Sentenza della Corte costituzionale 7 febbraio 2017, n. 68

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G.U. 12 aprile 2017, n. 15

La Corte di Cassazione ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 187-sexies, d.lgs. 58/1998 (Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria) e dell’art. 9, 6 co., l. 62/2005 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee. Legge comunitaria 2004) in riferimento agli artt. 3, 25, 2 co., Cost. e all’ art. 117, 1 co., Cost. in relazione all’art. 7 CEDU (nulla poena sine lege). Gli articoli sono impugnati nella parte in cui prevedono che la confisca per equivalente sia applicata anche alle violazioni commesse anteriormente alla data di entrata in vigore della legge che ne ha previsto la depenalizzazione (l. 62/20015). Secondo il rimettente, davanti al quale erano impugnate sentenze di rigetto a seguito di proposte per eliminare l’applicazione delle sanzioni inflitte dalla Consob per l’abuso di informazioni privilegiate imposte quando i fatti erano considerati reati, la norma aveva un contenuto che eccedeva la finalità di prevenire la commissione di illeciti e infrangeva il divieto di retroattività. La Corte costituzionale ha dichiarato inammissibili le questioni affermando che nel nuovo regime punitivo previsto per l’illecito amministrativo, la fattispecie è inquadrata in base ai principi generali della successione delle leggi nel tempo, in conformità con l’art.7 CEDU e con il principio della lex mitior.

Sentenza

nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 187-sexies del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, ai sensi degli articoli 8 e 21 della legge 6 febbraio 1996, n. 52), e 9, comma 6, della legge 18 aprile 2005, n. 62 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee. Legge comunitaria 2004), promossi dalla Corte di cassazione, con sei ordinanze del 14 settembre 2015, rispettivamente iscritte ai nn. 303, 304, 305, 306, 307 e 308 del registro ordinanze 2015 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 51, prima serie speciale, dell’anno 2015.

Visti gli atti di costituzione di A.C., E.B., O.P., R.L., M.G., O.S. e della Consob;

udito nell’udienza pubblica del 7 febbraio 2017 il Giudice relatore Giorgio Lattanzi;

uditi gli avvocati Giovanni Arieta e Achille Chiappetti per A.C., E.B., O.P., R.L., M.G., O.S., e gli avvocati Rocco Vampa e Salvatore Providenti per la Consob.

Ritenuto in fatto

1.– Con sei ordinanze di analogo tenore (r.o. nn. 303, 304, 305, 306, 307 e 308 del 2015), la Corte di cassazione, seconda sezione civile, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale degli artt. 187-sexies del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, ai sensi degli articoli 8 e 21 della legge 6 febbraio 1996, n. 52), e 9, comma 6, della legge 18 aprile 2005, n. 62 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee. Legge comunitaria 2004), in riferimento agli artt. 3, 25, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (d’ora in avanti: CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848.

L’art. 187-sexies del d.lgs. n. 58 del 1998 e l’art. 9, comma 6, della legge n. 62 del 2005 sono impugnati nella parte in cui prevedono che la confisca per equivalente si applica anche alle violazioni commesse anteriormente alla data di entrata in vigore della legge n. 62 del 2005, che le ha depenalizzate.

L’art. 187-sexies del d.lgs. n. 58 del 1998, come introdotto dalla legge n. 62 del 2005, prevede che, in caso di condanna per un illecito amministrativo previsto dalla parte V, titolo I-bis, del medesimo testo normativo, ove non sia possibile confiscare il prodotto o il profitto dell’illecito e i beni utilizzati per commetterlo, sia disposta la confisca di somme di denaro, beni o altre utilità di valore equivalente.

L’art. 9, comma 6, della legge n. 62 del 2005 aggiunge che tale regime si applica anche alle violazioni commesse anteriormente all’entrata in vigore di tale legge, con cui sono state depenalizzate alcune figure di reato e sono stati introdotti corrispondenti illeciti amministrativi, salvo che il relativo procedimento penale non sia già stato definito.

