroso alla luce del principio di indefettibilità della pena e del principio di uguaglianza, mentre ulteriore requisito sarebbe rappresentato dall’esigenza che la malattia necessiti di cure non facilmente attuabili nello stato detentivo.

Inoltre, secondo la giurisprudenza di legittimità, eventuali disturbi di natura psichica, che non si traducano in concreto in grave infermità fisica, non sarebbero idonei a giustificare il differimento dell’esecuzione della pena. Pertanto, non sarebbe possibile «né ampliare in via analogica le ipotesi di differimento della pena né estendere il concetto di “grave infermità fisica” fino al punto di ricomprendervi i casi di una compromissione dell’integrità psico-fisica della persona detenuta che sia conseguenza non di uno stato patologico ma di una condizione di detenzione “inumana” perché al di sotto dei parametri minimi di spazio disponibile indicati dalla Corte europea».

Osserva inoltre il rimettente che la pronuncia additiva richiesta sarebbe “a rime obbligate”, in quanto la soluzione prospettata (prevedere il rinvio della pena nei casi di trattamento inumano accertato secondo i parametri della CEDU) non sarebbe solo una tra quelle astrattamente ipotizzabili: infatti, soltanto la sospensione dell’esecuzione della pena detentiva (eventualmente anche nelle forme della detenzione domiciliare “in surroga”), rimessa – come negli altri casi di rinvio facoltativo – alla decisione dell’autorità giudiziaria, sarebbe in grado di ristabilire una condizione di legalità dell’esecuzione della pena nel caso concreto, laddove «tale effetto non potrebbe direttamente avere, ad esempio, un qualsivoglia provvedimento a carattere indulgenziale o deflativo, questo sì riservato al legislatore, di portata generale e applicabile in una pluralità di casi».

Richiamata la sentenza della Corte di Strasburgo 8 gennaio 2013, Torreggiani contro Italia e gli obblighi dalla stessa discendenti, il Tribunale di sorveglianza di Venezia ritiene che la norma censurata sia in contrasto con l’art. 27 Cost. sotto il duplice profilo del divieto di trattamenti contrari al senso di umanità e del finalismo rieducativo. Il primo profilo sarebbe comunque prevalente sul secondo, poiché la pena non può consistere in un trattamento contrario al senso di umanità, laddove essa, allo stesso tempo, deve tendere alla rieducazione del condannato: pertanto, mentre la finalità rieducativa rimarrebbe nell’ambito del «dover essere», e quindi su un piano esclusivamente finalistico, la non disumanità atterrebbe al suo essere medesimo, sicché la pena inumana sarebbe «non pena» e dunque andrebbe sospesa o differita in tutti i casi di esecuzione in condizioni talmente degradanti da non garantire il rispetto della dignità del condannato. L’accertamento di tali condizioni dovrebbe essere svolto sulla base dell’art. 3 della CEDU, come interpretato dalla Corte di Strasburgo, che ritiene integrato il carattere disumano e degradante del trattamento penitenziario laddove alla persona detenuta sia riservato uno spazio nella camera di detenzione inferiore o pari a mq. 3, indipendentemente dalle condizioni di vita comunque garantite in istituto (numero delle ore d’aria e di apertura delle porte, attività scolastiche o lavorative, possibilità di svolgere attività di svago in locali comuni).

La norma censurata sarebbe anche in contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost., che impone al legislatore il rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali, e con gli artt. 2 e 3 Cost., dovendosi intendere la dignità umana quale diritto inviolabile, «presupposto dello stesso articolo 27 Cost.».

La norma censurata sarebbe inoltre in contrasto con l’art. 27 Cost. sotto il profilo della finalità rieducativa della pena, che non potrebbe mai dispiegarsi in condizioni di «inumanità», in quanto «la restrizione in spazi angusti, a ridosso di altri corpi, produce invalidazione di tutta la persona e quindi deresponsabilizzazione e rimozione del senso di colpa non inducendo nel condannato quel significativo processo modificativo che, attraverso il trattamento individualizzato, consente l’instaurazione di una normale vita di relazione».

Infine, dopo aver segnalato una pronuncia della Corte federale della California, confermata dalla Corte suprema degli Stati Uniti, e una della Corte costituzionale tedesca, il rimettente osserva, sotto il profilo della razionalità giuridica e della coerenza costituzionale, come «non siano mancati precedenti anche in altri ordinamenti – non sospettabili di insensibilità alle esigenze di sicurezza – in cui si sia fatta applicazione proprio dello strumento del differimento o della sospensione della pena per ricondurre ad una situazione di legalità l’esecuzione della pena detentiva in situazioni di palese violazione del divieto di “pene crudeli”».

