Sentenza della Corte costituzionale 7 marzo 2017, n. 123

Pubblicato in:

G.U. 31 maggio 2017, n. 22

Non è fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 106 d.lgs. n. 104/2010 (Attuazione dell’art. 44 della l. n. 69/2009, recante delega al governo per il riordino del processo amministrativo) e degli artt. 395 e 396 c.p.c., sollevata dal Consiglio di Stato in riferimento, tra gli altri, all’art. 117, co. 1, Cost. in relazione all’art. 46 della CEDU (sulla forza vincolante e l’esecuzione delle sentenze). Oggetto della questione era la possibilità di revocare una sentenza amministrativa sulla base dell’asserito contrasto con una successiva pronuncia della Corte europea dei diritti umani. Secondo la C. cost., nelle materie diverse da quella penale non sussiste un obbligo generale di adottare la misura ripristinatoria del processo e spetta agli Stati parti il compito di scegliere come conformarsi alle pronunce della Corte europea, nel rispetto dei principi della res iudicata e della certezza del diritto. A tale conclusione, la Corte è giunta sulla base dell’esame della giurisprudenza della Corte europea, ricostruita anche alla luce della Raccomandazione R (2000)2 del 19 gennaio 2000 del Consiglio dei Ministri del Consiglio d’Europa, ritenuta, pur se non vincolante, particolarmente importante per la ricostruzione della giurisprudenza sull’applicazione della CEDU, anche in base alla regola generale di interpretazione dei trattati (art. 31, par. 3, della Convenzione di Vienna del 1969 sul diritto dei trattati).

Sentenza

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 106 del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 (Attuazione dell’articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al governo per il riordino del processo amministrativo), e degli artt. 395 e 396 del codice di procedura civile, promosso dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, nel procedimento vertente tra S. S. ed altri e l’Università degli studi di Napoli Federico II ed altri, con ordinanza del 4 marzo 2015, iscritta al n. 190 del registro ordinanze 2015 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 39, prima serie speciale, dell’anno 2015.

Visti gli atti di costituzione di F. F. ed altri, di T. C. ed altri, dell’Università degli Studi di Napoli Federico II e dell’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS);

udito nell’udienza pubblica del 7 marzo 2017 il Giudice relatore Giancarlo Coraggio;

uditi gli avvocati Riccardo Marone e Raffaella Veniero per F. F. ed altri, Riccardo Marone Giuseppe Maria Perullo per T. C. ed altri, Angelo Abignente per l’Università degli Studi di Napoli Federico II e Dario Marinuzzi per l’INPS.

Ritenuto in fatto

1.− L’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato ha sollevato, in riferimento agli artt. 24, 111 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione al parametro interposto dell’art. 46, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, questione di legittimità costituzionale dell’art. 106 del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 (Attuazione dell’articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al governo per il riordino del processo amministrativo), e degli artt. 395 e 396 del codice di procedura civile, «nella parte in cui non prevedono un diverso caso di revocazione della sentenza quando ciò sia necessario, ai sensi dell’art. 46, par. 1, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell’uomo».

1.1.− Il rimettente espone in punto di fatto che:

− i ricorrenti avevano svolto dal 1983 al 1997 funzioni assistenziali presso il Policlinico dell’Università degli studi di Napoli Federico II (d’ora in avanti: l’Università o l’Università di Napoli), sulla base di contratti a termine aventi ad oggetto l’esplicazione di attività professionale medica remunerata a gettone;

− con ricorsi proposti nel 2004 innanzi al TAR Campania essi avevano chiesto il riconoscimento dell’esistenza di un rapporto di lavoro di fatto alle dipendenze dell’Università, con conseguente riconoscimento del diritto al versamento dei relativi contributi previdenziali;

− il TAR adito aveva accolto in parte i ricorsi, riconoscendo che l’attività espletata dai ricorrenti era assimilabile a quella dei ricercatori universitari, «non ponendosi quindi problemi in ordine alla sussistenza della giurisdizione amministrativa»;

− diversamente, l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, pronunciandosi in sede di appello con la sentenza n. 4 del 2007, aveva ritenuto applicabile alla controversia l’art. 45, comma 17, del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80 (Nuove disposizioni in materia di organizzazione e di rapporti di lavoro nelle amministrazioni pubbliche, di giurisdizione nelle controversie di lavoro e di giurisdizione amministrativa, emanate in attuazione dell’articolo 11, comma 4, della L. 15 marzo 1997, n. 59), poi confluito nell’attuale art. 69, comma 7, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), il quale dispone, per le liti relative al pubblico impiego “privatizzato”, che «[l]e controversie relative a questioni attinenti al periodo del rapporto anteriore a tale data [30 giugno 1998] restano attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo solo qualora siano state proposte, a pena di decadenza, entro il 15 settembre 2000»;

− in principio si era ritenuto che la disposizione in parola prevedesse per i ricorsi proposti successivamente a tale data la giurisdizione del giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro; era successivamente prevalso, nella giurisprudenza tanto della Corte di cassazione quanto del Consiglio di Stato, il diverso orientamento che «ricollegava alla scadenza di tale termine la radicale perdita del diritto a far valere, in ogni sede, ogni tipo di contenzioso»; anche la Corte costituzionale aveva avallato tale interpretazione, ritenuta coerente con le esigenze organizzative connesse al trapasso da una giurisdizione all’altra;

− uniformandosi a tale giurisprudenza più recente, l’Adunanza plenaria aveva dichiarato l’inammissibilità per tardività dei ricorsi proposti in primo grado dopo il 15 settembre 2000;

− alcuni dei ricorrenti soccombenti nel giudizio di appello avevano quindi presentato ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo che, con le sentenze Mottola contro Italia e Staibano contro Italia del 4 febbraio 2014 (d’ora in avanti: sentenze Mottola e Staibano), aveva accertato una duplice violazione degli obblighi convenzionali da parte dello Stato italiano;