Il rimettente conosce di ricorsi proposti contro alcune sentenze con cui la Corte d’appello di Brescia ha rigettato l’opposizione a provvedimenti sanzionatori adottati dalla Commissione nazionale per le società e la borsa (Consob). Con tali provvedimenti è stata applicata la confisca per equivalente alla parte sanzionata per avere commesso illeciti previsti dalla parte V, titolo I-bis, del d.lgs. n. 58 del 1998. Tra i motivi di ricorso vi è la illegittimità dell’applicazione di questa misura, introdotta dalla legge n. 62 del 2005, perché i fatti erano stati commessi in epoca anteriore all’entrata in vigore di tale legge.

Il giudice a quo esclude anzitutto di poter giungere in via interpretativa a dichiarare tale illegittimità, dato che l’art. 9, comma 6, prevede espressamente la retroattività della confisca per equivalente, salvo che nell’ipotesi in cui il procedimento penale sia stato già definito, circostanza che nella specie non ricorre.

Ciò detto, il rimettente precisa che la misura in questione ha «un contenuto sostanzialmente afflittivo», che eccede la finalità di prevenire la commissione di illeciti, perché si applica «a beni del tutto privi di collegamento con l’illecito». Tale conclusione, già formulata dalla giurisprudenza di legittimità e avallata da questa stessa Corte con riguardo ad altre figure di confisca per equivalente, comporta l’applicazione dello statuto legale della sanzione penale, presidiata dall’art. 25, secondo comma, Cost. e dall’art. 7 della CEDU. In particolare, vige, a parere del rimettente, il divieto di retroattività, che l’art. 9, comma 6, della legge n. 62 del 2005 espressamente infrange. Difatti, prima dell’entrata in vigore di tale legge, la condanna per il reato, oggi depenalizzato, comportava la confisca dei mezzi, anche finanziari, utilizzati per commettere l’illecito e dei beni che ne costituivano il profitto, ma non anche la confisca per equivalente, ove quella diretta non fosse possibile. Deve pertanto ritenersi, conclude il giudice a quo, che vi sia stata l’applicazione retroattiva di una nuova sanzione penale e che la confisca per equivalente relativa a fatti commessi anteriormente alla legge n. 62 del 2005, che l’ha introdotta, leda gli artt. 3, 25, secondo comma, e 117, primo comma Cost., quest’ultimo in riferimento all’art. 7 della CEDU.

2.– Si è costituita in giudizio la Consob, già parte del processo principale, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile, e, nel merito, non fondata.

Sussisterebbe un difetto di rilevanza, perché il rimettente non avrebbe indicato il rapporto tra le norme impugnate e i motivi del ricorso per cassazione.

Nel merito la Consob contesta che la confisca per equivalente prevista dall’impugnato art. 187-sexies del d.lgs. n. 58 del 1998 sia una sanzione penale, anziché una misura di sicurezza soggetta al principio tempus regit actum enunciato dall’art. 200 del codice penale.

Né il carattere sanzionatorio della confisca per equivalente potrebbe desumersi dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, richiamata dallo stesso rimettente, dato che la sentenza 4 marzo 2014, Grande Stevens contro Italia, avrebbe affermato la natura penale delle sanzioni amministrative, pecuniarie e interdittive, previste dal d.lgs. n. 58 del 1998, ma non della confisca.

Del resto, prosegue la Consob, la giurisprudenza della Corte EDU, applicando a misure estranee al sistema penale nazionale le garanzie proprie della pena, amplierebbe l’area del diritto penale e sarebbe perciò difficilmente conciliabile con il principio costituzionale di stretta legalità.

La Consob inoltre sostiene che neppure se la confisca per equivalente avesse natura penale sarebbe stato violato il divieto di retroattività, perché vi sarebbe stato un fenomeno di successione di leggi nel tempo, con l’applicazione di quella più favorevole. In particolare la confisca per equivalente andrebbe apprezzata unitamente alla depenalizzazione del reato, con la conseguenza che in ogni caso la legge n. 62 del 2005, che l’ha introdotta, avrebbe dato luogo a un trattamento sanzionatorio più favorevole del precedente, che prevedeva la pena detentiva.

