Sentenza della Corte costituzionale 7 dicembre 2016, n. 20

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G.U.  1 febbraio 2017, n. 5

La Corte costituzionale ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità sollevate dalla Corte d’appello di Reggio Calabria riguardo all’art. 266 c.p.p. e agli artt. 18 e 18 ter della l. n. 354/1975 in riferimento agli artt. 3 e 112 Cost. La questione riguardava le restrizioni alla libertà e riservatezza delle comunicazioni dei detenuti con l’esterno. Per la Corte, le disposizioni censurate sono frutto di un bilanciamento tra il diritto alla libertà e alla riservatezza della corrispondenza e la possibilità della restrizione della stessa per esigenze attinenti a indagini, nei confronti sia di persone libere che detenute. La Corte ha altresì ricordato che le norme applicabili sono state modificate a seguito di sentenze di condanna pronunciate dalla Corte europea dei diritti umani nei confronti dell’Italia per violazione degli artt. 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare) e 13 (diritto ad un ricorso effettivo) della CEDU.

Sentenza

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 266 del codice di procedura penale e degli artt. 18 (nel testo anteriore alle modifiche introdotte dall’art. 3, commi 2 e 3, della legge 8 aprile 2004, n. 95, recante «Nuove disposizioni in materia di visto di controllo sulla corrispondenza dei detenuti») e 18-ter della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), promosso dalla Corte di assise d’appello di Reggio Calabria, nel procedimento penale a carico di C.T., con ordinanza dell’8 febbraio 2016 iscritta al n. 67 del registro ordinanze 2016 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 14, prima serie speciale, dell’anno 2016.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 7 dicembre 2016 il Giudice relatore Marta Cartabia.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza dell’8 febbraio 2016 (r.o. n. 67 del 2016), la Corte di assise d’appello di Reggio Calabria ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 112 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 266 del codice di procedura penale e degli artt. 18 (nel testo previgente le modifiche introdotte dall’art. 3, commi 2 e 3, della legge 8 aprile 2004, n. 95, recante «Nuove disposizioni in materia di visto di controllo sulla corrispondenza dei detenuti») e 18-ter della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà).

1.1.– La Corte rimettente ha premesso di essere investita del processo penale a carico di C.T., fondato su una serie di intercettazioni telefoniche e ambientali, nonché di missive spedite e ricevute in carcere dall’imputato, dalle quali il giudice di primo grado ha inferito l’esistenza di un progetto criminoso volto a consolidare il potere della famiglia dello stesso imputato sul territorio di Siderno e a consumare una serie di specifici fatti delittuosi.

La Corte di assise d’appello ha precisato che la corrispondenza non è stata sequestrata ai sensi dell’art. 254 cod. proc. pen., ma solo copiata dalla polizia giudiziaria, previa autorizzazione del giudice per le indagini preliminari, senza quindi che i destinatari potessero conoscere l’attività investigativa compiuta.

La Corte rimettente ha riferito che, in un primo tempo, la Corte di cassazione (sentenza 18 ottobre 2007 – 23 gennaio 2008, n. 3579) ha ritenuto utilizzabili i risultati di tali indagini, in base alla considerazione che il provvedimento autorizzatorio del giudice sia in questi casi parificabile a quello, di cui agli artt. 266 e seguenti cod. proc. pen., in materia di intercettazioni telefoniche.

Successivamente, tuttavia, la questione relativa all’intercettabilità della corrispondenza è stata rimessa alle sezioni unite della medesima Corte di cassazione, le quali hanno ritenuto, con sentenza 19 aprile – 18 luglio 2012, n. 28997, inapplicabile in via analogica la disciplina prevista per le intercettazioni o comunicazioni di cui agli artt. 266 e seguenti cod. proc. pen. alle operazioni di intercettazione della corrispondenza e ha, di conseguenza, affermato l’inutilizzabilità, ex art. 191 del codice di rito, delle missive illegittimamente intercettate.

L’ordinanza di rimessione riferisce che il primo giudice di appello ha, peraltro, considerato utilizzabili le dichiarazioni degli imputati relative al contenuto di alcune lettere, di cui era stata data lettura dal pubblico ministero in sede di interrogatorio dibattimentale, e ha condannato gli imputati per i delitti di tentata estorsione aggravata, associazione mafiosa, associazione finalizzata al narcotraffico, omicidio volontario aggravato e connessi reati in materia di armi.