2.– È intervenuto nel giudizio di legittimità costituzionale il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, e ha chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile o, comunque, infondata.

Il differimento dell’esecuzione della pena sarebbe stato richiesto «per ragioni che nulla hanno di giuridico ma esclusivamente per una circostanza di fatto e transitoria, cioè un presunto temporaneo “sovraffollamento” della cella» nella quale il richiedente «era recluso al momento dell’istanza». Prive di riscontri oggettivi e certi, le circostanze esposte sarebbero suscettibili di «mutamento nel tempo e di elaborazioni meramente discrezionali da parte del soggetto interessato e dell’Organo giudicante», laddove le condizioni cui l’art. 147 cod. pen. ricollega il differimento facoltativo dell’esecuzione sarebbero, al contrario, «ben precise e connesse a fattori esattamente definiti ed apprezzabili dall’Organo giudicante con precisi riferimenti agli interessi da ponderare»: il rilievo impedirebbe «di fondare un giudizio di costituzionalità su una disposizione perfettamente in linea con i precetti costituzionali di riferimento». Gli inconvenienti lamentati dall’istante, peraltro, sarebbero superabili «con mezzi adeguati al sistema, cioè con una diversa disciplina amministrativa della organizzazione dell’istituto di pena, di competenza dell’Autorità prepostavi ed estranea alla potestà giurisdizionale del Tribunale di Sorveglianza».

La questione sarebbe comunque infondata, in quanto la mera circostanza del momentaneo collocamento nella cella di un numero di detenuti ritenuto eccessivo rispetto a quello ottimale non violerebbe né i parametri costituzionali posti a tutela della dignità, dell’uguaglianza e della libertà dei cittadini (dato che l’evenienza della carcerazione in seguito a condanna inflitta all’esito di un giusto processo non contrasterebbe con alcuno dei parametri evocati), né il principio della finalità rieducativi della pena (connesso ad altri fattori, quali il lavoro in carcere o, nei casi ammessi, all’esterno), né i valori di cui all’art. 3 CEDU (che avrebbero «una caratterizzazione di respiro generale» e non potrebbero dirsi automaticamente compromessi «dalla situazione contingente dell’istituto carcerario preso in considerazione dall’ordinanza di rimessione e, comunque, da problemi limitati al caso peculiare oggetto del giudizio a quo»).

L’Avvocatura dello Stato osserva infine che la questione sollevata dal Tribunale di sorveglianza di Venezia potrebbe essere risolta attraverso un’interpretazione costituzionalmente orientata della norma censurata. Il rimettente non avrebbe esaminato criticamente gli orientamenti giurisprudenziali che impedirebbero l’applicazione al caso di specie dell’art. 147 cod. pen.: una volta astratti dal singolo caso in giudizio, i principi generali indicati dalla giurisprudenza potrebbero orientare il giudicante verso un’interpretazione del combinato disposto degli artt. 147 e 148 cod. pen. tale da consentire il rispetto dei precetti della CEDU e della Costituzione, rendendo così non necessaria l’invocata pronuncia di illegittimità costituzionale.

Per l’ipotesi che l’intervento sollecitato dal rimettente fosse ritenuto ammissibile e sufficiente ad assicurare in via generale il rispetto dell’art. 3 della CEDU, l’Avvocatura dello Stato segnala la non definitività della sentenza della Corte di Strasburgo dell’8 gennaio 2013 e riferisce che sarebbe in stato di avanzata esecuzione il “piano carceri” varato dal Governo per adeguare e ammodernare gli istituti di pena.

3.– Ha proposto atto di intervento – depositato fuori termine il 17 settembre 2013 – l’Unione delle Camere penali italiane. Invocando a sostegno della tempestività dell’intervento l’art. 10 delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale e, quanto alla legittimazione soggettiva, la disciplina di cui all’art. 27 della legge 7 dicembre 2000, n. 383 (Disciplina delle associazioni di promozione sociale), l’Unione delle Camere penali italiane ha chiesto l’accoglimento della questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di sorveglianza di Venezia, richiamando, in tal senso, pronunce della Corte costituzionale e della Corte europea dei diritti dell’uomo.

4.– Con ordinanza depositata il 18 marzo 2013 (r.o. n. 82 del 2013), il Tribunale di sorveglianza di Milano ha sollevato, in riferimento agli articoli 2, 3, 27, terzo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 3 della CEDU, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 147 cod. pen. «nella parte in cui non prevede, oltre ai casi ivi espressamente contemplati, l’ipotesi di rinvio facoltativo dell’esecuzione della pena quando essa debba svolgersi in condizioni contrarie al senso di umanità».