In altri termini, secondo la Consob, «la valutazione della natura “sfavorevole” della “nuova” legge repressiva implica un raffronto del complessivo trattamento punitivo discendente dalle leggi succedutesi nel tempo, e non certo di singole misure». Ne conseguirebbe l’irrilevanza della circostanza che la confisca per equivalente non fosse prevista al tempo della commissione del fatto, posto che essa, quale legge più favorevole, subentrerebbe a un regime sanzionatorio più gravoso.

3.– Nell’imminenza dell’udienza pubblica, la Consob ha depositato in ciascun giudizio memorie di analogo contenuto insistendo sulle conclusioni già formulate.

In particolare osserva che l’accoglimento della questione realizzerebbe «un regime di diritto transitorio che si discosterebbe, in modo irragionevole, sia dal regime precedente (sanzioni penali), sia da quello successivo (misure amministrative comprensive della cosiddetta “confisca per equivalente”)».

4.– Si sono costituite in giudizio e hanno depositato memorie di analogo contenuto le parti ricorrenti nei giudizi a quibus, chiedendo l’accoglimento della questione.

Dopo aver svolto ampi riferimenti alla giurisprudenza costituzionale ed europea, le parti osservano che la confisca per equivalente non può ritenersi una misura di sicurezza, «se non avvallando la tecnica normativa nota come la “frode delle etichette”». Difatti questa confisca sarebbe priva di finalità preventiva.

Inoltre non sarebbe neppure possibile confrontare i trattamenti sanzionatori previsti prima e dopo la depenalizzazione, giungendo a ritenere meno afflittivo il secondo di essi, «in quanto la depenalizzazione trae origine dalla valutazione da parte del legislatore della minore gravità degli illeciti che è tale da escludere l’applicazione di sanzioni penali. Pretendere di fare un raffronto tra i due trattamenti è del tutto irragionevole perché in sostanza finisce per negare la differenziazione voluta dal legislatore». La questione dunque non consisterebbe nel paragonare i trattamenti sanzionatori ma nel riconoscere la natura punitiva della confisca per equivalente, introdotta dalla normativa impugnata, impedendone l’applicazione retroattiva.

Considerato in diritto

1.– La Corte di cassazione, seconda sezione civile, con sei ordinanze di analogo tenore (r.o. nn. 303, 304, 305, 306, 307 e 308 del 2015), ha sollevato questioni di legittimità costituzionale degli artt. 187-sexies del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, ai sensi degli articoli 8 e 21 della legge 6 febbraio 1996, n. 52), e 9, comma 6, della legge 18 aprile 2005, n. 62 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee. Legge comunitaria 2004), in riferimento agli artt. 3, 25, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (d’ora in avanti: CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848.

L’art. 187-sexies del d.lgs n. 58 del 1998 e l’art. 9, comma 6, della legge n. 62 del 2005 sono impugnati nella parte in cui prevedono che la confisca per equivalente si applica anche alle violazioni commesse anteriormente alla data di entrata in vigore della legge n. 62 del 2005, che le ha depenalizzate.

Considerata l’identità delle questioni i giudizi meritano di essere riuniti per una decisione congiunta.

2.– Davanti al giudice a quo sono impugnate delle sentenze con cui una corte d’appello ha rigettato le opposizioni proposte contro l’applicazione, da parte della Commissione nazionale per le società e la borsa (Consob), delle sanzioni amministrative di cui all’art. 187-bis, comma 4, del d.lgs. n. 58 del 1998 per l’abuso di informazioni privilegiate.

I fatti sono stati commessi quando erano previsti dalla legge come reato, e a tale titolo erano sanzionati dall’art. 180, comma 2, del d.lgs. n. 58 del 1998 con la pena della reclusione fino a due anni e della multa da venti a seicento milioni di lire, nonché con la confisca diretta dei mezzi utilizzati per commettere il reato e dei beni che ne costituivano il profitto.

