Sentenza della Corte costituzionale 6 luglio 2016, n. 193

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G.U. 27 luglio 2016, n. 30

La Corte ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 l. n. 689/1981, nella parte in cui non prevede l’applicazione della legge successiva più favorevole agli autori degli illeciti amministrativi. Riferendosi alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani relativamente alla qualificazione di certe sanzioni amministrative come sostanzialmente penali ai fini del rispetto degli artt. 6 e 7 CEDU (Scoppola c. Italia, 2009), la Corte ha ritenuto che non discenda da tali pronunce un obbligo degli Stati parti di estendere il principio della lex mitior, in modo generalizzato, al sistema delle sanzioni amministrative.

Sentenza
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 1 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), promosso dal Tribunale ordinario di Como, nel procedimento vertente tra F.T. ed altro e la Direzione territoriale del lavoro di Como, con ordinanza del 27 marzo 2015, iscritta al n. 156 del registro ordinanze 2015 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 34, prima serie speciale, dell’anno 2015.
Udito nella camera di consiglio del 6 luglio 2016 il Giudice relatore Giuliano Amato.
Ritenuto in fatto
1.− Il Tribunale ordinario di Como, con ordinanza emessa il 27 marzo 2015, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), nella parte in cui non prevede l’applicazione all’autore dell’illecito amministrativo della legge successiva più favorevole.
La disposizione in esame, intitolata «Principio di legalità», prevede che «Nessuno può essere assoggettato a sanzioni amministrative se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima della commissione della violazione. Le leggi che prevedono sanzioni amministrative si applicano soltanto nei casi e per i tempi in esse considerati».
Essa viene censurata nella parte in cui non prevede l’applicazione della legge successiva più favorevole agli autori degli illeciti amministrativi.
Viene denunciata la violazione degli artt. 3 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 6 e 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848.
2.− Il Tribunale rimettente è investito della decisione in ordine all’opposizione, proposta ai sensi dell’art. 22 della legge n. 689 del 1981, avverso l’ordinanza-ingiunzione con cui la Direzione territoriale del lavoro di Como ha irrogato nei confronti delle parti opponenti la cosiddetta maxi-sanzione per il lavoro nero prevista dall’art. 3, comma 3, del decreto-legge 22 febbraio 2002, n. 12 (Disposizioni urgenti per il completamento delle operazioni di emersione di attività detenute all’estero e di lavoro irregolare), convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2002, n. 73.
Dopo avere ritenuto infondate le censure degli opponenti in ordine all’ordinanza-ingiunzione, il giudice a quo evidenzia che, nel caso in esame, essendo provato lo svolgimento di lavoro in nero, sarebbe legittima l’applicazione della maxi-sanzione, vigente all’epoca della commissione dei fatti. L’ordinanza-ingiunzione dovrebbe, pertanto, essere confermata.
D’altra parte, andrebbe esclusa l’applicabilità della disciplina successivamente introdotta dall’art. 4, comma 1, lettera a), della legge 4 novembre 2010, n. 183 (Deleghe al Governo in materia di lavori usuranti, di riorganizzazione di enti, di congedi, aspettative e permessi, di ammortizzatori sociali, di servizi per l’impiego, di incentivi all’occupazione, di apprendistato, di occupazione femminile, nonché misure contro il lavoro sommerso e disposizioni in tema di lavoro pubblico e di controversie di lavoro), da qualificarsi come più mite rispetto a quella vigente all’epoca dei fatti.
Essa prevede, in particolare, sia la riduzione della cornice edittale della sanzione nel caso in cui «il lavoratore risulti regolarmente occupato per un periodo lavorativo successivo» (comma 3 dell’art. 3 del citato d.l. n. 12 del 2002, come sostituito: cosiddetto ravvedimento operoso), sia l’elisione totale delle sanzioni «qualora, dagli adempimenti di carattere contributivo precedentemente assolti, si evidenzi comunque la volontà di non occultare il rapporto, anche se trattasi di differente qualificazione» (comma 4, nel testo sostituito).