− in particolare, la Corte di Strasburgo aveva accertato la violazione dell’art. 6, paragrafo 1, della CEDU, relativamente al diritto di accesso a un tribunale, poiché, anche se tale diritto non è assoluto, potendo in astratto essere condizionato, nel caso di specie era risultato ingiustamente leso nella sua sostanza; nonché dell’art. 1 del primo Protocollo addizionale alla Convenzione stessa: i ricorrenti erano titolari di un «bene» ai sensi del citato parametro convenzionale, poiché il loro diritto di credito pensionistico aveva una base sufficiente nel diritto interno alla luce della giurisprudenza all’epoca consolidata, e la decisione del Consiglio di Stato aveva svuotato la loro legittima aspettativa al conseguimento di tale bene;

− relativamente, invece, alla domanda di equa soddisfazione formulata ai sensi dell’art. 41 della Convenzione, la Corte EDU si era riservata la decisione «tenuto conto della possibilità che il Governo e i ricorrenti addivengano ad un accordo»;

− alla luce di tali sentenze, i soccombenti nel giudizio di appello definitosi con la citata sentenza n. 4 del 2007 dell’Adunanza plenaria (alcuni dei quali ricorrenti a Strasburgo) hanno iniziato il giudizio a quo per la sua revocazione, chiedendo al Consiglio di Stato di procedere a una interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 106 del d.lgs. n. 104 del 2010 (d’ora in avanti: cod. proc. amm.) e degli artt. 395 e 396 cod. proc. civ., ovvero, in subordine, di sollevare questione di legittimità costituzionale di tali articoli, per violazione degli artt. 111 e 117, primo comma, Cost.;

− «nel merito», i ricorrenti hanno chiesto al giudice adito, in conformità alle pronunce della Corte EDU, di applicare l’art. 69, comma 7, del d.lgs. n. 165 del 2001, «nella sola interpretazione resa possibile dalla sentenza della Corte europea, e cioè nel senso della perdurante giurisdizione amministrativa, delle controversie riguardanti vicende del pubblico impiego, precedenti la traslazione della giurisdizione»; e conseguentemente, accertata la natura di fatto del loro rapporto d’impiego, di confermare la sentenza del TAR Campania che aveva condannato l’amministrazione resistente al pagamento della contribuzione previdenziale e dell’indennità di fine rapporto;

− nel giudizio a quo si è costituito l’Istituto nazionale per la previdenza sociale (INPS), eccependo l’inammissibilità del ricorso, non vertendosi in alcuno dei casi di revocazione previsti dalla legge; che il giudicato interno non può essere travolto da una sentenza della Corte EDU; e che la Corte costituzionale si era già pronunciata nel senso della non illegittimità dell’art. 69, comma 7, citato;

− si è del pari costituita l’Università di Napoli, eccependo la inammissibilità del ricorso per insussistenza dei presupposti normativi per la revocazione; l’irrilevanza della questione di costituzionalità poiché la riapertura del processo non consentirebbe all’Adunanza plenaria di entrare nel merito della domanda dei ricorrenti, ostandovi l’art. 69, comma 7, del d.lgs. n. 165 del 2001; l’assenza di un obbligo di riaprire il processo alla luce delle sentenze della Corte di Strasburgo; la inutilità di sollevare una questione di legittimità costituzionale, essendosi la Corte costituzionale già pronunciata sul citato art. 69, comma 7.

1.2.− Tanto premesso, l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, in punto di «ammissibilità» del ricorso per revocazione, ritiene non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 106 cod. proc. amm. e degli artt. 395 e 396 cod. proc. civ.

Rammenta in primo luogo il rimettente che, alla stregua della consolidata giurisprudenza della Corte costituzionale, il giudice comune non può disapplicare la norma interna che ritenga incompatibile con la CEDU, a differenza di quanto accade per il diritto dell’Unione, dovendo, invece, laddove ravvisi un contrasto tra la prima e la seconda non risolvibile con lo strumento dell’interpretazione convenzionalmente conforme, sollevare questione di legittimità costituzionale per violazione dell’art. 117, primo comma, Cost.

Nel caso in esame vi sarebbe «una tensione tra le norme interne che disciplinano la revocazione della sentenza amministrativa passata in giudicato e l’obbligo assunto dall’Italia di conformarsi alle decisioni della Corte di Strasburgo (art. 46 CEDU)».

Allorquando, infatti, i giudici europei abbiano accertato con sentenza definitiva una violazione dei diritti riconosciuti dalla Convenzione, sorgerebbe per lo Stato l’obbligo di adottare le misure necessarie per garantire la restitutio in integrum, ossia per porre il ricorrente in una situazione analoga a quella in cui si troverebbe qualora la violazione non vi fosse stata.

L’obbligo di conformarsi alla sentenza della Corte di Strasburgo sussisterebbe anche ove la violazione commessa dallo Stato sorga proprio a causa della sentenza passata in giudicato.

Sul punto, la Corte EDU e gli organi del Consiglio d’Europa − prosegue il Consiglio di Stato − hanno progressivamente individuato la riapertura del processo quale soluzione maggiormente idonea a garantire la restitutio in integrum in favore delle vittime delle violazioni non altrimenti rimediabili: in questi casi, infatti, la rimozione del giudicato formatosi sarebbe indispensabile per rimuovere la violazione dei diritti commessa dallo Stato-giudice nel corso del processo.

Tale obbligo di riapertura dei processi iniqui sarebbe stato affermato con maggior forza con riferimento ai processi penali, dove i valori in gioco, in primis quello della libertà personale, renderebbero «del tutto intollerabile il perdurare di violazioni di diritti fondamentali». Ciò avrebbe portato molti Stati aderenti alla Convenzione a prevedere la possibilità di riapertura dei processi in via legislativa o giurisprudenziale.