In seguito la condotta è stata depenalizzata dall’art. 9, comma 2, lettera a), della legge n. 62 del 2005, che contestualmente, riformulando l’art. 187-bis del d.lgs. n. 58 del 1998, ne ha previsto la punizione con una sanzione amministrativa pecuniaria da ventimila a tre milioni di euro, poi quintuplicata dall’art. 39, comma 3, della legge 28 dicembre 2005, n. 262 (Disposizioni per la tutela del risparmio e la disciplina dei mercati finanziari).

L’art. 187-sexies impugnato ha inoltre stabilito che sia sempre disposta la confisca del prodotto o del profitto dell’illecito e dei beni utilizzati per commetterlo, e che, qualora ciò non sia possibile, la confisca abbia ad oggetto somme di denaro, beni o altre utilità di valore equivalente.

Con quest’ultima previsione il legislatore ha introdotto una nuova ipotesi di confisca per equivalente, posto che in precedenza l’art. 180 del d.lgs. n. 58 del 1998 prevedeva la sola confisca diretta.

L’art. 9, comma 6, impugnato ha aggiunto che, limitatamente agli illeciti depenalizzati, la confisca per equivalente si applica anche alle violazioni commesse anteriormente all’entrata in vigore della legge n. 62 del 2005, purché il procedimento penale non sia stato definito. Un’analoga retroattività non è stata invece introdotta per i fatti di abuso di informazioni privilegiate e di manipolazione del mercato che continuano a costituire reato e per i quali la confisca per equivalente, prevista dall’art. 187 del d.lgs. n. 58 del 1998, come modificato dall’art. 9, comma 2, lettera a), della legge n. 62 del 2005, trova applicazione solo rispetto alle condotte realizzate nella vigenza della normativa sopravvenuta.

In virtù dell’innovazione normativa i ricorrenti nel giudizio principale sono stati sanzionati dalla Consob in via amministrativa, e, in applicazione delle disposizioni impugnate, alla sanzione pecuniaria è stata aggiunta la confisca per equivalente di ingenti somme di denaro.

Il giudice a quo premette che la confisca per equivalente regolata dall’art. 187-sexies, comma 2, impugnato ha natura di sanzione penale ai sensi dell’art. 7 della CEDU, al pari delle altre ipotesi di confisca di valore già conosciute dal nostro ordinamento e sulle quali la Corte di cassazione, e in talune occasioni, anche questa Corte, si sono già pronunciate in tal senso. Detta misura infatti non raggiunge beni pertinenti al reato e tali da poter giustificare la presunzione che, posti nella disponibilità del reo, possano indurlo a delinquere nuovamente. Essa colpisce invece beni di altra natura e del tutto svincolati dall’illecito, così da rivestire una funzione punitiva, anziché preventiva. Ne dovrebbe seguire l’applicazione dello statuto costituzionale della pena, tracciato dagli artt. 25, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 7 della CEDU, con conseguente divieto assoluto di retroattività.

Le disposizioni impugnate sarebbero perciò lesive di tali parametri costituzionali, oltre che dell’art. 3 Cost., nella parte in cui prevedono che la confisca per equivalente si applica anche alle violazioni commesse anteriormente all’entrata in vigore della legge n. 62 del 2005, che l’ha introdotta.

3.– Le questioni che fanno riferimento all’art. 3 Cost. sono inammissibili, perché prive di motivazione.

4.– Inammissibili sono anche le questioni che hanno per oggetto l’art. 187-sexies del d.lgs. n. 58 del 1998, perché tale disposizione non ha la portata lesiva che il rimettente le attribuisce. La norma in questione si limita a disciplinare la confisca per equivalente, mentre è soltanto all’art. 9, comma 6, della legge n. 62 del 2005 che va attribuita la scelta del legislatore di rendere questo istituto di applicazione retroattiva, dando così luogo al dubbio di costituzionalità che ha animato il giudice a quo. Il giudizio incidentale ha perciò per oggetto ammissibile soltanto quest’ultima previsione legislativa, la cui chiarezza non lascia all’interprete alcun margine di interpretazione correttiva, idonea a far escludere per tale via l’efficacia retroattiva della misura in discussione (da ultimo, sentenza n. 42 del 2017).

