Sentenza della Corte costituzionale 8 novembre 2016, n. 286

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G.U. 28 dicembre 2016, n. 52

La Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità della norma desumibile dagli artt. 237, 262 e 299 c.c.; 72, co. 1, r.d. n. 1238/1939 (Ordinamento dello stato civile); e 33 e 34 d.P.R. n. 396/2000 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile), nella parte in cui non consente ai coniugi, di comune accordo, di trasmettere ai figli, al momento della nascita, anche il cognome materno. Accogliendo le censure relative alla violazione del diritto all’identità personale, di cui il nome è parte integrante, e del divieto di discriminazione (artt. 2 e 3 Cost.), nonché della Convenzione sull’eliminazione della discriminazione nei confronti della donna e della Convenzione sui diritti del fanciullo, la Corte ha altresì rammentato che, secondo la sentenza della Corte europea dei diritti umani nel caso Cusan Fazzo c. Italia (2014), l’impossibilità per i genitori di attribuire al figlio, alla nascita, il cognome della madre anziché quello del padre integra una violazione della CEDU (art. 14 sul divieto di discriminazione, in combinato disposto con l’art. 8 sul rispetto della vita privata e familiare), che deriva da un vuoto normativo del diritto italiano.

Sentenza

nel giudizio di legittimità costituzionale della norma desumibile dagli artt. 237, 262 e 299 del codice civile, 72, primo comma, del regio decreto 9 luglio 1939, n. 1238 (Ordinamento dello stato civile) e 33 e 34 del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della L. 15 maggio 1997, n. 127), promosso dalla Corte di appello di Genova, nel procedimento proposto da M.M. e M.G., con ordinanza del 28 novembre 2013, iscritta al n. 31 del registro ordinanze 2014 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 13, prima serie speciale, dell’anno 2014.

Visto l’atto di costituzione di M.M. e M.G., in proprio e nella qualità di esercenti la potestà sul minore V., nonché l’atto di intervento dell’Associazione Rete per la Parità;

udito nell’udienza pubblica dell’8 novembre 2016 il Giudice relatore Giuliano Amato;

uditi gli avvocati Antonella Anselmo per l’Associazione Rete per la Parità e Susanna Schivo per M.M. e M.G., in proprio e nella qualità di esercenti la potestà sul minore V.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza emessa il 28 novembre 2013, la Corte d’appello di Genova ha sollevato – in riferimento agli artt. 2, 3, 29, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione – questione di legittimità costituzionale della norma desumibile dagli artt. 237, 262 e 299 del codice civile, 72, primo comma, del regio decreto 9 luglio 1939, n. 1238 (Ordinamento dello stato civile) e 33 e 34 del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della L. 15 maggio 1997, n. 127), nella parte in cui prevede «l’automatica attribuzione del cognome paterno al figlio legittimo, in presenza di una diversa contraria volontà dei genitori».

2.– Il giudizio a quo ha per oggetto il reclamo avverso il provvedimento del Tribunale ordinario di Genova che ha respinto il ricorso avverso il rigetto, da parte dall’ufficiale dello stato civile, della richiesta di attribuire al figlio dei ricorrenti il cognome materno, in aggiunta a quello paterno.

La Corte d’appello di Genova osserva che, sebbene la norma sull’automatica attribuzione del cognome paterno, anche in presenza di una diversa volontà dei genitori, non sia prevista da alcuna specifica norma di legge, essa è desumibile dal sistema normativo, in quanto presupposta dagli artt. 237, 262 e 299 cod. civ., nonché dall’art. 72, primo comma, del r.d. n. 1238 del 1939, e dagli artt. 33 e 34 del d.P.R. n. 396 del 2000.

Il rimettente evidenzia che molti Stati europei si sono già adeguati al vincolo posto dalle fonti convenzionali e, in particolare, dall’art. 16, comma 1, lettera g), della Convenzione sulla eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna, adottata a New York il 18 dicembre 1979, ratificata e resa esecutiva con legge 14 marzo 1985, n. 132. Essa impegna gli Stati contraenti ad adottare tutte le misure adeguate per eliminare tale discriminazione in tutte le questioni derivanti dal matrimonio e nei rapporti familiari e, in particolare, ad assicurare «gli stessi diritti personali al marito e alla moglie, compresa la scelta del cognome».