La Corte di cassazione ha poi annullato la sentenza di condanna, limitatamente al delitto di omicidio volontario e ai reati in materia di armi, rinviando il giudizio dinanzi alla procedente Corte di assise d’appello di Reggio Calabria.

1.2.– Ciò premesso, il giudice a quo ha ritenuto non manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 266 cod. proc. pen. e 18 (nel testo previgente le modifiche introdotte dall’art. 3, commi 2 e 3, della legge n. 95 del 2004) e 18-ter della legge sull’ordinamento penitenziario, nella parte in cui non consentono la intercettazione della corrispondenza epistolare del detenuto, diversamente da quanto avviene per le comunicazioni telefoniche e le altre forme di telecomunicazione.

L’esclusione della corrispondenza epistolare dalle intercettazioni, prosegue il rimettente, risulta dall’impossibilità di applicare analogicamente alle missive postali le disposizioni dettate dal codice di rito in materia di intercettazioni telefoniche, così come rilevato dalle sezioni unite della Corte di cassazione, con la citata sentenza, e come risulta inevitabile in materia presidiata da doppia riserva (di legge e di giurisdizione) ai sensi dell’art. 15 Cost. Prova ne sarebbe anche la circostanza che, per includere nella disciplina delle intercettazioni anche la corrispondenza, nel corso della XV legislatura è stato presentato un apposito disegno di legge, mai approvato dal Parlamento.

Riguardo alla corrispondenza, infatti, secondo il giudice a quo è possibile il solo sequestro ai sensi degli artt. 254 e 353 cod. proc. pen., ma non l’intercettazione all’insaputa del mittente e del destinatario, consentita invece dagli artt. 266 e seguenti del medesimo codice solo per le comunicazioni telefoniche e le altre telecomunicazioni.

Ad avviso del rimettente, simile limitazione determina una irragionevole disparità di trattamento censurabile ai sensi dell’art. 3 Cost., non giustificabile ex art. 15 Cost., giacché quest’ultima disposizione costituzionale si riferisce non solo alla corrispondenza, ma «ad ogni altra forma di comunicazione», tra le quali rientrano perciò anche le comunicazioni telefoniche.

La rilevata irragionevolezza della disparità di trattamento sarebbe accentuata nel caso di corrispondenza di detenuti, per i quali l’art. 18-ter dell’ordinamento penitenziario prevede, in caso di controllo, l’apposizione di un visto, che rende i soggetti che intrattengono corrispondenza edotti dell’attività investigativa. In questo modo, secondo il rimettente, lo stato detentivo, da ritenersi irrilevante ai fini investigativi, si porrebbe quale fattore ulteriormente limitativo delle indagini, in quanto imporrebbe all’autorità procedente, per la corrispondenza, oneri comunicativi incompatibili con la necessità di assicurare la segretezza delle indagini, che non sono richiesti per i soggetti non privati della libertà personale. L’irragionevolezza della disciplina relativa alla corrispondenza risulterebbe ancor più evidente a fronte del fatto che la legislazione in vigore consentirebbe le intercettazioni ambientali di colloqui con persone in visita al detenuto, video-riprese che permettano di cogliere segni occulti o altri gesti comunicativi, non meno invasivi della privatezza e della segretezza delle comunicazioni.

La Corte rimettente ritiene, dunque, che sussista una violazione del principio di uguaglianza presidiato dall’art. 3 Cost., per irragionevole disparità di disciplina tra le intercettazioni telefoniche e quelle epistolari, nonché per lo status privilegiato che verrebbe riconosciuto all’indagato detenuto rispetto a quello non detenuto.

1.3.– Il giudice a quo ritiene poi violato anche l’art. 112 Cost., in quanto l’impossibilità di intercettare le comunicazioni epistolari dei detenuti renderebbe ineffettivo il principio di obbligatorietà dell’azione penale in relazione alle ipotesi considerate.

Il rimettente ricorda che, secondo la giurisprudenza costituzionale (viene citata la sentenza n. 121 del 2009), l’esercizio dell’azione penale può essere subordinato a specifiche condizioni, purché non foriere di irragionevoli disparità di trattamento, come avverrebbe invece nella specie.

Inoltre, la completa individuazione degli elementi e delle fonti di prova – che sarebbe compromessa dall’esclusione dell’intercettazione epistolare – costituisce, secondo la Corte di assise d’appello, il «precipitato naturale» del principio codificato dall’art. 112 Cost., che ne risulterebbe quindi parimenti compromesso.