5.– La Consob, già parte dei processi principali, nel costituirsi innanzi a questa Corte ha eccepito l’inammissibilità delle questioni per difetto di rilevanza, perché, nell’ambito di un giudizio di legittimità che sarebbe circoscritto all’esame dei soli motivi di ricorso, la Corte di cassazione rimettente non sarebbe stata investita del problema concernente l’applicazione retroattiva della confisca per equivalente e non avrebbe perciò dovuto applicare l’art. 9, comma 6, impugnato.

L’eccezione, a prescindere da ogni altro rilievo, non è fondata perché il giudice a quo dà analiticamente conto, in ciascuna delle ordinanze di rimessione, del motivo di ricorso concernente l’applicazione retroattiva della confisca per equivalente, la cui legittimità è stata contestata dalle parti ricorrenti nei relativi giudizi.

Tuttavia le questioni relative all’art. 9, comma 6, sono inammissibili per una ragione diversa.

6.– Questa Corte non ha motivo di discostarsi dalla premessa argomentativa da cui muove il rimettente, sulla natura penale, ai sensi dell’art. 7 della CEDU, della confisca per equivalente. Con quest’ultima espressione si indica una particolare misura di carattere ablativo che il legislatore appronta per il caso in cui, dopo una condanna penale, non sia possibile eseguire la confisca diretta dei beni che abbiano un «rapporto di pertinenzialità» (ordinanze n. 301 e n. 97 del 2009) con il reato. Mentre quest’ultimo strumento, reagendo alla pericolosità indotta nel reo dalla disponibilità di tali beni, assolve a una funzione essenzialmente preventiva, la confisca per equivalente, che raggiunge beni di altra natura, «palesa una connotazione prevalentemente afflittiva ed ha, dunque, una natura “eminentemente sanzionatoria”» (ordinanza n. 301 del 2009). È infatti noto che il mero effetto ablativo connesso all’istituto della confisca non vale di per sé a segnare la natura giuridica della misura, perché «la confisca non si presenta sempre di eguale natura e in unica configurazione, ma assume, in dipendenza delle diverse finalità che la legge le attribuisce, diverso carattere, che può essere di pena come anche di misura non penale» (sentenza n. 46 del 1964).

La confisca per equivalente prevista dall’art. 187-sexies impugnato condivide il tratto essenziale proprio delle altre ipotesi di confisca di valore finora vagliate dalla giurisprudenza di legittimità e anche da questa Corte (ordinanze n. 301 e n. 97 del 2009), con specifico riferimento al caso regolato dall’art. 322-ter del codice penale. Essa si applica a beni che non sono collegati al reato da un nesso diretto, attuale e strumentale, cosicché la privazione imposta al reo risponde a una finalità di carattere punitivo, e non preventivo. Del resto lo stesso legislatore si mostra consapevole del tratto afflittivo e punitivo proprio della confisca per equivalente, al punto da non prevederne la retroattività per i fatti che continuano a costituire reato (art. 187 del d.lgs. n. 58 del 1998). A fronte di tale dirimente considerazione, recedono tutti gli argomenti contrari dedotti dalla difesa della Consob.

7.– Una volta acclarata la funzione punitiva propria della confisca prevista dall’art. 187-sexies impugnato, è conseguente l’applicabilità dell’art. 25, secondo comma, Cost. in punto di divieto di retroattività.

Questa Corte ha ritenuto che tale garanzia costituzionale concerne non soltanto le pene qualificate come tali dall’ordinamento nazionale, ma anche quelle così qualificabili per effetto dell’art. 7 della CEDU (sentenza n. 196 del 2010), perché punire a qualsivoglia titolo la persona per un fatto privo di antigiuridicità quando è stato commesso significa violare il cuore dell’affidamento che l’individuo è legittimato a riporre nello Stato (sentenza n. 364 del 1988) quanto all’esercizio della potestà pubblica in forme prive di arbitrarietà e irrazionalità.