Tuttavia, l’applicazione di tale disciplina di minor rigore – sopravvenuta rispetto alla commissione dei fatti – non sarebbe possibile, poiché l’art. 1 della legge n. 689 del 1981 non contempla, in materia di sanzioni amministrative, la retroattività del trattamento sanzionatorio più favorevole. Tale disposizione, infatti, prevede che nessuno possa essere assoggettato a sanzioni amministrative se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima della commissione della violazione, ma non contiene il precetto dell’applicazione della legge successiva più favorevole all’autore della violazione, contenuto, invece, per le sanzioni penali, nell’art. 2, comma 2, del codice penale. Di qui, la rilevanza della questione.
Quanto alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo è consapevole delle pronunce con le quali, in passato, la Corte ha escluso che l’applicazione retroattiva della lex mitior in materia di sanzioni amministrative sia costituzionalmente necessitata (ordinanze n. 245 del 2003 e n. 501 del 2002). Ad avviso del rimettente, tuttavia, tale soluzione potrebbe essere rimeditata alla luce delle esigenze di conformità dell’ordinamento agli obblighi derivanti dall’adesione alla CEDU, come interpretati dalla recente giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo.
A questo proposito, se considerata nel sistema della CEDU, la sanzione amministrativa in esame potrebbe essere qualificata come «penale».
Osserva il giudice a quo che la Corte di Strasburgo, da tempo risalente, ha ritenuto di natura «penale» – ai fini dell’applicazione delle garanzie dell’equo processo (art. 6 della CEDU) – anche sanzioni formalmente qualificate come amministrative negli ordinamenti degli Stati che aderiscono alla CEDU, in base ai criteri (tra loro alternativi e non cumulativi) della natura del precetto violato e della gravità della sanzione.
In particolare, secondo la Corte europea dei diritti dell’uomo, una sanzione – ancorché qualificata come amministrativa nell’ordinamento nazionale – deve essere ritenuta di natura «penale» ai sensi della CEDU, ove la norma che la commina sia rivolta alla generalità dei consociati e persegua uno scopo preventivo, repressivo e punitivo e non meramente risarcitorio, nonché laddove la sanzione suscettibile di essere inflitta comporti per l’autore dell’illecito un significativo sacrificio, anche di natura meramente economica, non consistente nella privazione della libertà personale.
Vengono richiamate, a questo riguardo, le sentenze 27 settembre 2011, Menarini contro Italia, e 4 marzo 2014, Grande Stevens, ed altri contro Italia, nelle quali la Corte europea dei diritti dell’uomo ha ritenuto di natura «penale», ai sensi dell’art. 6 della CEDU, rispettivamente le sanzioni amministrative in materia di concorrenza (art. 15 della legge 10 ottobre 1990, n. 287 ‒ Norme per la tutela della concorrenza e del mercato) e le sanzioni amministrative in materia di manipolazione del mercato (art. 187-ter del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 ‒ Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, ai sensi degli articoli 8 e 21 della legge 6 febbraio 1996, n. 52).
Il giudice a quo ritiene che – alla luce della giurisprudenza della Corte europea – anche la maxi-sanzione per il lavoro nero debba qualificarsi come «penale». Infatti, la disposizione che la prevede, oltre ad essere rivolta alla generalità dei consociati, perseguirebbe uno scopo non meramente risarcitorio, ma repressivo e preventivo rispetto al fenomeno del lavoro nero, in chiave di protezione dell’interesse, di rilevanza costituzionale (art. 38 Cost.), della tutela previdenziale del lavoro.
Si evidenzia, inoltre, che la sanzione astrattamente irrogabile può raggiungere un importo rilevante, essendo compresa tra € 1.500 ed € 12.000 per ciascun lavoratore irregolare e maggiorata di € 150 per ciascuna giornata di lavoro effettivo.