1.4.– Ritenuta la non manifesta infondatezza delle questioni, in punto di rilevanza il giudice a quo ha precisato che l’inutilizzabilità, nella loro completezza, delle missive copiate, ma non sottoposte a sequestro, né alle formalità prescritte dagli artt. 18 e 18-ter dell’ordinamento penitenziario, determinerebbe una lacunosità del materiale probatorio relativo alla fattispecie omicidiaria e ai reati in materia di armi, con conseguente rilievo delle questioni sollevate nel giudizio.

2.– Con atto depositato il 26 aprile 2016, è intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili.

In particolare, la difesa dello Stato ha rilevato che l’ordinanza di rimessione risulta del tutto carente di motivazione in punto di rilevanza delle questioni, mancando la benché minima descrizione tanto della fattispecie concreta, quanto delle evidenze documentali ritenute non utilizzabili. Tale carenza precluderebbe alla Corte costituzionale ogni verifica della rilevanza, con conseguente inammissibilità delle questioni sollevate.

Considerato in diritto

1.– Con ordinanza dell’8 febbraio 2016 la Corte di assise d’appello di Reggio Calabria ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 112 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 266 del codice di procedura penale e degli artt. 18 (nel testo previgente le modifiche introdotte dall’art. 3, commi 2 e 3, della legge 8 aprile 2004, n. 95, recante «Nuove disposizioni in materia di visto di controllo sulla corrispondenza dei detenuti») e 18-ter della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà).

L’art. 266 cod. proc. pen. prevede, nei procedimenti relativi ai reati da esso elencati, la possibilità di sottoporre a intercettazione le conversazioni, le comunicazioni telefoniche e le altre forme di telecomunicazione, mentre gli impugnati artt. 18 – nel testo anteriore alle modifiche di cui alla legge n. 95 del 2004 – e 18-ter della legge n. 354 del 1975 prevedono, come unica forma di controllo della corrispondenza epistolare del detenuto, quella tramite apposizione di un visto. Il rimettente ritiene che le citate disposizioni siano illegittime nella parte in cui non consentono di intercettare il contenuto della corrispondenza postale, impedendo così di captare il contenuto delle missive senza che il mittente e il destinatario ne vengano a conoscenza, come avviene invece per le altre forme di comunicazione.

1.1.– In particolare, il giudice a quo ha premesso di essere investito del giudizio sulla responsabilità dell’imputato C.T., limitatamente a delitti di omicidio volontario e in materia di armi, a seguito di sentenza di annullamento con rinvio da parte della Corte di cassazione.

Ha quindi precisato che, per valutare adeguatamente la responsabilità dell’imputato nel giudizio di rinvio, è necessario l’integrale esame del contenuto della corrispondenza postale da questi inviata e ricevuta in carcere.

Tale corrispondenza è stata copiata all’insaputa del mittente e dei destinatari in forza di un provvedimento di autorizzazione emesso dal giudice procedente, senza sottoporla a sequestro ai sensi dell’art. 254 cod. proc. pen., né a visto di controllo ai sensi degli artt. 18 e 18-ter dell’ordinamento penitenziario.

Ai fini della condanna sono state utilizzate le sole dichiarazioni rese dai coimputati sul contenuto di alcune di tali missive, di cui è stata data loro lettura in dibattimento, per le contestazioni nel contraddittorio delle parti.

La corrispondenza epistolare non sarebbe tuttavia utilizzabile, direttamente e nella sua integralità, ai sensi dell’art. 191 cod. proc. pen., in quanto acquisita mediante una forma di intercettazione da considerarsi vietata dalla legge.

Infatti, come chiarito dalle Sezioni unite della Corte di cassazione (sentenza 19 aprile – 18 luglio 2012, n. 28997), la corrispondenza epistolare non è soggetta alla disciplina delle intercettazioni di conversazioni o comunicazioni, dovendosi invece, per tale forma di comunicazione riservata, seguire le forme del sequestro ovvero, nel caso di corrispondenza di detenuti, la disciplina del visto di controllo. Tale conclusione ermeneutica si impone ineluttabilmente, in quanto la materia delle intrusioni investigative sulla corrispondenza postale è regolata dall’art. 254 cod. proc. pen. – che ha ad oggetto il sequestro della corrispondenza presso gestori di servizi postali o in luoghi accessori – e, nel caso dei detenuti, dai citati artt. 18 (nel testo previgente le modifiche introdotte dall’art. 3, commi 2 e 3, della legge n. 95 del 2004) e 18-ter dell’ordinamento penitenziario, che prevedono una procedura mediante apposizione di visto di controllo. Il sequestro e il visto di controllo si atteggiano, quindi, quale disciplina speciale incidente su aspetti presidiati dalla riserva di legge prevista dall’art. 15 Cost., così da impedire l’applicazione analogica delle disposizioni di cui all’art. 266 cod. proc. pen. in materia di intercettazioni, ovvero l’applicazione dell’art. 189 dello stesso codice in materia di prove atipiche.