Vengono, inoltre, richiamate le raccomandazioni del Consiglio d’Europa 28 aprile 1995, n. 1271 e 18 marzo 1998, n. 1362, nonché la risoluzione 27 settembre 1978, n. 37, relative alla piena realizzazione della uguaglianza tra madre e padre nell’attribuzione del cognome dei figli, nonché alcune pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo, che vanno nella direzione della eliminazione di ogni discriminazione basata sul genere nella scelta del cognome (sentenze 16 febbraio 2005, Unal Tekeli contro Turchia; 24 ottobre 1994, Stjerna contro Finlandia; 24 gennaio 1994, Burghartz contro Svizzera).

Viene, in particolare, richiamata la sentenza di questa Corte in cui si afferma che «l’attuale sistema di attribuzione del cognome è retaggio di una concezione patriarcale della famiglia, la quale affonda le proprie radici nel diritto di famiglia romanistico, e di una tramontata potestà maritale, non più coerente con i principi dell’ordinamento e con il valore costituzionale dell’uguaglianza tra uomo e donna» (sentenza n. 61 del 2006). In quella occasione, osserva il rimettente, la Corte costituzionale ritenne che la questione esorbitasse dalle proprie prerogative, in quanto l’intervento invocato avrebbe comportato un’operazione manipolativa eccedente dai suoi poteri.

Il giudice a quo evidenzia, tuttavia, la necessità di una rivalutazione della medesima questione, alla luce degli argomenti sviluppati dalla Corte di cassazione nell’ordinanza n. 23934 del 22 settembre 2008, con la quale – ai sensi dell’art. 374, secondo comma, del codice di procedura civile – veniva disposta la trasmissione degli atti al Primo Presidente ai fini della rimessione alle sezioni unite, per valutare la possibilità di un’interpretazione costituzionalmente orientata delle norme che regolano l’attribuzione del cognome ai figli.

Il rimettente ritiene che la distonia rispetto ai principi sanciti dall’art. 29 Cost., già rilevata nella sentenza n. 61 del 2006, imponga – alla luce dei due eventi normativi consistenti, da un lato, nella modifica dell’art. 117 Cost. e, dall’altro, nella ratifica del trattato di Lisbona – la riproposizione della questione relativa alla norma implicita che prevede l’automatica attribuzione del cognome paterno al figlio legittimo, in presenza di una diversa volontà dei genitori.

Tale disciplina si porrebbe in contrasto, in primo luogo, con l’art. 2 Cost., per la violazione del diritto all’identità personale, che trova il primo ed immediato riscontro proprio nel nome e che, nell’ambito del consesso sociale, identifica le origini di ogni persona. Da ciò discenderebbe il diritto del singolo individuo di vedersi riconoscere i segni di identificazione di entrambi i rami genitoriali.

Viene, inoltre, denunciata la violazione dell’art. 3 e dell’art. 29, secondo comma, Cost., sotto il profilo del diritto di uguaglianza e pari dignità dei genitori nei confronti dei figli e dei coniugi tra di loro. D’altra parte, ad avviso del rimettente, l’esigenza di tutela dell’unità familiare non sarebbe idonea a giustificare l’obbligatoria prevalenza del cognome paterno.

Viene, infine, denunciata la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., «come interpretato nelle sentenze n. 348 e n. 349 del 2007 della Corte costituzionale […], costituendo le norme di natura convenzionale già citate parametri del giudizio di costituzionalità delle norme interne».

3.– Nel giudizio dinanzi alla Corte si sono costituite le parti reclamanti nel giudizio principale, chiedendo l’accoglimento della questione di legittimità costituzionale sollevata dal giudice a quo.

3.1.– In punto di fatto, esse evidenziano che il proprio figlio minore, nato in costanza di matrimonio, è titolare di doppia cittadinanza e tuttavia – per effetto del rifiuto opposto dall’ufficiale dello stato civile di procedere all’iscrizione del minore con il cognome di entrambi i genitori – egli viene identificato diversamente nei due Stati dei quali è cittadino: in Italia con il solo cognome del padre ed in Brasile con il doppio cognome, paterno e materno.