Il rimettente è stato investito dell’istanza di rinvio facoltativo dell’esecuzione della pena presentata da un detenuto, che lamentava lo svolgimento della sua reclusione con modalità disumane equiparabili a tortura; l’istanza era stata rigettata in via interinale dal magistrato di sorveglianza, che ne aveva quindi rimesso l’esame al tribunale di sorveglianza. Il detenuto sta scontando la pena di quindici anni di reclusione (di cui residua la pena di dodici anni, sette mesi e dieci giorni) irrogata a seguito di condanna per i delitti di associazione di tipo mafioso, sequestro di persona, detenzione e porto abusivo di armi; lo spazio a sua disposizione nella cella, che divide con altri due reclusi, è pari a circa mq. 3,30, di poco superiore al limite minimo considerato “vitale” dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (sentenza 16 luglio 2009, Sulejmanovic contro Italia; sentenza 8 gennaio 2013, Torreggiani contro Italia), dovendosi però considerare che tale spazio è in parte occupato da vario mobilio; pertanto, lo spazio disponibile per il detenuto è di gran lunga inferiore ai mq. 3. Ritiene, dunque, il Tribunale di sorveglianza di Milano che «il detenuto stia subendo un trattamento “disumano e degradante”», sicché si pone «una questione di compatibilità della sua detenzione con i princìpi di non disumanità della pena e di rispetto della dignità della persona detenuta sottesi all’applicazione proprio dell’istituto del differimento della pena che viene invocato dall’interessato».

Riferisce ancora il rimettente che, in considerazione dei reati commessi (ostativi ai sensi dell’art. 4-bis, comma 1, dell’ordinamento penitenziario, della loro gravità e del lontano fine pena), al condannato non potrebbe, allo stato, essere concessa alcuna delle misure previste per esigenze meramente o prevalentemente deflattive (come, ad esempio, l’esecuzione presso il domicilio della pena detentiva ex art. 1 della legge n. 199 del 2010 e successive modificazioni) o per scopi di umanizzazione o rieducativi, che possano comportare la sottrazione del condannato a carcerazioni degradanti (ad esempio, i permessi premio a norma dell’art. 30-ter dell’ordinamento penitenziario), sicché non resterebbe che ricorrere al rinvio facoltativo dell’esecuzione della pena invocato dall’istante.

Il Tribunale di sorveglianza di Milano propone poi, anche in ordine alla non manifesta infondatezza della questione, argomentazioni analoghe a quelle svolte dall’ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Venezia n. 67 del 2013, sottolineando, con riferimento all’art. 3 della CEDU, come si tratti di «una norma di jus cogens, che non prevede alcun tipo di eccezione o deroga in quanto accorda al diritto di non essere sottoposti a tortura o a pene o trattamenti inumani o degradanti una protezione assoluta, non suscettibile di deroga, neppure in caso di guerra o qualora sussista un pericolo pubblico per la nazione o in caso di lotta al terrorismo o al crimine organizzato» (art. 15, comma 2, della CEDU).

Il rimettente, inoltre, richiama per un verso l’art. 32 Cost. e la definizione di “salute” delineata dall’Organizzazione mondiale della sanità e, per altro verso, la sentenza n. 113 del 2011, con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 630 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede un diverso caso di revisione della sentenza o del decreto penale di condanna al fine di conseguire la riapertura del processo, quando ciò sia necessario, ai sensi dell’art. 46, paragrafo 1, della CEDU, per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell’uomo.

Osserva, ancora, il rimettente che gli impedimenti all’effettiva espiazione della pena previsti dall’ordinamento sarebbero solo di carattere individuale, riguardando la persona del detenuto e non le condizioni in cui la pena stessa viene eseguita, laddove in altri ordinamenti si sarebbe fatta applicazione proprio dello strumento del differimento o della sospensione per ricondurre a una situazione di legalità l’esecuzione in palese violazione del divieto di pene crudeli: il sistema, ampiamente collaudato in Paesi del Nord Europa, «pone il principio inderogabile del limite massimo di capienza degli istituti penitenziari», essendo prevista «la possibilità, per i reati meno gravi e sulla base di una normativa molto stringente, di evitare la detenzione vera e propria fino a quando si crea un posto negli istituti penitenziari».

5.– È intervenuto nel giudizio di legittimità costituzionale il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo, sulla base di argomentazioni analoghe a quelle svolte con riferimento all’ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Venezia n. 67 del 2013, che la questione sia dichiarata inammissibile o, comunque, infondata.