1.2.– Secondo il rimettente, l’assetto normativo sopra descritto, risultante dall’art. 266 cod. proc. pen. e dai citati artt. 18 (nel testo previgente le modifiche introdotte dall’art. 3, commi 2 e 3, della legge n. 95 del 2004) e 18-ter dell’ordinamento penitenziario, sarebbe costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non consente l’intercettazione della corrispondenza postale in genere e, in particolare, di quella del detenuto.

In primo luogo, sarebbe violato il principio di uguaglianza, presidiato dall’art. 3 Cost., sotto un duplice profilo. Anzitutto perché si sottopongono a una irragionevole disparità di trattamento le comunicazioni telefoniche, informatiche e telematiche rispetto alle comunicazioni epistolari mediante servizio postale; in secondo luogo, perché si attribuisce uno status privilegiato all’indagato detenuto rispetto a quello non detenuto.

Inoltre, verrebbe violato l’art. 112 Cost., in quanto l’attività investigativa sarebbe ostacolata e resa ineffettiva dall’impossibilità di accedere a determinate fonti di prova, accesso che, secondo il rimettente, costituisce il «precipitato naturale» dell’obbligatorietà dell’azione penale.

2.– Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha eccepito l’inammissibilità delle sollevate questioni, in quanto l’ordinanza di rimessione risulterebbe del tutto carente di motivazione sulla rilevanza delle questioni, mancando la benché minima descrizione tanto della fattispecie concreta, quanto delle evidenze documentali ritenute non utilizzabili. Tale carenza precluderebbe alla Corte costituzionale ogni verifica della rilevanza, con conseguente inammissibilità delle questioni sollevate.

2.1.– L’eccezione non è fondata.

Il rimettente ha descritto le fattispecie in termini sufficienti a consentire alla Corte il necessario controllo sull’applicabilità nel procedimento principale degli impugnati artt. 266 cod. proc. pen. e 18 (nel testo previgente le modifiche introdotte dall’art. 3, commi 2 e 3, della legge n. 95 del 2004) e 18-ter dell’ordinamento penitenziario, come risultanti dalla modifica richiesta a questa Corte con le sollevate questioni di legittimità costituzionale. L’ordinanza riferisce, infatti, l’andamento del complesso procedimento, all’esito del quale la Corte rimettente è stata investita, in qualità di giudice del rinvio, del giudizio a carico di C.T., limitatamente al delitto di omicidio volontario e ai reati in materia di armi. Lo stesso rimettente ha poi compiutamente motivato sull’inutilizzabilità delle prove raccolte tramite “intercettazione” della corrispondenza epistolare dell’imputato detenuto e sulle ragioni per le quali le impugnate disposizioni, senza le addizioni richieste, costituiscano l’ostacolo a detta utilizzabilità.

Non pare invero necessario, ai fini del controllo sulla rilevanza, che il giudice a quo enunci specificamente e dettagliatamente i contenuti delle comunicazioni epistolari illegittimamente intercettate, avendo egli comunque riferito che in esse passano gli elementi per l’organizzazione della fattispecie omicidiaria sub iudice con i connessi reati in materia di armi. L’ordinanza di rimessione, del resto, espone le ragioni logiche e giuridiche per le quali il giudice deve poter procedere a una valutazione integrale delle predette comunicazioni epistolari ai fini della decisione di merito in sede di rinvio, e illustra i motivi per i quali l’attuale assetto normativo non lo consente.

2.2.– Quanto all’assetto normativo che impedisce l’utilizzazione del contenuto di missive postali non sottoposte né a sequestro ex art. 254 cod. proc. pen., né a visto di controllo ex art. 18-ter della legge n. 354 del 1975 (e, prima delle modifiche introdotte dalla legge n. 95 del 2004, ex art. 18), neppure può rimproverarsi al rimettente di non avere sperimentato una interpretazione costituzionalmente conforme delle disposizioni denunciate.