Nel caso di specie, pertanto, la confisca per equivalente, nonostante sia prevista dalla legge come conseguente a un illecito amministrativo, va considerata una “pena”, come tale assistita da tutte le garanzie prescritte al riguardo dall’art. 7 della CEDU. Essa infatti, svolgendo con tratti di significativa afflittività una funzione punitiva, risponde positivamente ai criteri enunciati a tal fine dalla consolidata giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (sentenza 9 febbraio 1995, Welch contro Gran Bretagna).

A questo proposito non colgono nel segno le obiezioni sollevate dalla difesa della Consob. In primo luogo, è improprio affermare che l’estensione dello statuto costituzionale della pena alle sanzioni che l’ordinamento nazionale qualifica come amministrative ingenera una espansione del diritto penale, da reputare contraria ai principi di legalità dei reati e di sussidiarietà.

Questa asserzione si basa sull’erroneo convincimento che l’attribuzione di una garanzia propria della pena implichi l’assegnazione di una certa misura sanzionatoria al campo del diritto penale, con riferimento non soltanto a tale forma di tutela ma anche a qualsiasi altro effetto. Se così fosse, vi sarebbe indubbiamente una frizione con il principio costituzionale di sussidiarietà, il quale continua invece ad assicurare «l’autonomia dell’illecito amministrativo dal diritto penale» (sentenza n. 49 del 2015). Al contrario, il recepimento della CEDU nell’ordinamento giuridico si muove nel segno dell’incremento delle libertà individuali, e mai del loro detrimento (sentenza n. 317 del 2009), come potrebbe invece accadere nel caso di un definitivo assorbimento dell’illecito amministrativo nell’area di ciò che è penalmente rilevante. Fermo restando l’obbligo, discendente dall’art. 117, primo comma, Cost., di estendere alla “pena”, ai sensi dell’art. 7 della CEDU, tutte le tutele previste dalla Convenzione, e quelle soltanto (sentenza n. 43 del 2017), l’illecito continua a rivestire per ogni altro aspetto carattere amministrativo (sentenza n. 49 del 2015).

In secondo luogo, è parimenti da respingere l’idea che l’interprete non possa applicare la CEDU, se non con riferimento ai casi che siano già stati oggetto di puntuali pronunce da parte della Corte di Strasburgo. Al contrario, «[l]’applicazione e l’interpretazione del sistema di norme è attribuito beninteso in prima battuta ai giudici degli Stati membri» (sentenze n. 49 del 2015 e n. 349 del 2007). Il dovere di questi ultimi di evitare violazioni della CEDU li obbliga ad applicarne le norme, sulla base dei principi di diritto espressi dalla Corte EDU, specie quando il caso sia riconducibile a precedenti della giurisprudenza del giudice europeo (sentenze n. 276 e n. 36 del 2016).

In tale attività interpretativa, che gli compete istituzionalmente ai sensi dell’art. 101, secondo comma, Cost., il giudice comune incontra il solo limite costituito dalla presenza di una normativa nazionale di contenuto contrario alla CEDU. In tale caso, la disposizione interna va impugnata innanzi a questa Corte per violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., ove non sia in alcun modo interpretabile in senso convenzionalmente orientato (sentenza n. 239 del 2009).

Nel caso di specie, pertanto, non è risolutiva la circostanza che la Corte di Strasburgo, con la sentenza 4 marzo 2014, Grande Stevens e altri contro Italia, abbia applicato l’art. 7 della CEDU alle sanzioni amministrative pecuniarie e interdittive previste in materia di abuso di informazioni privilegiate, senza occuparsi della confisca per equivalente, che non era oggetto di quel contenzioso. L’interprete nazionale è infatti tenuto a sviluppare i principi enunciati sulla base dell’art. 7 della CEDU per decidere se valgano anche con riferimento alla confisca di valore, e, come si è visto, la risposta al quesito deve essere affermativa.