Dalla natura «penale», ai sensi della CEDU, della sanzione in esame discende, ad avviso del rimettente, l’applicabilità alla stessa del principio di legalità penale di cui all’art. 7 della CEDU. Detto principio – interpretato dalla Corte di Strasburgo nelle sentenze 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia, e 24 gennaio 2012, Mihai Toma contro Romania – include il principio di applicazione retroattiva, in favore del reo, del trattamento sanzionatorio più mite sopravvenuto rispetto alla commissione del fatto.
Ad avviso del giudice a quo, la natura di garanzia convenzionale del principio della retroattività della lex mitior, unitamente all’inclusione dell’illecito amministrativo e delle relative sanzioni nella materia penale ai sensi della CEDU, comporta il contrasto con l’art. 117 Cost. – per violazione dei parametri interposti rappresentati dagli artt. 6 e 7 della CEDU – dell’art. 1 della legge n. 689 del 1981 che non prevede, per le sanzioni amministrative, l’applicazione retroattiva della lex mitior.
Il Tribunale rimettente ritiene, inoltre, che la mancata previsione della retroattività del trattamento sanzionatorio più mite in materia di sanzioni amministrative sia in contrasto con l’art. 3 Cost. e con i principi di ragionevolezza e uguaglianza. Viene richiamata la sentenza n. 393 del 2006, in cui la Corte ha chiarito che la retroattività della legge più favorevole, pur non essendo prevista espressamente dalla Costituzione (a differenza dell’irretroattività della legge sfavorevole), nemmeno in ambito penale, va comunque considerata espressione di un principio generale dell’ordinamento, legato ai principi di materialità e offensività della violazione, dovendosi adeguare la sanzione alle eventuali modificazioni della percezione della gravità degli illeciti da parte dell’ordinamento giuridico.
Il rimettente sottolinea che in tale pronuncia la Corte ha affermato che, sebbene il principio dell’applicazione retroattiva della lex mitior non sia assoluto, a differenza di quello di cui all’art. 2, primo comma, cod. pen. (e dell’art. 25, secondo comma, Cost.), tuttavia la sua deroga deve essere giustificata da gravi motivi di interesse generale (sentenze n. 236 del 2011 e n. 393 del 2006), superando a questi fini un vaglio positivo di ragionevolezza, e non un mero vaglio negativo di non manifesta irragionevolezza.
Devono cioè essere positivamente individuati gli interessi superiori, di rango almeno pari a quello del principio in discussione, che ne giustifichino il sacrificio. Tuttavia, nel caso in esame, non sarebbero ravvisabili motivi tali da legittimare il sacrificio del trattamento più favorevole, come dimostrerebbe anche la considerazione che, in altri settori, il legislatore ha recentemente introdotto norme ispirate al principio di cui all’art. 2, commi secondo e quarto, cod. pen.
Vengono richiamati, in particolare, l’art. 23-bis del d.P.R. 31 marzo 1988, n. 148 (Approvazione del testo unico delle norme di legge in materia valutaria), come inserito dall’art. 1, comma 2, della legge 7 novembre 2000, n. 326 (Modifiche al testo unico approvato con decreto del Presidente della Repubblica 31 marzo 1988, n. 148, in materia di sanzioni per le violazioni valutarie); l’art. 3 del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 472 (Disposizioni generali in materia di sanzioni amministrative per le violazioni di norme tributarie, a norma dell’articolo 3, comma 133, della legge 23 dicembre 1996, n. 662); l’art. 46 del decreto legislativo 13 aprile 1999, n. 112 (Riordino del servizio nazionale della riscossione, in attuazione della delega prevista dalla legge 28 settembre 1998, n. 337); l’art. 3 del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231 (Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica, a norma dell’articolo 11 della legge 29 settembre 2000, n. 300).
Sebbene si tratti di settori speciali, non sussisterebbe, ad avviso del giudice a quo, una differenza ontologica tra gli illeciti amministrativi oggetto delle norme citate e la disciplina generale della legge n. 689 del 1981, né sarebbero rinvenibili motivi di interesse generale tali da giustificare il diverso trattamento. Viene quindi denunciata la violazione dell’art. 3 Cost., anche per ciò che riguarda il principio di uguaglianza, assumendo come tertia comparationis le disposizioni delle leggi speciali sopra richiamate.