Osserva il rimettente che in Italia tanto è avvenuto con riferimento ai processi penali grazie all’intervento della Corte costituzionale, che, con la sentenza n. 113 del 2011, ha introdotto un nuovo caso di revisione, qualora ciò si renda necessario per conformarsi a una sentenza definitiva della Corte EDU.

Secondo l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, un contrasto tra le norme processuali interne e l’obbligo gravante sullo Stato di conformarsi alle sentenze della Corte di Strasburgo può sussistere anche «nel caso di specie in cui è in discussione l’ammissibilità del ricorso per la revocazione di una sentenza del giudice amministrativo».

Non a caso – prosegue il rimettente − la Raccomandazione R(2000)2 sulla riapertura dei processi, adottata dal Comitato dei ministri il 19 gennaio 2000, pur dedicando particolare attenzione a quelli penali, non esclude quelli civili e amministrativi. Gli Stati sono incoraggiati alla riapertura ove ricorrano due condizioni: a) la parte lesa continui a soffrire serie conseguenze negative a causa della sentenza nazionale che non possano essere adeguatamente rimediate attraverso l’equa soddisfazione prevista dall’art. 41 della CEDU; b) la Corte EDU «abbia riconosciuto la sentenza domestica quale fonte di una violazione degli obblighi convenzionali per ragioni sostanziali o procedurali».

Osserva ancora il rimettente che nel caso di specie la Corte di Strasburgo ha accertato che la sentenza dell’Adunanza plenaria n. 4 del 2007 ha violato tanto il diritto di accesso a un tribunale quanto il diritto di proprietà: qualora non fosse ammissibile la revocazione, «l’ordinamento italiano non fornirebbe ai ricorrenti alcuna possibilità per vedere rimediata la violazione dei diritti fondamentali dagli stessi subita».

Essi, infatti, si vedrebbero definitivamente negato il «diritto di azionabilità delle proprie posizioni soggettive che all’epoca tentarono di fare valere davanti al giudice amministrativo», e, in particolare, la possibilità «di fare valere i diritti pensionistici che assumono essere loro spettanti».

Osserva il Consiglio di Stato, poi, che, sebbene la Corte costituzionale abbia in più occasioni dichiarato non fondate le questioni di costituzionalità dell’art. 69, comma 7, del d.lgs. n. 165 del 2001, esse non sarebbero mai state sollevate con riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione ai parametri interposti di natura convenzionale.

Anche davanti al giudice amministrativo verrebbe in rilievo la tutela di diritti fondamentali che potrebbero essere violati e generare responsabilità convenzionale dello Stato: qualora la Corte EDU accerti tale violazione, potrebbero darsi casi in cui la rimozione del giudicato si appalesi quale unico mezzo utile per rimuovere le perduranti violazioni di diritti fondamentali, analogamente a quanto riconosciuto con riferimento al processo penale.

Non a caso molti Stati aderenti alla Convenzione avrebbero previsto la possibilità di riaprire anche i processi civili e amministrativi.

Alla luce di questi rilievi, ritiene il rimettente che le norme processuali nazionali che disciplinano i casi di revocazione delle sentenze del giudice amministrativo «si pongano in tensione» con l’art. 117, primo comma, Cost., in riferimento al parametro interposto dell’art. 46, paragrafo 1, della CEDU, «non contemplando tra i casi di revocazione quella che si renda necessaria per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell’uomo».

Secondo il rimettente, l’assenza di un apposito rimedio volto a riaprire il processo giudicato iniquo dalla Corte EDU si porrebbe in contrasto anche con i princìpi sanciti dagli artt. 24 e 111 Cost., dal momento che «le garanzie di azionabilità delle posizioni soggettive e di equo processo previste dalla nostra Costituzione non sono inferiori a quelle espresse dalla CEDU».

Aggiunge il Consiglio di Stato di non potere disapplicare le norme processuali interne incompatibili con la Convenzione e di non poterne dare una interpretazione adeguatrice, in ragione della tassatività dei casi di revocazione previsti.

1.3.− Infine, il rimettente afferma che la questione è rilevante nel giudizio a quo, in quanto dalla sua soluzione dipende l’ammissibilità del ricorso per revocazione proposto.

La rilevanza non verrebbe meno alla luce del fatto che la Corte costituzionale ha già avuto modo di dichiarare in più occasioni la non fondatezza delle questioni di costituzionalità sollevate nei confronti dell’art. 69, comma 7, del d.lgs. n. 165 del 2001, poiché «la questione attinente all’interpretazione e alla legittimità costituzionale di detta norma riguarda una eventuale fase successiva dell’iter logico di decisione […]. Una volta che verrà eventualmente ritenuto ammissibile il ricorso per revocazione proposto nella fase rescindente, si dovranno valutare, nella fase rescissoria, se, nel merito, vi siano i presupposti per la revocazione della sentenza n. 4/2007 di questa Adunanza plenaria».

2.− Con memoria depositata nella cancelleria di questa Corte il 16 luglio 2015, si sono costituiti T. C., M.E. V., D. P., A. F., F. M., S. S., S. L., P. N., M. L.P., D. M., C. A., D. M., A. L. e F. T., tutti ricorrenti nel giudizio a quo, chiedendo l’accoglimento della questione di costituzionalità sollevata e riservandosi di meglio illustrare in prosieguo le proprie difese.

3.− Con memoria depositata nella cancelleria di questa Corte il 16 luglio 2015, si sono costituiti F. F., P. A., A. D.R., M.A. L., M. M. e M. M., anch’essi ricorrenti nel giudizio a quo, chiedendo l’accoglimento della questione di costituzionalità sollevata e anch’essi riservandosi di meglio illustrare in prosieguo le proprie difese.

4.− Con memoria depositata nella cancelleria di questa Corte il 13 ottobre 2015, si è costituito l’INPS, eccependo, in primo luogo, l’inammissibilità della questione per difetto di rilevanza, poiché il bene della vita anelato dai ricorrenti (il diritto alle prestazioni previdenziali) sarebbe strettamente legato alla «valutazione della legittimità costituzionale della norma decadenziale».