6.– Ha proposto atto di intervento – depositato fuori termine il 29 luglio 2013 – l’Associazione VOX–Osservatorio italiano sui diritti, che, richiamando contributi dottrinali e pronunce della Corte costituzionale e della Corte europea dei diritti dell’uomo, ha chiesto l’accoglimento della questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di sorveglianza di Milano.

Considerato in diritto

1.– Con due ordinanze analoghe, il Tribunale di sorveglianza di Venezia e il Tribunale di sorveglianza di Milano hanno sollevato, in riferimento agli articoli 2, 3, 27, terzo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’articolo 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (d’ora in avanti: CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 147 del codice penale «nella parte in cui non prevede, oltre ai casi ivi espressamente contemplati, l’ipotesi di rinvio facoltativo dell’esecuzione della pena quando essa debba svolgersi in condizioni contrarie al senso di umanità».

Escludendo in tale caso il differimento dell’esecuzione, la norma impugnata, secondo i giudici rimettenti, violerebbe l’art. 27, terzo comma, Cost. sotto due aspetti: in primo luogo con riferimento al divieto di trattamenti contrari al senso di umanità, trattamenti, quelli oggetto delle ordinanze di rimessione, così qualificabili in base all’art. 3 della CEDU, come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, che ritiene integrato il carattere disumano e degradante laddove alla persona detenuta sia riservato uno spazio nella camera di detenzione inferiore o pari a mq. 3, indipendentemente dalle condizioni di vita comunque garantite nell’istituto penitenziario; in secondo luogo con riferimento alla finalità rieducativa della pena, finalità compromessa qualora l’esecuzione carceraria si svolga in condizioni di “inumanità”, perché «la restrizione in spazi angusti, a ridosso di altri corpi, produce invalidazione di tutta la persona e quindi deresponsabilizzazione e rimozione del senso di colpa non inducendo nel condannato quel significativo processo modificativo che, attraverso il trattamento individualizzato, consente l’instaurazione di una normale vita di relazione».

La norma censurata, inoltre, sarebbe in contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 3 della CEDU, così come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, che ha individuato i parametri di «vivibilità minima», al di sotto dei quali una detenzione può definirsi «trattamento inumano o degradante».

Infine, l’art. 147 cod. pen., per un verso, violerebbe gli artt. 2 e 3 Cost., dovendosi intendere la dignità umana quale diritto inviolabile, «presupposto dello stesso articolo 27 Cost.», e, per altro verso, anche alla luce dell’esperienza di altri ordinamenti, minerebbe la razionalità giuridica e la coerenza costituzionale del sistema a causa dell’assenza dello «strumento del differimento o della sospensione della pena per ricondurre ad una situazione di legalità l’esecuzione della pena detentiva in situazioni di palese violazione del divieto di “pene crudeli”».

Entrambe le ordinanze, per motivare il contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 3 della CEDU, fanno riferimento alla sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, 8 gennaio 2013, Torreggiani contro Italia, relativa ai ricorsi di sette detenuti che avevano lamentato di essere stati sottoposti a un trattamento inumano e degradante, per il sovraffollamento e per altre condizioni di degrado delle celle nelle quali erano stati costretti a vivere.

La Corte europea ha riscontrato che i ricorrenti, nel corso della detenzione, avevano avuto a disposizione nelle loro celle uno spazio vitale individuale di tre metri quadrati, ulteriormente ridotto dalla presenza di mobilio, e ha ritenuto che la carenza di spazio costituisse «di per sé» un trattamento contrario alla Convenzione, ulteriormente aggravato da altre situazioni ambientali denunciate, quali la mancanza di acqua calda e di un’illuminazione e una ventilazione sufficienti. Di qui la conclusione che vi era stata violazione dell’art. 3 della CEDU.

Nella sentenza la Corte di Strasburgo ha rilevato che «il sovraffollamento carcerario in Italia non riguarda esclusivamente i casi dei ricorrenti» e che, come dimostrano i dati statistici, «la violazione del diritto dei ricorrenti di beneficiare di condizioni detentive adeguate non è la conseguenza di episodi isolati, ma trae origine da un problema sistemico risultante da un malfunzionamento cronico proprio del sistema penitenziario italiano, che ha interessato e può interessare ancora in futuro numerose persone».