La Corte di assise d’appello ha infatti articolato le ragioni testuali, sistematiche e di ordine costituzionale che impongono tale conclusione, in linea con il “diritto vivente”, quale risultante dalla sentenza delle Sezioni unite della Corte di cassazione 19 aprile – 18 luglio 2012, n. 28997.

Infatti, la materia delle intrusioni investigative sulla corrispondenza epistolare è regolata dall’art. 254 cod. proc. pen., che ha ad oggetto il sequestro presso i gestori di servizi postali o in luoghi accessori e che, rispetto alla normativa generale in tema di sequestri (art. 253 cod. proc. pen.), si atteggia quale disciplina speciale, in quanto incidente su aspetti presidiati dall’art. 15 Cost. Inoltre, per quanto riguarda la corrispondenza postale dei detenuti, l’ordinamento penitenziario prevede una speciale procedura mediante visto di controllo, ai sensi dell’art. 18-ter dell’ordinamento penitenziario (e, prima delle modifiche introdotte dalla legge n. 95 del 2004, dell’art. 18).

In presenza di tale specifica regolamentazione e vertendosi in materia presidiata dalle riserve di legge e di giurisdizione di cui all’art. 15 Cost., non è, dunque, consentita l’applicazione in via analogica alla corrispondenza epistolare della disciplina dettata per le intercettazioni dagli artt. 266 e seguenti del codice di rito.

Pertanto il rimettente ha argomentato in modo non implausibile – e anzi conforme a criteri ermeneutici anche di ordine costituzionale – che, essendo la materia compiutamente disciplinata, non sussiste, in base al quadro normativo vigente e al “diritto vivente”, la possibilità di utilizzare forme di captazione della corrispondenza postale diverse dal sequestro o, per i detenuti, dalla procedura mediante visto di controllo: ciò non sarebbe possibile neppure ricorrendo alla categoria della prova atipica ex art. 189 cod. proc. pen., che presuppone la formazione lecita della prova, come risulta dal “diritto vivente” in proposito espresso da altra sentenza delle sezioni unite della Corte di cassazione (sentenza 28 marzo – 28 luglio 2006, n. 26795) in tema di riprese visive. Infatti, l’acquisizione della copia della corrispondenza deve ritenersi vietata ove non avvenga con le modalità stabilite dall’ordinamento penitenziario per l’apposizione del visto di controllo, quanto alla corrispondenza dei detenuti, e con quelle del sequestro ex art. 254 cod. proc. pen. per la generalità della corrispondenza postale.

3.– Nel merito le questioni non sono fondate.

3.1.– La «libertà» e la «segretezza» della «corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione» sono oggetto del diritto «inviolabile» tutelato dall’art. 15 Cost., che garantisce «quello spazio vitale che circonda la persona e senza il quale questa non può esistere e svilupparsi in armonia con i postulati della dignità umana» (sentenza n. 366 del 1991, ripresa dalla sentenza n. 81 del 1993).

Nondimeno, al pari di ogni altro diritto costituzionalmente protetto, anche il diritto alla libertà e alla segretezza della corrispondenza è soggetto a limitazioni, purché disposte «per atto motivato dell’autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge». Se così non fosse, «si verificherebbe l’illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette» (sentenza n. 85 del 2013). Per questo, la «Costituzione italiana, come le altre Costituzioni democratiche e pluraliste contemporanee, richiede un continuo e vicendevole bilanciamento tra princìpi e diritti fondamentali, senza pretese di assolutezza per nessuno di essi», nel rispetto dei canoni di proporzionalità e di ragionevolezza (sentenza n. 85 del 2013). Pertanto, anche il diritto inviolabile protetto dall’art. 15 Cost. può subire limitazioni o restrizioni «in ragione dell’inderogabile soddisfacimento di un interesse pubblico primario costituzionalmente rilevante, sempreché l’intervento limitativo posto in essere sia strettamente necessario alla tutela di quell’interesse e sia rispettata la duplice garanzia» della riserva assoluta di legge e della riserva di giurisdizione (sentenza n. 366 del 1991).