Dopo avere illustrato l’evoluzione normativa e giurisprudenziale successiva alla sentenza n. 61 del 2006, la difesa delle parti ricorrenti evidenzia che, nelle more del presente giudizio, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha affermato che l’impossibilità per i genitori di far iscrivere il figlio “legittimo” nei registri dello stato civile attribuendogli alla nascita il cognome della madre, anziché quello del padre, integra violazione dell’art. 14 (divieto di discriminazione), in combinato disposto con l’art. 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare) della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848, e deriva da una lacuna del sistema giuridico italiano, per superare la quale «dovrebbero essere adottate riforme nella legislazione e/o nelle prassi italiane» (sentenza 7 gennaio 2014, Cusan e Fazzo contro Italia).

Ad avviso delle parti reclamanti, tale decisione, vertente su un caso sostanzialmente identico a quello all’esame di questa Corte, rafforza gli argomenti a sostegno della fondatezza della questione.

3.2.– Con riferimento alla denunciata violazione dell’art. 2 Cost., la difesa delle parti private richiama i principi affermati dalla giurisprudenza costituzionale sul diritto al nome come segno distintivo dell’identità personale, anche in riferimento alla posizione del figlio adottivo (sentenze n. 268 del 2002; n. 120 del 2001; n. 297 del 1996 e n. 13 del 1994).

Pur riconoscendo che permangono delle differenze in materia di attribuzione del cognome tra la posizione del figlio di una coppia non unita in matrimonio o adottato e la posizione del figlio di una coppia coniugata, le parti ricorrenti ritengono che la rigidità della norma che impone in ogni caso l’attribuzione del cognome paterno sacrifichi il diritto all’identità del minore, che si vede negata la possibilità di aggiungere il cognome materno, qualora tale scelta sia espressione di un’esigenza connessa all’esercizio del diritto all’identità personale.

Ad avviso delle parti private, se il diritto al nome e, più in particolare, al cognome, costituisce la manifestazione esterna e “tangibile” del diritto all’identità personale, l’attribuzione automatica al figlio di una coppia coniugata del solo cognome paterno determina l’irrimediabile compromissione di tale diritto, precludendo al singolo individuo di essere identificato attraverso il cognome che meglio corrisponda alla propria identità personale.

3.3.– Con riferimento alla dedotta violazione dell’art. 3, primo comma, e dell’art. 29, secondo comma, Cost., sotto il profilo dell’uguaglianza e pari dignità dei genitori e dei coniugi, vengono richiamate le pronunce con le quali, sin dal 1960, la giurisprudenza costituzionale ha affermato l’illegittimità di norme che prevedevano un trattamento irragionevolmente differenziato dei coniugi (sentenze n. 33 del 1960; n. 126 e n. 127 del 1968; n. 147 del 1969; n. 128 del 1970; n. 87 del 1975; n. 477 del 1987; n. 254 del 2006; in tema di eguaglianza nei rapporti patrimoniali tra i coniugi, vengono, inoltre, citate le sentenze n. 46 del 1966; n. 133 del 1970; n. 6 del 1980 e n. 116 del 1990).

3.4.– Quanto alla denunciata violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., la difesa delle parti private richiama i principi affermati a livello internazionale, e recepiti dall’ordinamento italiano, sulla protezione dei diritti del fanciullo e sulla parità di genere. Vengono richiamati, in particolare, l’art. 24 del Patto internazionale sui diritti civili e politici (adottato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 16 dicembre 1966, entrato in vigore il 23 marzo 1976, ratificato e reso esecutivo con legge 25 ottobre 1977, n. 881); l’art. 7 della Convenzione sui diritti del fanciullo (fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con legge 27 maggio 1991, n. 176); l’art. 16, lettera g), della Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (Convention on the Elimination of all forms of Discrimination Against Women – CEDAW), adottata il 18 dicembre 1979 dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, ratificata e resa esecutiva con legge 14 marzo 1985, n. 132.

Da tale quadro normativo emergerebbe la non conformità ai principi sopra richiamati della norma che impone l’attribuzione automatica ed esclusiva del solo cognome paterno. Essa sarebbe lesiva sia dei principi che garantiscono la tutela del diritto al nome, sia di quelli in tema di eguaglianza e di non discriminazione tra uomo e donna nella trasmissione del cognome al figlio, sia esso legittimo o naturale.