Considerata questa situazione, pur consapevole della «necessità di sforzi conseguenti e sostenuti sul lungo periodo per risolvere il problema strutturale del sovraffollamento carcerario», la Corte ha dichiarato che «stante l’inviolabilità del diritto tutelato dall’articolo 3 della Convenzione, lo Stato è tenuto ad organizzare il suo sistema penitenziario in modo tale che la dignità dei detenuti sia rispettata», e che, quando non è in grado di garantire a ciascun detenuto condizioni detentive conformi all’art. 3 della CEDU, è tenuto ad agire «in modo da ridurre il numero di persone incarcerate, in particolare attraverso una maggiore applicazione di misure punitive non privative della libertà (…) e una riduzione al minimo del ricorso alla custodia cautelare in carcere».

Ciò considerato, la Corte europea ha preso in considerazione le «vie di ricorso interne da adottare per far fronte al problema sistemico» emerso in seguito ai ricorsi, e ha affermato che, «in materia di condizioni detentive, i rimedi “preventivi” e quelli di natura “compensativa” devono coesistere in modo complementare». Perciò «quando un ricorrente sia detenuto in condizioni contrarie all’articolo 3 della Convenzione, la migliore riparazione possibile è la rapida cessazione della violazione del diritto a non subire trattamenti inumani e degradanti»; inoltre il ricorrente «deve potere ottenere una riparazione per la violazione subita».

Posti tali principi, la Corte ha aggiunto che non risponde ai canoni convenzionali il reclamo al magistrato di sorveglianza ex artt. 35 e 69 dell’ordinamento penitenziario, perché si tratta di «un ricorso accessibile, ma non effettivo nella pratica, dato che non consente di porre fine rapidamente alla carcerazione in condizioni contrarie all’articolo 3 della Convenzione». Pertanto, ha concluso la Corte, entro un anno dalla data in cui la sentenza Torreggiani sarà diventata definitiva, «le autorità nazionali devono creare senza indugio un ricorso o una combinazione di ricorsi che abbiano effetti preventivi e compensativi e garantiscano realmente una riparazione effettiva delle violazioni della Convenzione risultanti dal sovraffollamento carcerario in Italia».

2.– In considerazione dell’identità delle questioni, deve essere disposta la riunione dei giudizi, al fine di definirli con un’unica pronuncia.

3.– Preliminarmente deve rilevarsi che gli atti di intervento dell’Associazione VOX–Osservatorio italiano sui diritti e dell’Unione delle Camere penali italiane sono stati depositati oltre il termine stabilito dall’art. 4, comma 4, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale e ciò determina l’inammissibilità di tali interventi (ordinanza n. 150 del 2012). Né in senso contrario può invocarsi il termine di cui all’art. 10 delle norme integrative, richiamato dall’Unione delle Camere penali italiane, perché questo termine si riferisce al mero deposito di memorie illustrative.

4.– L’Avvocatura generale dello Stato ha proposto due eccezioni di inammissibilità.

Con la prima si deduce, da un lato, che le circostanze esposte dai rimettenti sarebbero prive di riscontri oggettivi e suscettibili di «mutamento nel tempo e di elaborazioni meramente discrezionali da parte del soggetto interessato e dell’Organo giudicante», laddove le condizioni cui l’art. 147 cod. pen. ricollega il differimento facoltativo dell’esecuzione della pena sarebbero «ben precise e connesse a fattori esattamente definiti ed apprezzabili dall’Organo giudicante con precisi riferimenti agli interessi da ponderare», il che impedirebbe «di fondare un giudizio di costituzionalità su una disposizione perfettamente in linea con i precetti costituzionali di riferimento»; dall’altro, che «gli inconvenienti lamentati dal detenuto istante [sarebbero] perseguibili con mezzi adeguati al sistema, cioè con una diversa disciplina amministrativa della organizzazione dell’istituto di pena, di competenza dell’Autorità prepostavi ed estranea alla potestà giurisdizionale del Tribunale di Sorveglianza».

L’eccezione non è fondata. Le circostanze di fatto riferite dai giudici rimettenti sono state accertate anche attraverso specifiche acquisizioni istruttorie; la descrizione di esse risponde all’esigenza di delineare compiutamente le fattispecie oggetto dei giudizi a quibus e la loro riconducibilità al tipo di condizioni detentive che la Corte di Strasburgo considera lesive dell’art. 3 della CEDU. L’asserzione, poi, che tali circostanze sono suscettibili di mutamento nel tempo e che gli «inconvenienti» lamentati dagli istanti sono superabili con iniziative organizzative dell’Autorità competente non rileva ai fini dell’ammissibilità delle questioni, che sono finalizzate all’introduzione di un rimedio “preventivo” per i casi in cui l’Amministrazione penitenziaria non sia in grado di assicurare condizioni detentive compatibili con il divieto di trattamenti contrari al senso di umanità.