Posta la natura di “pena”, ai sensi dell’art. 7 della CEDU, da riconoscere nella specie alla confisca per equivalente, si pone ineludibilmente la questione relativa all’asserita illegittimità costituzionale dell’art. 9, comma 6, censurato, che ne stabilisce espressamente l’applicazione retroattiva.

8.– Ciò chiarito, deve ritenersi che le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 6, della legge n. 62 del 2005, sollevate, in relazione agli artt. 25, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., dalla Corte di cassazione, siano inammissibili, perché basate su un erroneo presupposto interpretativo.

È fuori di dubbio che sia vietato al legislatore sanzionare con effetto retroattivo un fatto che non era illecito quando fu commesso, e parimenti introdurre anche per il passato una sanzione che si aggiunge al trattamento sanzionatorio già previsto dalla legge.

Quest’ultimo era appunto il fenomeno paventato in seguito all’estensione ai reati tributari dell’art. 322-ter cod. pen., il quale per taluni reati aveva dato vita a una ipotesi di confisca di valore che si aggiungeva alla pena già stabilita dalla legge, e questa Corte, preceduta dalla giurisprudenza di legittimità, riconosciutane la natura punitiva, aveva escluso che l’interprete potesse applicare tale confisca ai fatti commessi precedentemente (ordinanze n. 301 e n. 97 del 2009).

Il giudice a quo imposta l’odierna questione di legittimità costituzionale secondo la medesima traccia logica, postulando che una nuova pena retroattiva sia stata introdotta nell’ordinamento, e non considera che la vicenda normativa di cui si tratta ha dato luogo a un fenomeno giuridico di più ampia portata, che muta i termini della questione.

Il fatto addebitato ai ricorrenti nel processo principale quando fu commesso costituiva reato, ai sensi dell’art. 180 del d.lgs. n. 58 del 1998, nel testo originario. A seguito della depenalizzazione disposta dall’art. 9, comma 2, lettera a), della legge n. 62 del 2005, esso è stato espunto dall’area di ciò che rileva penalmente ma ha conservato la sua antigiuridicità, perché la condotta già prevista come reato integra oggi gli estremi dell’illecito amministrativo disciplinato dall’art. 187-bis, comma 4, del d.lgs. n. 58 del 1998.

Il passaggio dal reato all’illecito amministrativo è vicenda non infrequente nell’ordinamento, che talora il legislatore governa con un’apposita norma transitoria, per disciplinare i fatti commessi nella vigenza della norma penale, e successivamente riconducibili alla normativa amministrativa sopravvenuta.

La disposizione transitoria, sul modello offerto dall’art. 40 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), di regola provvede a stabilire l’applicabilità del nuovo trattamento sanzionatorio ai fatti pregressi, salvo che il procedimento penale sia già stato definito, ed è dubbio che una soluzione analoga potrebbe essere tratta dall’interprete in difetto di un’espressa indicazione legislativa.

Con riguardo alla confisca per equivalente originata dall’art. 187-sexies del d.lgs. n. 58 del 1998 una norma transitoria di questo tenore è stata adottata appunto con l’art. 9, comma 6, impugnato.

Il legislatore non ha privato il fatto di antigiuridicità, e ha continuato a riprovarlo per mezzo della sanzione amministrativa, considerando quest’ultima in sé più favorevole della precedente pena, benché connotata dalla confisca di valore. Ed è in questa prospettiva che ha sottoposto al nuovo e ritenuto più mite trattamento sanzionatorio l’autore della violazione commessa quando era punita come reato.

Il presupposto di questa vicenda normativa è costituito dalla presunzione, da cui muove il legislatore, che la sanzione amministrativa sia in ogni caso più favorevole di quella penale.

L’art. 9, comma 6, impugnato riflette una tale presunzione legislativa, posto che rende obbligatoria, per i fatti antecedenti, l’imposizione del nuovo regime sanzionatorio, basato sulla sanzione amministrativa pecuniaria da centomila a quindici milioni di euro e sulla confisca diretta o per equivalente, in luogo della pena della reclusione fino a due anni, della multa da venti a seicento milioni di lire e della sola confisca diretta.