In altri termini, la questione di costituzionalità dell’art. 69, comma 7, del d.lgs. 165 del 2001 non riguarderebbe una fase successiva dell’iter logico-giuridico che il giudice a quo deve seguire, ma atterrebbe «in modo diretto e immediato alla valutazione della rilevanza della attuale questione di costituzionalità».

Poiché la Corte costituzionale avrebbe più volte escluso la illegittimità della disposizione citata, non vi sarebbero gli estremi per giungere alla revocazione della sentenza n. 4 del 2007 dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, dal che l’irrilevanza della questione sollevata.

Nel merito essa sarebbe infondata, poiché le sentenze Mottola e Staibano non affermerebbero in alcun modo l’obbligo di revocazione della sentenza del Consiglio di Stato, ed anzi presupporrebbero il contrario, laddove prendono in esame la richiesta di equa soddisfazione avanzata dalle parti, riservandosi di decidere all’esito di un eventuale accordo tra le stesse: il risarcimento in forma specifica e la restitutio in integrum determinerebbero, laddove cumulati, un ingiustificato arricchimento dei ricorrenti.

Osserva ancora l’INPS che il giudizio davanti alla Corte EDU si è svolto tra i ricorrenti e lo Stato italiano, sicché l’eventuale revocazione della sentenza passata in giudicato sarebbe obbligata in forza di una decisione intervenuta all’esito di un processo al quale l’istituto non ha partecipato, con palese violazione del suo diritto costituzionale alla difesa.

Infine, il travolgimento del giudicato nel caso a quo significherebbe disattendere la consolidata giurisprudenza della Corte costituzionale sulla non illegittimità del termine decadenziale previsto dall’art. 69, comma 7, del d.lgs. n. 165 del 2001 e prima ancora dall’art. 45, comma 17, del d.lgs. n. 80 del 1998.

5.− Con memoria depositata nella cancelleria di questa Corte il 13 ottobre 2015, si è costituita l’Università di Napoli, eccependo l’inammissibilità del ricorso per difetto di rilevanza, perché con la riapertura del processo i ricorrenti potrebbero ottenere solo un diritto al versamento dei contributi previdenziali che però sarebbe ormai prescritto ai sensi dell’art. 3 della legge 8 agosto 1995, n. 335 (Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare).

Nel merito, l’Università ritiene che i ricorrenti abbiano avuto ampie possibilità di accedere alla giustizia, come sarebbe dimostrato dal fatto che molti soggetti versanti nella medesima situazione giuridica avevano ottenuto piena soddisfazione giudiziaria delle loro richieste.

Spetterebbe in ogni caso alla Corte costituzionale valutare se la richiesta declaratoria di incostituzionalità delle norme censurate dal rimettente «incontri dei controlimiti invalicabili innanzitutto nei principi costituzionali posti a fondamento dell’ordinamento processuale civile nonché nel principio del buon andamento dell’amministrazione di cui all’art. 97 Cost.».

Verrebbe in rilievo, in primo luogo, «il delicato e ineludibile bilanciamento tra le esigenze sottese all’apertura della revocazione ad ipotesi nuove […] e il valore costituzionale della stabilità del giudicato desumibile dal combinato disposto degli artt. 24 e 111 Cost.».

La Corte costituzionale avrebbe in più occasioni ricordato che la certezza delle situazioni giuridiche connessa al giudicato è un valore costituzionalmente protetto che giustifica la delimitazione delle ipotesi di revocazione straordinaria; e che il giudicato è uno dei principali strumenti per la realizzazione della tutela giurisdizionale dei diritti e la sua intangibilità un principio fondamentale del nostro ordinamento.

Quanto all’art. 46 della CEDU, l’Università di Napoli ritiene che esso non imponga l’obbligo di riapertura del processo, come sarebbe dimostrato dall’esistenza del rimedio dell’equa soddisfazione. Andrebbe valutato, poi, nel caso di specie, se il precetto delle sentenze Mottola e Staibano possa essere osservato solo mediante l’eliminazione del giudicato.

Ancora, l’intangibilità del giudicato troverebbe un ancoraggio nel principio di buon andamento della pubblica amministrazione consacrato nell’art. 97 Cost., poiché la revisione per contrasto con la sentenza della Corte EDU incoraggerebbe la riapertura di innumerevoli giudizi, comportando un forte aggravio dell’ingolfamento del sistema giudiziario italiano.

Infine, non sarebbe pertinente il richiamo alla sentenza della Corte costituzionale n. 113 del 2011, attese le innegabili ed intrinseche differenze tra il diritto penale e quello civile, quanto a norme procedurali e, soprattutto, a interessi sottesi e tipologia di diritti tutelati: basterebbe considerare che l’art. 30, quarto comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), in tema di efficacia retroattiva delle pronunce di illegittimità costituzionale consente il travolgimento del solo giudicato penale.

Attribuire alla sentenza della Corte EDU una «forza revocatoria del giudicato» civile e amministrativo, significherebbe attribuire alla pronuncia della Corte europea uno status superiore a quello riconosciuto nel nostro ordinamento alle sentenze della Corte costituzionale.

6.− Con memorie rispettivamente depositate il 13 e il 14 febbraio 2017 l’Università di Napoli e l’INPS hanno ribadito le ragioni di inammissibilità e non fondatezza delle questioni già illustrate nelle rispettive memorie di costituzione.

Considerato in diritto

1.− L’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato dubita, in riferimento agli artt. 24, 111 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione al parametro interposto dell’art. 46, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, della legittimità costituzionale dell’art. 106 del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 (Attuazione dell’articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al governo per il riordino del processo amministrativo), e degli artt. 395 e 396 del codice di procedura civile, «nella parte in cui non prevedono un diverso caso di revocazione della sentenza quando ciò sia necessario, ai sensi dell’art. 46, par. 1, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell’uomo».