L’Avvocatura dello Stato censura poi il mancato esame critico, da parte dei rimettenti, degli orientamenti giurisprudenziali che impedirebbero l’applicazione ai casi oggetto dei giudizi principali della disciplina di cui all’art. 147 cod. pen. Anche questa eccezione non è fondata, in quanto i tribunali di sorveglianza di Venezia e di Milano hanno escluso la praticabilità di un’interpretazione costituzionalmente conforme sulla base di una ricostruzione della portata della norma censurata aderente al dato letterale e in linea con le indicazioni rinvenibili nella giurisprudenza di legittimità.

5.– Le questioni, peraltro, sono per una diversa ragione inammissibili.

6.– La complessità della situazione sottostante alle questioni sollevate dai rimettenti impone di collocarle nel contesto della realtà carceraria italiana, caratterizzata da condizioni di sovraffollamento che, nel suo messaggio alle Camere dell’8 ottobre 2013, il Presidente della Repubblica ha definito intollerabili; i rimettenti muovono da questo contesto, sottolineando come appartenga al fatto notorio «la circostanza che la capienza (sia regolamentare sia tollerabile) degli istituti di pena italiani è di gran lunga inferiore rispetto alla grandezza delle effettive presenze».

In termini analoghi si è espressa, come si è visto, la Corte europea dei diritti dell’uomo, che, con la sentenza 8 gennaio 2013, Torreggiani contro Italia, ha rimarcato come il sovraffollamento carcerario in Italia abbia un «carattere strutturale e sistemico».

Queste valutazioni sono senz’altro condivisibili alla luce dei dati statistici, dai quali emerge un fenomeno che, pur con intensità diverse, sta investendo da tempo il sistema penitenziario italiano e ha determinato una situazione che non può protrarsi, data l’attitudine del sovraffollamento carcerario a pregiudicare i connotati costituzionalmente inderogabili dell’esecuzione penale e ad incidere, comprimendolo, sul “residuo” irriducibile della libertà personale del detenuto, gli uni e l’altro espressione del principio personalistico posto a fondamento della Costituzione repubblicana (sentenza n. 1 del 1969).

Il sovraffollamento però non può essere contrastato con lo strumento indicato dai rimettenti, che, se pure potesse riuscire a determinare una sensibile diminuzione del numero delle persone recluse in carcere, giungerebbe a questo risultato in modo casuale, determinando disparità di trattamento tra i detenuti, i quali si vedrebbero o no differire l’esecuzione della pena in mancanza di un criterio idoneo a selezionare chi debba ottenere il rinvio dell’esecuzione fino al raggiungimento del numero dei reclusi compatibile con lo stato delle strutture carcerarie. L’obbiettivo dei rimettenti del resto non è quello di introdurre nel sistema uno strumento capace di porre termine al sovraffollamento carcerario, ma quello di apprestare una tutela per la persona che si trovi a subire un trattamento penale non conforme ai principi fissati dall’art. 27, terzo comma, Cost.

Fermo rimanendo che non spetta a questa Corte individuare gli indirizzi di politica criminale idonei a superare il problema strutturale e sistemico del sovraffollamento carcerario, non ci si può esimere dal ricordare le indicazioni offerte al riguardo dalla citata sentenza Torreggiani, laddove richiama le raccomandazioni del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, che invitano al più ampio ricorso possibile alle misure alternative alla detenzione e al riorientamento della politica penale verso il minimo ricorso alla carcerazione, oltre che a una forte riduzione della custodia cautelare in carcere. È da considerare però che un intervento combinato sui sistemi penale, processuale e dell’ordinamento penitenziario richiede del tempo mentre l’attuale situazione non può protrarsi ulteriormente e fa apparire necessaria la sollecita introduzione di misure specificamente mirate a farla cessare.

7.– Ciò premesso per quanto riguarda, nei suoi aspetti generali, la situazione di sovraffollamento carcerario, va considerato che il suo carattere strutturale e sistemico ha indotto la Corte di Strasburgo a statuire, con la procedura della sentenza pilota, che, entro il termine di un anno dalla data in cui la decisione è divenuta definitiva, le autorità nazionali devono creare un ricorso o una combinazione di ricorsi individuali che abbiano effetti “preventivi” (nel senso che devono determinare «la rapida cessazione della violazione del diritto a non subire trattamenti inumani e degradanti») e “compensativi”, e garantiscano una riparazione effettiva delle violazioni della CEDU risultanti dal sovraffollamento.

La necessità di introdurre un rimedio “preventivo” a tutela del detenuto che subisce condizioni di detenzione contrarie al senso di umanità sta anche alla base delle questioni sollevate dai tribunali di sorveglianza di Venezia e di Milano, rispetto alle quali il più generale problema del sovraffollamento carcerario rimane sullo sfondo.