Ora, quand’anche si dovesse condividere la tradizionale posizione della giurisprudenza comune in ordine alla natura più favorevole di qualunque sanzione amministrativa rispetto alla pena, ugualmente essa non sarebbe di alcuna utilità nella odierna vicenda. Infatti, ai sensi dell’art. 7 della CEDU, il nuovo trattamento sanzionatorio introdotto in sede di depenalizzazione continua a costituire una “pena”, con la conseguenza che un giudizio di maggior favore non può certamente basarsi solo sulla qualificazione giuridica della sanzione come amministrativa e sull’astratta preferibilità di una risposta punitiva di tale natura rispetto a quella penale. Esso deve, al contrario, fondarsi sull’individuazione in concreto del regime complessivamente più favorevole per la persona, avuto riguardo a tutte le caratteristiche del caso specifico.

L’art. 7 della CEDU, nell’interpretazione della Corte europea, conosce difatti il fenomeno della successione di leggi penali nel tempo e lo risolve nel senso della necessaria applicazione della lex mitior (salvo le deroghe che questa Corte ha reputato conformi alla CEDU, ma che certamente non concernono il regime sanzionatorio: sentenza n. 236 del 2011), sicché, ai fini del rispetto delle garanzie accordate dalla CEDU, il passaggio dal reato all’illecito amministrativo, quando quest’ultimo conserva natura penale ai sensi dell’art. 7 della Convenzione, permette l’applicazione retroattiva del nuovo regime punitivo soltanto se è più mite di quello precedente. In tal caso, infatti, e solo in tal caso, nell’applicazione di una pena sopravvenuta, ma in concreto più favorevole, non si annida alcuna violazione del divieto di retroattività, ma all’opposto una scelta in favore del reo.

Ciò significa che erroneamente il giudice a quo ritiene che sia in ogni caso costituzionalmente vietato applicare retroattivamente la confisca per equivalente. Infatti, qualora il complessivo trattamento sanzionatorio generato attraverso la depenalizzazione, nonostante la previsione di tale confisca, fosse in concreto più favorevole di quello applicabile in base alla pena precedentemente comminata, non vi sarebbero ostacoli costituzionali a che esso sia integralmente disposto.

9.– In conclusione, il giudice a quo ha formulato le questioni di legittimità costituzionale sulla base di una considerazione parziale della complessa vicenda normativa verificatasi nel caso di specie. Ha così omesso di tenere conto del fatto che la natura penale, ai sensi dell’art. 7 della CEDU, del nuovo regime punitivo previsto per l’illecito amministrativo comporta un inquadramento della fattispecie nell’ambito della successione delle leggi nel tempo e demanda al rimettente il compito di verificare in concreto se il sopraggiunto trattamento sanzionatorio, assunto nel suo complesso e dunque comprensivo della confisca per equivalente, si renda, in quanto di maggior favore, applicabile al fatto pregresso, ovvero se esso in concreto denunci un carattere maggiormente afflittivo. Soltanto in quest’ultimo caso, la cui verificazione spetta al giudice a quo accertare e adeguatamente motivare, potrebbe venire in considerazione un dubbio sulla legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 6, della legge n. 62 del 2005, nella parte in cui tale disposizione prescrive l’applicazione della confisca di valore e assoggetta pertanto il reo a una sanzione penale, ai sensi dell’art. 7 della CEDU, in concreto più gravosa di quella che sarebbe applicabile in base alla legge vigente all’epoca della commissione del fatto.

Il mancato scioglimento di questo preliminare nodo interpretativo rende le questioni inammissibili.

per questi motivi

La Corte Costituzionale

riuniti i giudizi,

dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 187-sexies del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, ai sensi degli articoli 8 e 21 della legge 6 febbraio 1996, n. 52), e 9, comma 6, della legge 18 aprile 2005, n. 62 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee. Legge comunitaria 2004), sollevate, in riferimento agli artt. 3, 25, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848, dalla Corte di Cassazione, con le ordinanze indicate in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 febbraio 2017.