2.− Il rimettente è stato adito per la revocazione della sentenza n. 4 del 2007, con cui l’Adunanza plenaria aveva dichiarato inammissibili alcuni ricorsi proposti da medici cosiddetti a gettone e volti alla condanna dell’Università di Napoli Federico II al versamento di contributi previdenziali, ritenendo intervenuta la decadenza dall’azione prevista prima dall’art. 45, comma 17, del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80 (Nuove disposizioni in materia di organizzazione e di rapporti di lavoro nelle amministrazioni pubbliche, di giurisdizione nelle controversie di lavoro e di giurisdizione amministrativa, emanate in attuazione dell’articolo 11, comma 4, della L. 15 marzo 1997, n. 59), e poi dall’art. 69, comma 7, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), il quale dispone, per le liti relative al pubblico impiego “privatizzato”, che «[l]e controversie relative a questioni attinenti al periodo del rapporto anteriore a tale data [30 giugno 1998] restano attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo solo qualora siano state proposte, a pena di decadenza, entro il 15 settembre 2000».

Riferisce l’Adunanza plenaria che la domanda di revocazione costituisce il seguito delle pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo, Mottola contro Italia e Staibano contro Italia, del 4 febbraio 2014 (d’ora in avanti: sentenze Mottola e Staibano), le quali hanno accertato che lo Stato italiano, con la sentenza n. 4 del 2007 del Consiglio di Stato, ha violato il diritto dei ricorrenti di accesso a un tribunale, garantito dall’art. 6 della CEDU, nonché il diritto al rispetto dei propri beni, garantito dall’art. 1 del primo Protocollo addizionale alla CEDU.

Ritiene il rimettente che, qualora l’ordinamento non apprestasse lo strumento della revocazione delle sentenze amministrative passate in giudicato per porre rimedio a qualsivoglia violazione accertata dalla Corte EDU, ne risulterebbe violato l’art. 117, primo comma, Cost., con riferimento all’art. 46, paragrafo 1, della CEDU, che impegna gli Stati contraenti «a conformarsi alle sentenze definitive della Corte [europea dei diritti dell’uomo] sulle controversie nelle quali sono parti».

La mancata previsione di un caso specifico di revocazione – ad avviso del rimettente – comporterebbe anche una violazione degli artt. 24 e 111 Cost., perché «le garanzie di azionabilità delle posizioni soggettive e di equo processo previste dalla nostra Costituzione non sono inferiori a quelle espresse dalla CEDU».

3.− Passando all’esame delle censure, la seconda è inammissibile per difetto di motivazione sulla non manifesta infondatezza (tra le tante, sentenze n. 276 e n. 133 del 2016; ordinanze n. 93 del 2016, n. 261, n. 181 e n. 174 del 2012, n. 236 e n. 126 del 2011).

Il rimettente, infatti, non spiega le ragioni dell’asserito contrasto delle norme censurate con gli evocati artt. 24 e 111 Cost., limitandosi ad affermare in termini generici e senza alcun esame dei parametri costituzionali, l’equivalenza tra la garanzia da essi apprestata e quella offerta dal sistema convenzionale.

4.− Quanto alla prima censura di violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione al parametro interposto dell’art. 46, paragrafo 1, della CEDU, ai fini dell’esame sia della rilevanza che del merito, è opportuno prendere le mosse dal contenuto delle sentenze Mottola e Staibano.

4.1.− Quest’ultime hanno accertato, in primo luogo, la violazione del diritto dei ricorrenti all’equo processo, non essendo stato loro consentito, in concreto, di accedere a un tribunale, dal momento che il termine dell’art. 69, comma 7, del d.lgs. n. 165 del 2001, prima interpretato dalla giurisprudenza come termine di proponibilità dell’azione davanti al giudice amministrativo con salvezza di azione davanti al giudice ordinario, è stato poi ritenuto termine di decadenza sostanziale.

Secondo la Corte EDU, il mutamento di indirizzo giurisprudenziale (e non il termine previsto dalla norma, «finalizzato alla buona amministrazione della giustizia» e «in sé non eccessivamente breve») ha impedito ai ricorrenti di ottenere tutela, nonostante avessero «adito i tribunali amministrativi in completa buona fede e sulla base di un’interpretazione plausibile delle norme sulla ripartizione delle competenze».

Le sentenze hanno inoltre riscontrato una violazione di natura sostanziale: i ricorrenti sono stati lesi anche nel diritto al rispetto dei propri beni garantito dall’art. 1 del primo Protocollo addizionale alla Convenzione, perché il mutamento di indirizzo giurisprudenziale li ha privati del riconoscimento di un diritto di credito – quello ai versamenti dei contributi previdenziali – che «aveva una base sufficiente nel diritto interno, in quanto confermato da una giurisprudenza ben consolidata».

All’accertamento della violazione procedurale e di quella sostanziale la Corte di Strasburgo ha quindi fatto seguire l’esame della domanda di equo indennizzo, riservandosi di decidere laddove le parti non raggiungano un accordo («si riserva la decisione e fisserà l’ulteriore procedimento, tenuto conto della possibilità che il Governo e i ricorrenti addivengano ad un accordo»).

5.− Quanto alla rilevanza, secondo l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), essa difetterebbe perché la questione sollevata sarebbe strettamente legata a quella del citato art. 69, comma 7, più volte sottoposto all’esame di questa Corte, che ha sempre ritenuto non fondate le relative questioni di costituzionalità: nel giudizio a quo non ricorrerebbero, dunque, i presupposti per la revocazione della sentenza n. 4 del 2007 dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato.

Secondo l’Università degli studi di Napoli Federico II, invece, la rilevanza difetterebbe perché con la riapertura del processo i ricorrenti mirerebbero all’accertamento di un diritto, quello al versamento dei contributi previdenziali, che sarebbe ormai prescritto ai sensi dell’art. 3 della legge 8 agosto 1995, n. 335 (Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare).