La difesa delle parti reclamanti evidenzia, in particolare, che sebbene la CEDU non contenga alcun riferimento espresso al diritto al nome del singolo individuo, la Corte di Strasburgo, in molteplici pronunce, ne ha ricondotto la tutela entro l’ambito applicativo del diritto al rispetto della vita privata, sancito dall’art. 8 della CEDU. In queste decisioni la Corte europea – pronunciandosi su casi analoghi a quello successivamente deciso dalla citata sentenza nel caso Cusan e Fazzo – ha accertato la violazione dell’art. 8 CEDU, in combinato disposto con l’art. 14, in ragione della disparità di trattamento fondata sul genere.

3.5.– Le parti private deducono, inoltre, che la pronuncia richiesta alla Corte non sarebbe tale da invadere la sfera di discrezionalità del legislatore, trattandosi, viceversa, di un intervento costituzionalmente imposto, limitato all’apposizione, alla norma impugnata, delle “rime obbligate”. La Corte potrebbe, infatti, limitarsi a dichiarare l’illegittimità costituzionale delle norme invocate, nella parte in cui non consentono ai genitori di scegliere, di comune accordo, il cognome da trasmettere ai figli.

D’altra parte, non sarebbe ravvisabile alcun vuoto normativo derivante dall’invocato intervento caducatorio. Al riguardo, sono richiamate le pronunce che affermano che, a fronte di «un vulnus costituzionale, non sanabile in via interpretativa − tanto più se attinente a diritti fondamentali − la Corte è tenuta comunque a porvi rimedio: e ciò, indipendentemente dal fatto che la lesione dipenda da quello che la norma prevede o, al contrario, da quanto la norma (o, meglio, la norma maggiormente pertinente alla fattispecie in discussione) omette di prevedere. […] Spetterà, infatti, da un lato, ai giudici comuni trarre dalla decisione i necessari corollari sul piano applicativo, avvalendosi degli strumenti ermeneutici a loro disposizione; e, dall’altro, al legislatore provvedere eventualmente a disciplinare, nel modo più sollecito e opportuno, gli aspetti che apparissero bisognevoli di apposita regolamentazione» (sentenza n. 113 del 2011; nello stesso senso, sentenze n. 78 del 1992 e n. 59 del 1958).

4.– L’Associazione Rete per la Parità ha depositato atto di intervento in cui ha chiesto l’accoglimento della questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Corte di appello di Genova.

In via preliminare, sono state illustrate le ragioni dell’ammissibilità dell’intervento, sebbene l’Associazione non rivesta la qualità di parte nel giudizio a quo.

Quanto al merito della questione, l’Associazione ha esposto e ribadito i medesimi argomenti svolti dalla difesa delle parti private a sostegno della rilevanza e della fondatezza della questione.

5.− L’ordinanza di rimessione è stata ritualmente notificata al Presidente del Consiglio dei ministri, il quale ha omesso di intervenire in giudizio.

Considerato in diritto

1.– Con ordinanza emessa il 28 novembre 2013, la Corte d’appello di Genova ha sollevato − in riferimento agli artt. 2, 3, 29, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione – questione di legittimità costituzionale della norma desumibile dagli artt. 237, 262 e 299 del codice civile, 72, primo comma, del regio decreto 9 luglio 1939, n. 1238 (Ordinamento dello stato civile) e 33 e 34 del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della L. 15 maggio 1997, n. 127), nella parte in cui prevede «l’automatica attribuzione del cognome paterno al figlio legittimo, in presenza di una diversa contraria volontà dei genitori».

È denunciata, in primo luogo, la violazione dell’art. 2 Cost., in quanto verrebbe compresso il diritto all’identità personale, il quale comporta il diritto del singolo individuo di vedersi riconoscere i segni di identificazione di entrambi i rami genitoriali.

Viene, inoltre, evidenziato il contrasto con gli artt. 3 e 29, secondo comma, Cost., poiché sarebbe leso il diritto di uguaglianza e pari dignità dei genitori nei confronti dei figli e dei coniugi tra di loro.

Viene, infine, ravvisata la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in riferimento all’art. 16, comma 1, lettera g), della Convenzione sulla eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna, alle raccomandazioni del Consiglio d’Europa 28 aprile 1995, n. 1271 e 18 marzo 1998, n. 1362, nonché alla risoluzione 27 settembre 1978, n. 37, relative alla piena realizzazione dell’uguaglianza dei genitori nell’attribuzione del cognome dei figli.