3.2.– Non v’è dubbio che l’amministrazione della giustizia e la persecuzione dei reati costituiscano interessi primari, costituzionalmente rilevanti, idonei a giustificare una normativa limitativa del diritto alla libertà e alla segretezza della corrispondenza e della comunicazione. Ciò avviene, appunto, attraverso la previsione legislativa di mezzi di ricerca della prova, disciplinati dal Libro III, Titolo III, Capo III, del codice di procedura penale, che consentono all’autorità giudiziaria di prendere conoscenza dei contenuti delle comunicazioni interpersonali rilevanti ai fini dell’accertamento dei reati e di utilizzarli come evidenze processuali.

La vigente normativa sulla ricerca dei mezzi di prova distingue gli strumenti applicabili alla corrispondenza da quelli esperibili nei confronti delle comunicazioni telefoniche, telematiche e informatiche. Per le prime è possibile procedere a sequestro (art. 254 cod. proc. pen.), mentre per le seconde la ricerca delle prove può avvenire a mezzo di intercettazione (artt. 266 e 266-bis cod. proc. pen.), applicabile anche alle comunicazioni tra presenti.

Si tratta invero di strumenti diversi per modalità ed efficacia. Il sequestro della corrispondenza ha per oggetto il supporto (lettera, plico, pacco, telegramma) di cui comporta l’apprensione materiale, con la conseguenza di impedire che esso giunga a destinazione. L’intercettazione, che può avvenire anche all’insaputa degli interessati, ha per oggetto la comunicazione in sé e non ne interrompe il flusso; essa richiede operazioni talora articolate di registrazione e trascrizione perché le informazioni possano essere utilizzate a fini processuali, secondo modalità puntualmente disciplinate dalla legge (artt. 268 e ss. cod. proc. pen).

Il rimettente ravvisa, nella vigente normativa, un’ingiustificata asimmetria tra la disciplina concernente le comunicazioni epistolari (in particolare postali) e quella applicabile alle altre forme di comunicazione (conversazioni e comunicazioni telefoniche, telematiche o informatiche, ovvero gestuali), in quanto per le prime non sarebbe prevista l’intercettazione, ma solo il sequestro. Tale asimmetria determinerebbe una violazione del principio di uguaglianza sancito dall’art. 3 Cost.

3.3.– Vero è che il diritto di cui all’art. 15 Cost. comprende tanto la «corrispondenza» quanto le «altre forme di comunicazione», incluse quelle telefoniche, elettroniche, informatiche, tra presenti o effettuate con gli altri mezzi resi disponibili dallo sviluppo della tecnologia.

È altresì vero, tuttavia, che la tutela del medesimo diritto – nella specie, a comunicare liberamente e riservatamente – non esige di necessità l’uniformità della disciplina delle misure restrittive ad esso applicabili. Al contrario, la medesima esigenza di tutela della libertà e segretezza delle comunicazioni interpersonali ben può tollerare, o persino richiedere, che la limitazione del diritto sia adeguatamente modulata, in ragione delle diverse caratteristiche del mezzo attraverso cui la comunicazione si esprime. Ciò che rileva, ai fini del controllo esercitato da questa Corte, è che le disposizioni limitative della libertà di comunicazione siano rispettose della riserva assoluta di legge e di giurisdizione e siano volte alla tutela di un altro diritto o al perseguimento di un altro interesse costituzionalmente rilevante, in ossequio ai principi di idoneità, necessità e proporzionalità.

In altri termini, ciò che questa Corte è chiamata a verificare, nel caso di specie, è che il legislatore abbia operato in concreto un bilanciamento tra il principio costituzionale della tutela della riservatezza nelle comunicazioni e l’interesse della collettività, anch’esso costituzionalmente protetto, alla repressione degli illeciti penali, senza imporre limitazioni irragionevoli o sproporzionate dell’uno o dell’altro (sentenza n. 372 del 2006).

3.4.– Nella normativa vigente, la libertà e la riservatezza della corrispondenza epistolare (postale) non sono esenti dai sacrifici necessari ad assicurare un efficace svolgimento delle indagini e dell’amministrazione della giustizia. Il sequestro di cui all’art. 254 cod. proc. pen., infatti, consente all’autorità giudiziaria di prendere conoscenza dei contenuti della corrispondenza dell’imputato rilevante per l’accertamento di reati, per mezzo della diretta acquisizione coattiva della res in cui si sostanzia l’atto di comunicazione, rappresentata dalla missiva cartacea. In tal modo, il sequestro determina altresì un’interruzione del flusso informativo, impedendo che la comunicazione scritta giunga al destinatario, così da esplicare anche effetti preventivi, specie quando la corrispondenza epistolare si sostanzi in direttive o mandati criminosi.