I giudici rimettenti muovono dalla esigenza di «dare applicazione al principio di non disumanità della pena», cui sarebbe in grado di far fronte la “norma di chiusura” sul rinvio facoltativo dell’esecuzione della pena, da introdurre attraverso la pronuncia additiva richiesta a questa Corte. Tale norma costituirebbe «l’unico strumento di effettiva tutela in sede giurisdizionale al fine di ricondurre nell’alveo della legalità costituzionale l’esecuzione della pena», in presenza di condizioni detentive che si risolvano in trattamenti disumani e degradanti.

È da aggiungere che, come correttamente rilevano i giudici rimettenti, il divieto di adottare misure concretanti un trattamento contrario al senso di umanità non può essere disgiunto, nella ricostruzione della sua ratio e della sua portata applicativa, dal riferimento alla finalità rieducativa (sentenza n. 376 del 1997): al riguardo, questa Corte ha messo in luce il contesto «unitario, non dissociabile», nel quale vanno collocati i princìpi delineati dal terzo comma dell’art. 27 Cost., in quanto logicamente in funzione l’uno dell’altro, posto che, in particolare, «un trattamento penale ispirato a criteri di umanità è necessario presupposto per un’azione rieducativa del condannato» (sentenza n. 12 del 1966).

7.1.– Lo statuto costituzionale e quello convenzionale del divieto di trattamenti contrari al senso di umanità confermano l’esigenza che l’ordinamento appresti i necessari rimedi di tipo “preventivo” a tutela del detenuto. Questi rimedi possono essere innanzi tutto “interni” al sistema penitenziario, e quindi tali da comportare, in casi come quelli oggetto delle ordinanze di rimessione, non già la sospensione dell’esecuzione carceraria della pena, ma, ad esempio, più semplicemente, lo spostamento del detenuto in un’altra camera di detenzione o il suo trasferimento in un altro istituto penitenziario.

Esiste dunque, in primo luogo, uno spazio per interventi dell’amministrazione penitenziaria che devono essere indirizzati alla salvaguardia, congiuntamente, del diritto a non subire trattamenti disumani e della finalità rieducativa della pena, perché il contesto «non dissociabile» nel quale vanno collocati i due princìpi delineati dal terzo comma dell’art. 27 Cost. esclude l’ammissibilità di interventi che, allo scopo di porre rimedio a una lesione del primo, determinino una compromissione della seconda.

È inoltre necessario che, a garanzia della preminenza dei principi costituzionali ai quali deve conformarsi l’esecuzione della pena, gli interventi dell’amministrazione penitenziaria si trovino inseriti in un contesto di effettiva tutela giurisdizionale.

Vengono in considerazione al riguardo le conclusioni cui è giunta la giurisprudenza di questa Corte in tema di tutela dei diritti del detenuto: per un verso, infatti, alle disposizioni impartite, nel corso del trattamento, dal magistrato di sorveglianza, a norma dell’art. 69, comma 5, dell’ordinamento penitenziario, è stata riconosciuta natura di «prescrizioni od ordini, il cui carattere vincolante per l’amministrazione penitenziaria è intrinseco alle finalità di tutela che la norma stessa persegue» (sentenza n. 266 del 2009); per altro verso, si è più di recente affermato che «le decisioni del magistrato di sorveglianza, rese su reclami proposti da detenuti a tutela di propri diritti e secondo la procedura contenziosa di cui all’art. 14-ter ord. pen., devono ricevere concreta applicazione e non possono essere private di effetti pratici da provvedimenti dell’Amministrazione penitenziaria o di altre autorità» (sentenza n. 135 del 2013).

Sono perciò superate le incertezze espresse, sia dalla Corte di Strasburgo, sia dai rimettenti, sull’effettività di tali decisioni, e dunque sulla loro capacità di porre fine a condizioni detentive intollerabili; tuttavia, anche per dare compiuta attuazione alle prescrizioni della sentenza Torreggiani, il legislatore, per porre termine a residue ambiguità dell’ordinamento penitenziario, dovrebbe completare il sistema apprestando idonei strumenti esecutivi in modo da rendere certa l’ottemperanza dell’amministrazione alle decisioni della magistratura di sorveglianza.