2.– Preliminarmente, va confermata l’ordinanza dibattimentale, allegata alla presente sentenza, con la quale è stato dichiarato inammissibile l’intervento dell’associazione Rete per la Parità.

3.– La questione sollevata in riferimento agli artt. 2, 3 e 29 Cost. è fondata.

3.1.– È denunciata l’illegittimità costituzionale della norma − desumibile dagli artt. 237, 262 e 299 cod. civ. e dagli artt. 33 e 34 del d.P.R. n. 396 del 2000 – che prevede l’automatica attribuzione del cognome paterno al figlio nato in costanza di matrimonio, in presenza di una diversa contraria volontà dei genitori.

Va rilevato, preliminarmente, che tra le disposizioni individuate dal rimettente compare, altresì, l’art. 72, primo comma, del r.d. n. 1238 del 1939, il quale, tuttavia, è stato abrogato dall’art. 110 del d.P.R. n. 396 del 2000. Dal tenore complessivo degli argomenti sviluppati nell’ordinanza di rinvio si evince, peraltro, che tale disposizione rientra nel fuoco delle censure del rimettente al solo fine di esplicitare la norma − da essa presupposta – che prevede l’automatica attribuzione del solo cognome paterno.

L’esistenza della norma censurata e la sua perdurante immanenza nel sistema, desumibili dalle disposizioni che implicitamente la presuppongono, è stata già riconosciuta dalla giurisprudenza costituzionale, nelle precedenti occasioni in cui ne è stata denunciata l’illegittimità (sentenze n. 61 del 2006 e n. 176 del 1988; ordinanze n. 145 del 2007 e n. 586 del 1988). In queste pronunce, la Corte ha riconosciuto l’esistenza di tale norma, in quanto presupposta dalle medesime disposizioni, regolatrici di fattispecie diverse, individuate dall’odierno rimettente (artt. 237, 262 e 299 cod. civ., nonché artt. 33 e 34 del d.P.R. n. 396 del 2000).

Sebbene essa non abbia trovato corpo in una disposizione espressa, ancora una volta, non vi è ragione di dubitare dell’attuale vigenza e forza imperativa della norma, in base alla quale il cognome del padre si estende ipso iure al figlio.

Nello stesso senso si è espressa anche la giurisprudenza di legittimità, sia precedente, sia successiva alle richiamate pronunce di questa Corte, laddove ha riconosciuto che – da tali pur eterogenee previsioni – si desume l’esistenza di una norma che, sebbene non prevista testualmente nell’ambito di alcuna disposizione, è ugualmente presente nel sistema e «certamente si configura come traduzione in regola dello Stato di un’usanza consolidata nel tempo» (Cass., sez. I, 17 luglio 2004, n. 13298; v. anche Cass., sez. I, 22 settembre 2008, n. 23934).

Nel caso in esame, la norma sull’automatica attribuzione del cognome paterno è oggetto di censura per la sola parte in cui non consente ai genitori – i quali ne facciano concorde richiesta al momento della nascita – di attribuire al figlio anche il cognome materno.

3.2.– Così ricostruito l’oggetto della presente questione, va rilevato che già in precedenti occasioni questa Corte ha esaminato la disciplina della prevalenza del cognome paterno, al momento della sua attribuzione al figlio, ma ha dichiarato inammissibili le relative questioni, ritenendole riservate alla discrezionalità del legislatore, nell’ambito di una rinnovata disciplina.

Tuttavia, già nell’ordinanza n. 176 del 1988, è stato espressamente riconosciuto che «sarebbe possibile, e probabilmente consentaneo all’evoluzione della coscienza sociale, sostituire la regola vigente in ordine alla determinazione del nome distintivo dei membri della famiglia costituita dal matrimonio con un criterio diverso, più rispettoso dell’autonomia dei coniugi, il quale concilii i due principi sanciti dall’art. 29 Cost., anziché avvalersi dell’autorizzazione a limitare l’uno in funzione dell’altro» (v. anche ordinanza n. 586 del 1988).