5.1.− È noto che il giudizio sulla rilevanza «è riservato al giudice rimettente, sì che l’intervento della Corte deve limitarsi ad accertare l’esistenza di una motivazione sufficiente, non palesemente erronea o contraddittoria, senza spingersi fino ad un esame autonomo degli elementi che hanno portato il giudice a quo a determinate conclusioni. In altre parole, nel giudizio di costituzionalità, ai fini dell’apprezzamento della rilevanza, ciò che conta è la valutazione che il rimettente deve fare in ordine alla possibilità che il procedimento pendente possa o meno essere definito indipendentemente dalla soluzione della questione sollevata, potendo la Corte interferire su tale valutazione solo se essa, a prima vista, appaia assolutamente priva di fondamento (ex plurimis, sentenze n. 91 del 2013, n. 41 del 2011 e n. 270 del 2010)» (sentenza n. 71 del 2015; nello stesso senso, tra le tante successive, sentenza n. 228 del 2016).

Non incorre in questo vizio l’ordinanza di rimessione, nella quale si afferma di dover fare applicazione delle norme censurate per decidere, in sede rescindente, sull’ammissibilità della domanda di revocazione.

È evidente, infatti, che la decisione della questione di costituzionalità influisce sulla prima valutazione che il rimettente è chiamato ad operare circa la riconducibilità del caso di specie ad uno dei motivi revocatori previsti dalla legge (tra le tante, sentenze n. 20 del 2016, n. 294 del 2011, n. 151 del 2009; ordinanza n. 147 del 2015).

Al contrario, sia la questione della legittimità costituzionale dell’art. 69, comma 7, sia quella della prescrizione dei diritti azionati in giudizio attengono alla successiva ed eventuale fase del merito rescissorio e quindi, non incidendo sulla verifica preliminare di ammissibilità dell’azione cui è chiamato il rimettente, non mettono in discussione la rilevanza della questione.

5.2.− Neanche incide sulla rilevanza la circostanza che le sentenze Mottola e Staibano non abbiano affermato l’obbligo di riapertura del processo, quale forma dovuta di restitutio in integrum. Ciò infatti non esclude che nel giudizio comune si debba dare una risposta alla domanda della parte ricorrente, intesa a far valere il diritto a uno specifico rimedio processuale, che si assume discendere, di per sé, dall’accertata violazione dell’art. 46 della CEDU.

Stabilire se tale diritto sussista o meno pone, invero, un problema di interpretazione della norma convenzionale interposta, problema che, nella specie, coinvolge il merito della questione di costituzionalità (tra le più recenti, sentenze n. 43 del 2017, n. 276 e n. 193 del 2016).

6.– Nel merito la questione non è fondata.

7.− L’esame della censura sollevata dal rimettente va condotto separatamente per i ricorrenti nel giudizio per revocazione che hanno adito vittoriosamente la Corte di Strasburgo e per quelli che non hanno attivato lo strumento processuale convenzionale, ma versano nella medesima situazione sostanziale.

8.− Per i secondi, questa Corte si è già pronunciata in senso negativo, perché l’obbligo di riapertura del processo, posto dall’art. 46 della CEDU, «nel significato attribuitole dalla Corte di Strasburgo, non concerne i casi, diversi da quello oggetto della pronuncia, nei quali per l’ordinamento interno si è formato il giudicato» (sentenza n. 210 del 2013).

Vi è, infatti, «una radicale differenza tra coloro che, una volta esauriti i ricorsi interni, si sono rivolti al sistema di giustizia della CEDU e coloro che, al contrario, non si sono avvalsi di tale facoltà, con la conseguenza che la loro vicenda processuale, definita ormai con la formazione del giudicato, non è più suscettibile del rimedio convenzionale» (così la citata sentenza n. 210 del 2013).

9.– Per i soggetti che hanno adito vittoriosamente la Corte di Strasburgo, invece, questa Corte, con la sentenza n. 113 del 2011, ha riconosciuto l’esistenza dell’obbligo convenzionale di riapertura del processo penale, allorquando ciò sia necessario per conformasi a una sentenza della Corte EDU, e conseguentemente ha introdotto nell’art. 630 del codice di procedura penale una specifica ipotesi di revisione della sentenza passata in giudicato.

Ciò che in questa sede va verificato è se tale conclusione sia valida anche per i processi diversi da quelli penali e, in particolare, per quelli amministrativi.

10.− Come osservato da questa Corte nella decisione da ultimo ricordata, sin dalla sentenza della Grande Camera, 13 luglio 2000, Scozzari e Giunta contro Italia, la Corte EDU, leggendo congiuntamente ed evolutivamente gli artt. 41 e 46 della Convenzione, ha ritenuto che l’obbligo di conformazione alle proprie sentenze implichi, anche cumulativamente, a carico dello Stato condannato: 1) il pagamento dell’equa soddisfazione, ove attribuita dalla Corte ai sensi dell’art. 41 della CEDU; 2) l’adozione, se del caso, di misure individuali necessarie all’eliminazione delle conseguenze della violazione accertata; 3) l’introduzione di misure generali volte a far cessare la violazione derivante da un atto normativo o da prassi amministrative o giurisprudenziali e ad evitare violazioni future (principio ribadito, da ultimo, nelle sentenze della Corte EDU, 14 febbraio 2017, S.K. contro Russia, paragrafo 132; 15 dicembre 2016, Ignatov contro Ucraina, paragrafo 49; 20 settembre 2016, Karelin contro Russia, paragrafo 92; Grande Camera, 17 luglio 2014, Centre for legal resources on behalf of Valentin Campeanu contro Romania, paragrafo 158).