Il sequestro, individuato dal legislatore come strumento volto a dotare l’ordinamento di mezzi di indagine utili alla repressione degli illeciti penali, costituisce una tra le possibili forme di restrizione alla libertà e alla segretezza della corrispondenza idonee a contemperare, in modo non irragionevole, anche alla luce delle peculiari caratteristiche del mezzo comunicativo disciplinato, interessi costituzionali contrapposti.

3.5.– Non può d’altra parte ritenersi che la specifica disciplina applicabile alla corrispondenza determini una distinzione giuridica irragionevole e perciò lesiva del principio di eguaglianza, sulla base del solo raffronto con la normativa applicabile a mezzi strutturalmente eterogenei quali sono, appunto, le comunicazioni telefoniche, informatiche e telematiche. La specificità della regolamentazione del sequestro di corrispondenza epistolare e la inapplicabilità ad essa della normativa sulle intercettazioni risultano, del resto, dalla stessa giurisprudenza di legittimità delle Sezioni unite (sentenza 19 aprile – 18 luglio 2012, n. 28997).

La diversità del mezzo comunicativo utilizzato – segnatamente il suo diverso grado di materializzazione – ha orientato il legislatore verso differenti modalità di ricerca della prova, secondo scelte non irragionevoli, in base alle quali ha previsto il sequestro per la comunicazione realizzata attraverso un mezzo cartaceo – in linea con gli strumenti tradizionali per l’acquisizione di cose pertinenti al reato (art. 253 cod. proc. pen. e, con specifico riguardo alla corrispondenza postale, art. 254 cod. proc. pen.) – e l’intercettazione per la comunicazione realizzata attraverso mezzi visivi, acustici o elettronici.

Non è dunque di per sé irragionevole che la restrizione del diritto alla segretezza delle comunicazioni, giustificata da esigenze di prevenzione e repressione dei reati, possa comportare la previsione di differenti mezzi di ricerca della prova, tecnicamente confacenti alla diversa natura del medium utilizzato per la comunicazione.

4.– Per quanto riguarda più specificamente la corrispondenza postale del detenuto, deve inoltre ricordarsi che la disciplina dettata dall’art. 18-ter della legge n. 354 del 1975, come modificata dalla legge n. 95 del 2004, rappresenta un delicato punto di equilibrio raggiunto dal legislatore, anche a seguito di numerose decisioni della Corte europea dei diritti dell’uomo in cui l’Italia veniva ripetutamente condannata per violazione degli artt. 8 e 13 CEDU (ex multis, sentenze 21 ottobre 1996, Calogero Diana contro Italia; 15 novembre 1996, Domenichini contro Italia; 6 aprile 2000, Labita contro Italia; 26 luglio 2001, Di Giovine contro Italia; 14 ottobre 2004, Ospina Vargas contro Italia).

4.1.– Non è superfluo ribadire il costante orientamento della giurisprudenza di questa Corte, secondo il quale la tutela costituzionale dei diritti fondamentali opera anche nei confronti di chi è stato sottoposto a legittime restrizioni della libertà personale, sia pure con le limitazioni imposte dalla particolare condizione in cui versa: «Chi si trova in stato di detenzione, pur privato della maggior parte della sua libertà, ne conserva sempre un residuo, che è tanto più prezioso in quanto costituisce l’ultimo ambito nel quale può espandersi la sua personalità individuale» (sentenza n. 349 del 1993, nonché sentenze n. 26 del 1999 e n. 212 del 1997).

In relazione alla libertà di corrispondenza, deve osservarsi che i colloqui personali dei detenuti e, se autorizzate, le loro comunicazioni telefoniche sono soggetti a contingentamenti e regolazioni da parte dell’ordinamento penitenziario (art. 18 della legge n. 354 del 1975). Per quanto riguarda la corrispondenza epistolare, di norma il detenuto deve avere a disposizione gli strumenti necessari, ma per la sua stessa condizione è comunque tenuto ad affidarsi all’amministrazione penitenziaria, che smista la posta diretta ai detenuti o da loro spedita.