Diciotto anni dopo, con ancora maggiore fermezza, nella sentenza n. 61 del 2006, in considerazione dell’immutato quadro normativo, questa Corte ha espressamente rilevato l’incompatibilità della norma in esame con i valori costituzionali della uguaglianza morale e giuridica dei coniugi. Tale sistema di attribuzione del cognome, infatti, è definito come il «retaggio di una concezione patriarcale della famiglia, la quale affonda le proprie radici nel diritto di famiglia romanistico, e di una tramontata potestà maritale, non più coerente con i principi dell’ordinamento e con il valore costituzionale dell’uguaglianza tra uomo e donna».

3.3.– A distanza di molti anni da queste pronunce, un «criterio diverso, più rispettoso dell’autonomia dei coniugi», non è ancora stato introdotto.

Neppure il decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154 (Revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione, a norma dell’articolo 2 della legge 10 dicembre 2012, n. 219), con cui il legislatore ha posto le basi per la completa equiparazione della disciplina dello status di figlio legittimo, figlio naturale e figlio adottato, riconoscendo l’unicità dello status di figlio, ha scalfito la norma oggi censurata.

Pur essendo stata modificata la disciplina del cambiamento di cognome – con l’abrogazione degli artt. 84, 85, 86, 87 e 88 del d.P.R. n. 396 del 2000 e l’introduzione del nuovo testo dell’art. 89, ad opera del d.P.R. 13 marzo 2012, n. 54 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’art. 2, comma 12, della L. 15 maggio 1997, n. 127) – le modifiche non hanno attinto la disciplina dell’attribuzione “originaria” del cognome, effettuata al momento della nascita.

Va, d’altro canto, rilevata un’intensa attività preparatoria di interventi legislativi volti a disciplinare secondo nuovi criteri la materia dell’attribuzione del cognome ai figli. Allo stato, tuttavia, essi risultano ancora in itinere.

Nella famiglia fondata sul matrimonio rimane così tuttora preclusa la possibilità per la madre di attribuire al figlio, sin dalla nascita, il proprio cognome, nonché la possibilità per il figlio di essere identificato, sin dalla nascita, anche con il cognome della madre.

3.4.– La Corte ritiene che siffatta preclusione pregiudichi il diritto all’identità personale del minore e, al contempo, costituisca un’irragionevole disparità di trattamento tra i coniugi, che non trova alcuna giustificazione nella finalità di salvaguardia dell’unità familiare.

3.4.1.– Quanto al primo profilo di illegittimità, va rilevato che la distonia di tale norma rispetto alla garanzia della piena realizzazione del diritto all’identità personale, avente copertura costituzionale assoluta, ai sensi dell’art. 2 Cost., risulta avvalorata nell’attuale quadro ordinamentale.

Il valore dell’identità della persona, nella pienezza e complessità delle sue espressioni, e la consapevolezza della valenza, pubblicistica e privatistica, del diritto al nome, quale punto di emersione dell’appartenenza del singolo ad un gruppo familiare, portano ad individuare nei criteri di attribuzione del cognome del minore profili determinanti della sua identità personale, che si proietta nella sua personalità sociale, ai sensi dell’art. 2 Cost.

È proprio in tale prospettiva che questa Corte aveva, da tempo, riconosciuto il diritto al mantenimento dell’originario cognome del figlio, anche in caso di modificazioni del suo status derivanti da successivo riconoscimento o da adozione. Tale originario cognome si qualifica, infatti, come autonomo segno distintivo della sua identità personale (sentenza n. 297 del 1996), nonché «tratto essenziale della sua personalità» (sentenza n. 268 del 2002; nello stesso senso, sentenza n. 120 del 2001).

Il processo di valorizzazione del diritto all’identità personale è culminato nella recente affermazione, da parte di questa Corte, del diritto del figlio a conoscere le proprie origini e ad accedere alla propria storia parentale, quale «elemento significativo nel sistema costituzionale di tutela della persona» (sentenza n. 278 del 2013).

In questa stessa cornice si inserisce anche la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, che ha ricondotto il diritto al nome nell’ambito della tutela offerta dall’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950 e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848.