Il giudice a quo evidenzia, infine, che il denunciato contrasto non possa essere risolto attraverso un’interpretazione conforme alla CEDU e ai parametri costituzionali, in quanto esiste una consolidata giurisprudenza di legittimità (tale da costituire diritto vivente), che in più occasioni ha ribadito la non applicabilità del principio della retroattività della lex mitior al settore degli illeciti amministrativi. Tale impostazione si fonda sul rifiuto di un’applicazione analogica dell’art. 2, secondo comma, cod. pen., anche alla luce dell’art. 14 delle disposizioni sulla legge in generale, e sulla considerazione dei casi nei quali opera il principio della retroattività della lex mitior come casi settoriali, non estensibili oltre il loro ristretto ambito di applicazione.
3.− L’ordinanza di rimessione è stata ritualmente notificata alla Presidenza del Consiglio dei ministri, presso l’Avvocatura generale dello Stato, la quale tuttavia ha omesso qualsiasi attività processuale nell’ambito del presente giudizio.
Considerato in diritto
1.− Il Tribunale ordinario di Como, con ordinanza emessa il 27 marzo 2015, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale).
La disposizione in esame, intitolata «Principio di legalità», prevede che «Nessuno può essere assoggettato a sanzioni amministrative se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima della commissione della violazione. Le leggi che prevedono sanzioni amministrative si applicano soltanto nei casi e per i tempi in esse considerati».
Essa viene censurata nella parte in cui non prevede l’applicazione della legge successiva più favorevole agli autori degli illeciti amministrativi.
Viene denunciata, in particolare, la violazione degli artt. 3 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 6 e 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848.
2.− Giova esaminare, in primo luogo, la questione di legittimità costituzionale sollevata in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., secondo l’ordine di priorità logica che nel caso in esame riveste l’accertamento della compatibilità rispetto al parametro sovranazionale.
3.− La questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 della legge n. 689 del 1981, sollevata in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost. non è fondata.
3.1.− Ad avviso del giudice a quo, la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 6 e 7 della CEDU, risiederebbe nel contrasto della disposizione censurata con il principio di retroattività della norma più favorevole, principio applicabile anche alle sanzioni amministrative. Vengono richiamate, in particolare le sentenze della Corte di Strasburgo del 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia, e del 24 gennaio 2012, Mihai Toma contro Romania.
3.2.− In particolare, nella prima di tali pronunce la Grande Camera, mutando il proprio precedente e consolidato orientamento, ha ammesso che «l’art. 7 § 1 della Convenzione non sancisce solo il principio della irretroattività delle leggi penali più severe, ma anche, e implicitamente, il principio della retroattività della legge penale meno severa», traducendosi «nella norma secondo cui, se la legge penale in vigore al momento della perpetrazione del reato e le leggi penali posteriori adottate prima della pronuncia di una sentenza definitiva sono diverse, il giudice deve applicare quella le cui disposizioni sono più favorevoli all’imputato».
Come è noto, il nuovo orientamento è stato ribadito nella successiva decisione del 27 aprile 2010, Morabito contro Italia, in cui la Corte europea ha affermato che «le disposizioni che definiscono le infrazioni e le pene» sottostanno a «delle regole particolari in materia di retroattività, che includono anche il principio di retroattività della legge penale più favorevole» all’imputato. In questa occasione è stato, peraltro, sottolineato che l’art. 7 riguarda solamente le norme penali sostanziali, e in particolare le disposizioni che influiscono sull’entità della pena da infliggere.
Infine, nella decisione del 24 gennaio 2012, Mihai Toma contro Romania, la Corte ha ritenuto che l’art. 7 della CEDU imponga la necessità che l’illecito sia chiaramente descritto dalla legge, che la legge sia «predictable and foreseeable» e che sancisca sia l’irretroattività di disposizioni penali sfavorevoli, sia la retroattività di norme penali più miti.