Le misure individuali sono quelle volte a consentire la restitutio in integrum, al fine di porre il ricorrente, per quanto possibile, «in una situazione equivalente a quella in cui si troverebbe se non vi fosse stata una inosservanza delle esigenze della Convenzione» (Grande Camera, 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia, paragrafo 151; nello stesso senso, tra le tante, sentenze Grande Camera, 12 marzo 2014, Kuric e altri contro Slovenia, paragrafo 79; Grande Camera, 30 giugno 2009, VereinTierfabrikenSchweiz (VgT) contro Svizzera, paragrafo 85).

La Corte EDU, peraltro, ha costantemente affermato che in linea di principio non spetta ad essa indicare le misure atte a concretizzare la restitutio in integrum o le misure generali necessarie a porre fine alla violazione convenzionale, restando gli Stati liberi di scegliere i mezzi per l’adempimento di tale obbligo, purché compatibili con le conclusioni contenute nelle sue sentenze (tra le tante, sentenze Grande Camera, 5 febbraio 2015, Bochan contro Ucraina, paragrafo 57; Grande Camera, 17 luglio 2014, Centre for legal resources on behalf of Valentin Campeanu contro Romania, paragrafo 158; Grande Camera, 12 marzo 2014, Kuric e altri contro Slovenia, paragrafo 80), e solo in taluni casi eccezionali ha ritenuto utile indicare il tipo di misure da adottare (tra le ultime, sentenze 30 ottobre 2014, Davydov contro Russia, paragrafo 27; 9 gennaio 2013, Oleksandr Volkov contro Ucraina, paragrafo 195).

Essa, peraltro, nel caso di violazione delle norme sul giusto processo (art. 6 della CEDU), ha anche affermato che la riapertura del processo o il riesame del caso rappresentano, in linea di principio, il mezzo più appropriato per operare la restitutio in integrum (tra le tante, sentenze 20 settembre 2016, Karelin contro Russia, paragrafo 97; Grande Camera, 5 febbraio 2015, Bochan contro Ucraina, paragrafo 58).

10.1.− Di queste ultime misure si occupa anche la Raccomandazione R(2000)2 del 19 gennaio 2000, che, pur non essendo vincolante, è particolarmente importante per la ricostruzione della portata della giurisprudenza convenzionale, e ciò sia perché proviene dall’organo − il Comitato dei ministri − istituzionalmente deputato a vigilare sull’esecuzione delle sentenze di condanna della Corte di Strasburgo, sia perché condiziona la prassi applicativa rilevante sul piano dell’interpretazione della CEDU, ai sensi dell’art. 31, paragrafo 3, della Convenzione di Vienna sui trattati, sia perché, infine, è spesso richiamata dalla Corte nelle sue decisioni, entrando così a far parte del relativo apparato motivazionale e quindi, in definitiva, contribuendo a riempire di contenuto il significato dei precetti convenzionali.

Nella Raccomandazione si legge che l’obbligo conformativo può «in certe circostanze» ricomprendere misure individuali diverse dall’equo indennizzo; che «in circostanze eccezionali» il riesame del caso o la riapertura dei processi si è dimostrata la misura più adeguata, se non l’unica, per raggiungere la restitutio in integrum; che, infine, quest’ultima appare indicata laddove «la parte continui a soffrire conseguenze negative molto serie a causa della decisione interna, che non possono essere adeguatamente rimosse attraverso l’equa soddisfazione».

11.− Dalla giurisprudenza della Corte EDU e dalla Raccomandazione si ricava, dunque, che l’obbligo di conformazione alle sentenze della Corte ha un contenuto variabile, che le misure ripristinatorie individuali diverse dall’indennizzo sono solo eventuali e vanno adottate esclusivamente laddove siano «necessarie» per dare esecuzione alle sentenze stesse, e che il riesame del caso o la riapertura del processo sono tuttavia da ritenersi le misure più appropriate nel caso di violazione delle norme convenzionali sul giusto processo.

12.− La specifica giurisprudenza della Corte di Strasburgo relativa ai processi civili e amministrativi è sostanzialmente in linea con questi princìpi.

In particolare, anche nelle sentenze rese in queste materie si sottolinea l’importanza della riapertura del processo o del riesame del caso per la effettività del sistema convenzionale, in presenza di violazioni processuali.

Si deve constatare, tuttavia, che l’indicazione della obbligatorietà della riapertura del processo, quale misura atta a garantire la restitutio in integrum, è presente esclusivamente in sentenze rese nei confronti di Stati i cui ordinamenti interni già prevedono, in caso di violazione delle norme convenzionali, strumenti di revisione delle sentenze passate in giudicato (si vedano, tra le altre, le sentenze 22 novembre 2016, Artemenko contro Russia, paragrafo 34; 26 aprile 2016, Kardoš contro Croazia, paragrafo 67; 26 luglio 2011, T.Ç. e H.Ç contro Turchia, paragrafi 94 e 95; 20 dicembre 2007, Iosif e altri contro Romania, paragrafo 99; 20 dicembre 2007, PaykarYevHaghtanak LTD contro Armenia, paragrafo 58; 10 agosto 2006, Yanakiev contro Bulgaria, paragrafo 90; 11 luglio 2006, Gurov contro Moldavia, paragrafo 43).

12.1.− Riassume con grande chiarezza l’atteggiamento della Corte EDU nelle materie diverse da quella penale la sentenza della Grande Camera, 5 febbraio 2015, Bochan contro Ucraina.

Quest’ultima, dopo avere riportato i dati di uno studio comparativo sullo stato della legislazione degli Stati contraenti (paragrafi 26 e 27), osserva che non vi è un approccio uniforme sulla possibilità di riaprire i processi civili in seguito a una sentenza della Corte EDU che abbia accertato violazioni convenzionali (paragrafo 57).

La sentenza, poi, pur incoraggiando gli Stati contraenti all’adozione delle misure necessarie per garantire la riapertura del processo, afferma che è rimesso agli Stati medesimi la scelta di come meglio conformarsi alle pronunce della Corte, «senza indebitamente stravolgere i princìpi della res iudicata o la certezza del diritto nel contenzioso civile, in particolare quando tale contenzioso riguarda terzi con i propri legittimi interessi da tutelare» (paragrafo 57).