7.2.– Chiarito l’ambito entro il quale situazioni lesive del principio di umanità della pena possono e devono essere affrontate attraverso i rimedi “interni”, occorre stabilire se questi possano essere sufficienti o se invece sia necessaria una norma di chiusura per il caso in cui, a causa del sovraffollamento, questi rimedi non siano in grado di operare efficacemente, e se tale norma, come prospettano i rimettenti, debba necessariamente prevedere un rinvio dell’esecuzione della pena, da rendere possibile per il giudice attraverso la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 147 cod. pen.

Come ha rilevato fondatamente la sentenza Torreggiani, considerate le dimensioni strutturali del sovraffollamento carcerario in Italia è facile immaginare che le autorità penitenziarie non siano sempre in grado di dare esecuzione alle decisioni dei magistrati di sorveglianza e di garantire ai reclusi condizioni detentive conformi alla CEDU. Perciò deve riconoscersi che il sovraffollamento carcerario può nella realtà assumere dimensioni e caratteristiche tali da tradursi in trattamenti contrari al senso di umanità e da rendere al tempo stesso impraticabili i rimedi “interni” di cui si è parlato. In questi casi occorre un rimedio estremo, il quale, quando non sia altrimenti possibile mediante le ordinarie misure dell’ordinamento penitenziario, permetta una fuoriuscita del detenuto dal circuito carcerario, eventualmente correlata all’applicazione nei suoi confronti di misure sanzionatorie e di controllo non carcerarie.

8.– Riconosciute, dunque, nei limiti indicati, l’effettiva sussistenza del vulnus denunciato dai rimettenti e la necessità che l’ordinamento si doti di un rimedio idoneo a garantire la fuoriuscita dal circuito carcerario del detenuto che sia costretto a vivere in condizioni contrarie al senso di umanità, le questioni sollevate dai tribunali di sorveglianza di Venezia e di Milano risultano, tuttavia, inammissibili per la pluralità di soluzioni normative che potrebbero essere adottate; pluralità che fa escludere l’asserito carattere “a rime obbligate” dell’intervento additivo sull’art. 147 cod. pen. Oltre al mero rinvio dell’esecuzione della pena, sono, infatti, ipotizzabili altri tipi di rimedi “preventivi”, come, ad esempio, quelli modellati sulle misure previste dagli artt. 47 e seguenti dell’ordinamento penitenziario, ad alcune delle quali si è fatto riferimento nel dibattito seguito alla sentenza Torreggiani; misure che per ovviare alla situazione di invivibilità derivante dal sovraffollamento carcerario potrebbero essere adottate dal giudice anche in mancanza delle condizioni oggi tipicamente previste. In particolare potrebbe ipotizzarsi un ampio ricorso alla detenzione domiciliare, sempre che le condizioni personali lo consentano, o anche ad altre misure di carattere sanzionatorio e di controllo diverse da quelle attualmente previste, da considerare forme alternative di esecuzione della pena. È da ritenere infatti che lo stesso condannato potrebbe preferire misure del genere e non avere interesse a un rinvio come quello prospettato dai rimettenti, che potrebbe lasciare a lungo aperta la sua vicenda esecutiva.

D’altra parte, anche a seguire l’impostazione dei giudici rimettenti, potrebbe essere necessaria la definizione di criteri in base ai quali individuare il detenuto o i detenuti nei cui confronti il rinvio può essere disposto, in modo da tenere anche conto delle esigenze di “difesa sociale”, richiamate nelle ordinanze di rimessione.

Da vari punti di vista, dunque, risulta la pluralità di possibili configurazioni dello strumento normativo occorrente per impedire che si protragga un trattamento detentivo contrario al senso di umanità, in violazione degli artt. 27, terzo comma, e 117, primo comma, Cost., in relazione quest’ultimo all’art. 3 della CEDU, e a fronte di tale pluralità, il «rispetto della priorità di valutazione da parte del legislatore sulla congruità dei mezzi per raggiungere un fine costituzionalmente necessario» (sentenza n. 23 del 2013) comporta una dichiarazione di inammissibilità delle questioni.

Nel dichiarare l’inammissibilità «questa Corte deve tuttavia affermare come non sarebbe tollerabile l’eccessivo protrarsi dell’inerzia legislativa in ordine al grave problema individuato nella presente pronuncia» (sentenza n. 23 del 2013).

per questi motivi

La Corte Costituzionale

riuniti i giudizi,

1) dichiara inammissibili gli interventi dell’Associazione VOX–Osservatorio italiano sui diritti e dell’Unione delle Camere penali italiane;

2) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 147 del codice penale, sollevate, in riferimento agli articoli 2, 3, 27, terzo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’articolo 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848, dal Tribunale di sorveglianza di Venezia e dal Tribunale di sorveglianza di Milano, con le ordinanze indicate in epigrafe.

 Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 ottobre 2013.