In questo contesto, di per sé limitativo della libertà di comunicare riservatamente, si inserisce l’art. 18-ter, introdotto con la legge n. 95 del 2004, che prevede la possibilità di ulteriori restrizioni: «Per esigenze attinenti le indagini o investigative o di prevenzione dei reati, ovvero per ragioni di sicurezza o di ordine dell’istituto, possono essere disposti, nei confronti dei singoli detenuti o internati, per un periodo non superiore a sei mesi, prorogabile per periodi non superiori a tre mesi: a) limitazioni nella corrispondenza epistolare e telegrafica e nella ricezione della stampa; b) la sottoposizione della corrispondenza a visto di controllo; c) il controllo del contenuto delle buste che racchiudono la corrispondenza, senza lettura della medesima».

4.2.– La procedura mediante visto di controllo della corrispondenza postale dei detenuti di cui all’art. 18-ter dell’ordinamento penitenziario si affianca, dunque, ad ulteriori limitazioni e condizionamenti a cui la comunicazione con soggetti esterni è sottoposta. Unitamente agli altri strumenti contemplati dal medesimo art. 18-ter, l’apposizione del visto di controllo realizza, nello specifico ambito della detenzione in carcere, un bilanciamento tra le esigenze investigative legate alla prevenzione o alla repressione dei reati e i diritti dei detenuti, tra i quali la possibilità di intrattenere rapporti con soggetti esterni riveste una particolare importanza affinché le modalità di esecuzione della pena siano rispettose dei principi costituzionali e, segnatamente, dell’art. 27 Cost.

5.– D’altra parte, la normativa impugnata attiene ad istituti processuali e, segnatamente, ai mezzi di ricerca della prova, ambito in cui debbono essere preservati adeguati margini di discrezionalità legislativa, soggetti solo a controllo di manifesta irragionevolezza o arbitrarietà da parte di questa Corte (da ultimo, ex plurimis, sentenze n. 152 del 2016, n. 138 del 2012 e n. 141 del 2011).

Per le considerazioni che precedono, relative alle caratteristiche del mezzo utilizzato e della particolare posizione del detenuto, deve escludersi la manifesta irragionevolezza o arbitrarietà delle scelte discrezionali del legislatore nella regolazione dei mezzi di ricerca della prova che possono essere adottati in relazione alla corrispondenza postale in genere (attraverso il sequestro ex art. 254 cod. proc. pen.) e del detenuto in particolare (attraverso la procedura mediante visto di controllo prevista dall’ordinamento penitenziario).

Ciò non vuol dire che lo stesso legislatore, nel rispetto delle riserve di legge e di giurisdizione previste dall’art. 15 Cost. e in osservanza dei canoni di ragionevolezza e di proporzionalità, non possa prevedere forme di captazione occulta dei contenuti che non interrompano il flusso comunicativo, come già accaduto per le comunicazioni telematiche e informatiche, introdotte attraverso gli artt. 11 e 12 della legge 23 dicembre 1993, n. 547 (Modificazioni ed integrazioni alle norme del codice penale e del codice di procedura penale in tema di criminalità informatica).

Si tratta di delicate scelte discrezionali, non costituzionalmente necessitate, che, come tali, rientrano a pieno titolo nelle competenze e nelle responsabilità del legislatore e non in quelle di questa Corte, il cui compito precipuo è vigilare affinché il bilanciamento, fissato dalla legge, tra contrapposti diritti e interessi costituzionali risponda a principi di ragionevolezza e proporzionalità.

6.– Dalle osservazioni che precedono discende l’infondatezza delle censure relative alla violazione degli artt. 3 e 112 Cost.

Infatti – a prescindere da ogni considerazione sull’affermazione del rimettente relativa alla completezza investigativa quale «precipitato naturale» del principio di obbligatorietà dell’azione penale – una volta ritenuta non illegittima, per la corrispondenza epistolare, la restrizione a taluni mezzi di ricerca della prova, risultano altrettanto non illegittime le conseguenti limitazioni del materiale probatorio utilizzabile.

per questi motivi

La Corte Costituzionale

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 266 del codice di procedura penale e degli artt. 18 (nel testo anteriore alle modifiche introdotte dall’art. 3, commi 2 e 3, della legge 8 aprile 2004, n. 95, recante «Nuove disposizioni in materia di visto di controllo sulla corrispondenza dei detenuti») e 18-ter della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), sollevate dalla Corte di assise di appello di Reggio Calabria, in riferimento agli artt. 3 e 112 della Costituzione, con l’ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 dicembre 2016.