13.− Questo passaggio della motivazione è di particolare rilievo, ai fini della risoluzione dell’odierna questione di costituzionalità, perché, nel perimetrare l’obbligo di conformazione discendente dall’art. 46, paragrafo 1, della CEDU, individua nella tutela dei soggetti diversi dallo Stato che hanno preso parte al giudizio interno la principale differenza fra i processi penali e quelli civili, differenza che riguarda pure quelli amministrativi, anch’essi caratterizzati dalla frequente partecipazione al giudizio di amministrazioni diverse dallo Stato, di parti resistenti private affidatarie di un munus pubblico e di controinteressati.

È la tutela di costoro, unita al rispetto nei loro confronti della certezza del diritto garantita dalla res iudicata (oltre al fatto che nei processi civili e amministrativi non è in gioco la libertà personale), a spiegare l’atteggiamento più cauto della Corte EDU al di fuori della materia penale.

14.− Ciò trova riscontro nella posizione di diversi Stati contraenti, i quali hanno manifestato analoga cautela al riguardo, come notato – si è visto – dalla stessa sentenza Bochan e come emerge sia dal Memorandum esplicativo della Raccomandazione R(2000)2, sia dal Review sull’esecuzione della citata Raccomandazione del 12 maggio del 2006 sia, infine, dall’Overview del comitato di esperti datato 12 febbraio 2016.

15.− Si deve dunque concludere che, nelle materie diverse da quella penale, dalla giurisprudenza convenzionale non emerge, allo stato, l’esistenza di un obbligo generale di adottare la misura ripristinatoria della riapertura del processo, e che la decisione di prevederla è rimessa agli Stati contraenti, i quali, peraltro, sono incoraggiati a provvedere in tal senso, pur con la dovuta attenzione per i vari e confliggenti interessi in gioco.

16.− Questo invito è stato accolto da circa metà degli Stati del Consiglio d’Europa, come emerge dal citato Overview, il quale, alla data del 12 febbraio 2016, indica in ventitré gli Stati che hanno introdotto strumenti atti a consentire la riapertura dei processi civili a seguito di sentenze della Corte EDU di accertamento di violazioni convenzionali.

Tra questi vi è la Germania, ove, con la ZweitesGesetzzurModernisierungderJustiz − 2. Justizmodernisierungsgesetz del 22 dicembre 2006, il legislatore ha aggiunto ai casi di revocazione straordinaria delle sentenze civili elencati dall’art. 580 del Zivilprozessordnung quello in cui la Corte EDU abbia stabilito che la Convenzione o i suoi protocolli sono stati violati da una sentenza nazionale e quest’ultima si basi su tale violazione. I giudicati amministrativi possono egualmente essere rimessi in discussione, poiché, come nel nostro ordinamento, esiste una norma che, in materia di revocazione, rinvia alle disposizioni del citato codice di rito.

Anche in Spagna, a seguito di diversi tentativi della giurisprudenza di utilizzare in via estensiva gli istituti di impugnazione già presenti nell’ordinamento, a partire dal 1° ottobre 2015, mediante la modifica della LeyOrgánica 6/1985, de 1 de julio, del PoderJudicial, è stato introdotto all’art. 5-bis un caso di recurso de revisión di tutte le sentenze in contrasto con una pronuncia definitiva della Corte di Strasburgo, purché la violazione, per la sua natura e gravità, comporti effetti che persistono e che non possono cessare in altro modo che con la revisione.

Da ultimo, il legislatore francese, con la Loi n° 2016-1547 du 18 novembre 2016 de modernisation de la justiceduXXIesiècle, ha introdotto nel Code de l’organisationjudiciaire la possibilità di chiedere la revocazione delle sentenze civili rese in materia di stato delle persone in caso di condanna da parte della Corte EDU, laddove, per la sua natura e gravità, la violazione convenzionale abbia creato un danno non risarcibile con l’equa soddisfazione.

17.− Anche nel nostro ordinamento la riapertura del processo non penale, con il conseguente travolgimento del giudicato, esige una delicata ponderazione, alla luce dell’art. 24 Cost., fra il diritto di azione degli interessati e il diritto di difesa dei terzi, e tale ponderazione spetta in via prioritaria al legislatore.

In questa prospettiva, se è vero che non è irrilevante l’interesse statale ad una disciplina che eviti indennizzi a volte onerosi, per lesioni anche altrimenti riparabili, non si può sottacere che l’invito della Corte EDU potrebbe essere più facilmente recepito in presenza di un adeguato coinvolgimento dei terzi nel processo convenzionale.

È noto, infatti, che quest’ultimo vede come parti necessarie il ricorrente e lo Stato autore della violazione, mentre l’intervento degli altri soggetti che hanno preso parte al giudizio interno − cui peraltro il ricorso non deve essere notificato − è rimesso, ai sensi dell’art. 36, paragrafo 2, della CEDU, alla valutazione discrezionale del Presidente della Corte, il quale «può invitare» «ogni persona interessata diversa dal ricorrente a presentare osservazioni per iscritto o a partecipare alle udienze».

Non vi è dubbio, allora, che una sistematica apertura del processo convenzionale ai terzi – per mutamento delle fonti convenzionali o in forza di una loro interpretazione adeguatrice da parte della Corte EDU − renderebbe più agevole l’opera del legislatore nazionale.

per questi motivi

La Corte Costituzionale

1) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 106 del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104 (Attuazione dell’articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al governo per il riordino del processo amministrativo), e degli artt. 395 e 396 del codice di procedura civile, sollevata, in riferimento agli artt. 24 e 111 della Costituzione, dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, con l’ordinanza indicata in epigrafe;

2) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 106 del d.lgs. n. 104 del 2010, e degli artt. 395 e 396 cod. proc. civ., sollevata, in riferimento all’art. 117, primo comma, della Costituzione, dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 marzo 2017.