In particolare, nella sentenza Cusan Fazzo contro Italia, del 7 gennaio 2014, successiva all’ordinanza di rimessione in esame, la Corte di Strasburgo ha affermato che l’impossibilità per i genitori di attribuire al figlio, alla nascita, il cognome della madre, anziché quello del padre, integra violazione dell’art. 14 (divieto di discriminazione), in combinato disposto con l’art. 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare) della CEDU, e deriva da una lacuna del sistema giuridico italiano, per superare la quale «dovrebbero essere adottate riforme nella legislazione e/o nelle prassi italiane». La Corte EDU ha, altresì, ritenuto che tale impossibilità non sia compensata dalla successiva autorizzazione amministrativa a cambiare il cognome dei figli minorenni aggiungendo a quello paterno il cognome della madre.

La piena ed effettiva realizzazione del diritto all’identità personale, che nel nome trova il suo primo ed immediato riscontro, unitamente al riconoscimento del paritario rilievo di entrambe le figure genitoriali nel processo di costruzione di tale identità personale, impone l’affermazione del diritto del figlio ad essere identificato, sin dalla nascita, attraverso l’attribuzione del cognome di entrambi i genitori.

Viceversa, la previsione dell’inderogabile prevalenza del cognome paterno sacrifica il diritto all’identità del minore, negandogli la possibilità di essere identificato, sin dalla nascita, anche con il cognome materno.

3.4.2.– Quanto al concorrente profilo di illegittimità, che risiede nella violazione del principio di uguaglianza dei coniugi, va rilevato che il criterio della prevalenza del cognome paterno, e la conseguente disparità di trattamento dei coniugi, non trovano alcuna giustificazione né nell’art. 3 Cost., né nella finalità di salvaguardia dell’unità familiare, di cui all’art. 29, secondo comma, Cost.

Come già osservato da questa Corte sin da epoca risalente, «è proprio l’eguaglianza che garantisce quella unità e, viceversa, è la diseguaglianza a metterla in pericolo», poiché l’unità «si rafforza nella misura in cui i reciproci rapporti fra i coniugi sono governati dalla solidarietà e dalla parità» (sentenza n. 133 del 1970).

La perdurante violazione del principio di uguaglianza “morale e giuridica” dei coniugi, realizzata attraverso la mortificazione del diritto della madre a che il figlio acquisti anche il suo cognome, contraddice, ora come allora, quella finalità di garanzia dell’unità familiare, individuata quale ratio giustificatrice, in generale, di eventuali deroghe alla parità dei coniugi, ed in particolare, della norma sulla prevalenza del cognome paterno.

Tale diversità di trattamento dei coniugi nell’attribuzione del cognome ai figli, in quanto espressione di una superata concezione patriarcale della famiglia e dei rapporti fra coniugi, non è compatibile né con il principio di uguaglianza, né con il principio della loro pari dignità morale e giuridica.

4.– Con la presente decisione, questa Corte è, peraltro, chiamata a risolvere la questione formulata dal rimettente e riferita alla norma sull’attribuzione del cognome paterno nella sola parte in cui, anche in presenza di una diversa e comune volontà dei coniugi, i figli acquistano automaticamente il cognome del padre. L’accertamento della illegittimità è, pertanto, limitato alla sola parte di essa in cui non consente ai coniugi, di comune accordo, di trasmettere ai figli, al momento della nascita, anche il cognome materno.

4.1– Rimane assorbita la censura relativa all’art. 117, primo comma, Cost.

5.– Ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), la dichiarazione di illegittimità costituzionale va estesa, in via consequenziale, alla disposizione dell’art. 262, primo comma, cod. civ., la quale contiene tuttora – con riferimento alla fattispecie del riconoscimento del figlio naturale effettuato contemporaneamente da entrambi i genitori – una norma identica a quella dichiarata in contrasto con la Costituzione dalla presente sentenza.

Anche tale disposizione va, pertanto, dichiarata illegittima, nella parte in cui non consente ai genitori, di comune accordo, di trasmettere al figlio, al momento della nascita, anche il cognome materno.

5.1.– Per le medesime ragioni, la dichiarazione di illegittimità costituzionale, ai sensi dell’art. 27 della legge n. 87 del 1953, va estesa, infine, all’art. 299, terzo comma, cod. civ., per la parte in cui non consente ai coniugi, in caso di adozione compiuta da entrambi, di attribuire, di comune accordo, anche il cognome materno al momento dell’adozione.

6.– Va, infine, rilevato che, in assenza dell’accordo dei genitori, residua la generale previsione dell’attribuzione del cognome paterno, in attesa di un indifferibile intervento legislativo, destinato a disciplinare organicamente la materia, secondo criteri finalmente consoni al principio di parità.

per questi motivi

La Corte Costituzionale

1) dichiara l’illegittimità costituzionale della norma desumibile dagli artt. 237, 262 e 299 del codice civile; 72, primo comma, del regio decreto 9 luglio 1939, n. 1238 (Ordinamento dello stato civile); e 33 e 34 del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della L. 15 maggio 1997, n. 127), nella parte in cui non consente ai coniugi, di comune accordo, di trasmettere ai figli, al momento della nascita, anche il cognome materno;

2) dichiara in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l’illegittimità costituzionale dell’art. 262, primo comma, cod. civ., nella parte in cui non consente ai genitori, di comune accordo, di trasmettere al figlio, al momento della nascita, anche il cognome materno;

3) dichiara in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge n. 87 del 1953, l’illegittimità costituzionale dell’art. 299, terzo comma, cod. civ., nella parte in cui non consente ai coniugi, in caso di adozione compiuta da entrambi, di attribuire, di comune accordo, anche il cognome materno al momento dell’adozione.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l’8 novembre 2016.

Allegato:

ordinanza letta all’udienza dell’8 novembre 2016

Ordinanza

Rilevato che, nel giudizio promosso dalla Corte di appello di Genova con ordinanza del 28 novembre 2013 (reg. ord. n. 31 del 2014), il 7 aprile 2014 ha depositato atto di intervento l’associazione Rete per la Parità, in persona del proprio legale rappresentante pro tempore.

Considerato che l’Associazione Rete per la Parità non riveste la qualità di parte del giudizio principale;

che la costante giurisprudenza di questa Corte (tra le tante, le ordinanze allegate alla sentenza n. 134 del 2013 e all’ordinanza n. 318 del 2013) è nel senso che la partecipazione al giudizio incidentale di legittimità costituzionale è circoscritta, di norma, alle parti del giudizio a quo, oltre che al Presidente del Consiglio dei ministri e, nel caso di legge regionale, al Presidente della Giunta regionale (artt. 3 e 4 delle norme integrative per i giudizi dinanzi alla Corte costituzionale);

che a tale disciplina è possibile derogare – senza venire in contrasto con il carattere incidentale del giudizio di costituzionalità – soltanto a favore di soggetti terzi che siano titolari di un interesse qualificato, immediatamente inerente al rapporto sostanziale dedotto in giudizio e non semplicemente regolato, al pari di ogni altro, dalla norma o dalle norme oggetto di censura (ex plurimis, sentenze n. 76 del 2016; n. 221 del 2015 e relativa ordinanza letta all’udienza del 20 ottobre 2015; n. 162 del 2014 e relativa ordinanza letta all’udienza dell’8 aprile 2014; n. 293 e n. 118 del 2011; n. 138 del 2010 e relativa ordinanza letta all’udienza del 23 marzo 2010; ordinanze n. 240 del 2014; n. 156 del 2013; n. 150 del 2012 e relativa ordinanza letta all’udienza del 22 maggio 2012);

che, pertanto, sulla posizione soggettiva della parte interveniente l’eventuale declaratoria di illegittimità della legge deve produrre lo stesso effetto che produce sul rapporto oggetto del giudizio a quo;

che il presente giudizio – che ha ad oggetto la norma desumibile dagli artt. 237, 262 e 299 del codice civile, 72, primo comma, del regio decreto 9 luglio 1939, n. 1238 (Ordinamento dello stato civile) e 33 e 34 del decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della L. 15 maggio 1997, n. 127), nella parte in cui prevede «l’automatica attribuzione del cognome paterno al figlio legittimo, in presenza di una diversa contraria volontà dei genitori» – non sarebbe destinato a produrre, nei confronti dell’Associazione interveniente, effetti immediati, neppure indiretti;

che, pertanto, essa non riveste la posizione di terzo legittimato a partecipare al giudizio dinanzi a questa Corte.

per questi motivi

La Corte Costituzionale

dichiara inammissibile l’intervento dell’Associazione Rete per la Parità.