3.3.− Tali principi, costituenti l’interpretazione della Convenzione fornita dalla Corte di Strasburgo, non possono essere disattesi: ed invero «le norme della CEDU […] devono essere applicate nel significato loro attribuito dalla Corte europea dei diritti dell’uomo» (sentenze n. 236, n. 113 e n. 1 del 2011, n. 93 del 2010, n. 311 e n. 239 del 2009, n. 39 del 2008, n. 349 e n. 348 del 2007).
Spetta, peraltro, a questa Corte «valutare come ed in qual misura il prodotto dell’interpretazione della Corte europea si inserisca nell’ordinamento costituzionale italiano. La norma CEDU, nel momento in cui va ad integrare il primo comma dell’art. 117 Cost., da questo ripete il suo rango nel sistema delle fonti, con tutto ciò che segue, in termini di interpretazione e bilanciamento, che sono le ordinarie operazioni cui questa Corte è chiamata in tutti i giudizi di sua competenza» (sentenza n. 317 del 2009). «A questa Corte compete, insomma, di apprezzare la giurisprudenza europea consolidatasi sulla norma conferente, in modo da rispettarne la sostanza, ma con un margine di apprezzamento e di adeguamento che le consenta di tener conto delle peculiarità dell’ordinamento giuridico in cui la norma convenzionale è destinata a inserirsi (sentenza n. 311 del 2009)» (sentenza n. 236 del 2011).
3.4.− L’estensione del principio, di matrice convenzionale, della retroattività della legge successiva favorevole ha già formato oggetto di valutazione da parte di questa Corte, laddove è stato ritenuto che «Ancorché tenda ad assumere un valore generale e di principio, la sentenza pronunciata dalla Corte di Strasburgo nel caso Scoppola resta pur sempre legata alla concretezza della situazione che l’ha originata: la circostanza che il giudizio della Corte europea abbia ad oggetto un caso concreto e, soprattutto, la peculiarità della singola vicenda su cui è intervenuta la pronuncia devono, infatti, essere adeguatamente valutate e prese in considerazione da questa Corte, nel momento in cui è chiamata a trasporre il principio affermato dalla Corte di Strasburgo nel diritto interno e a esaminare la legittimità costituzionale di una norma per presunta violazione di quello stesso principio» (sentenza n. 236 del 2011).
3.5.− Con riferimento al caso in esame, va rilevato che – nell’affermare il principio della retroattività del trattamento sanzionatorio più mite – la giurisprudenza della Corte europea non ha mai avuto ad oggetto il sistema delle sanzioni amministrative complessivamente considerato, bensì singole e specifiche discipline sanzionatorie, ed in particolare quelle che, pur qualificandosi come amministrative ai sensi dell’ordinamento interno, siano idonee ad acquisire caratteristiche “punitive” alla luce dell’ordinamento convenzionale.
L’intervento additivo invocato dal rimettente risulta, quindi, travalicare l’obbligo convenzionale: esso è volto ad estendere la portata del principio della retroattività della lex mitior al complessivo sistema sanzionatorio amministrativo, finendo così per disattendere la necessità della preventiva valutazione della singola sanzione (qualificata “amministrativa” dal diritto interno) come “convenzionalmente penale”, alla luce dei cosiddetti criteri Engel (così denominati a partire dalla sentenza della Corte EDU, Grande Camera, 8 giugno 1976, Engel e altri contro Paesi Bassi e costantemente ripresi dalle successive sentenze in argomento); criteri, peraltro, la cui applicazione, al di là di quello della qualificazione giuridica, sarebbe facilitata da ulteriori precisazioni da parte della Corte europea o dei singoli ordinamenti nazionali nell’ambito del margine di apprezzamento e di adeguamento che è loro rimesso.
3.6.− In definitiva, non si rinviene nel quadro delle garanzie apprestato dalla CEDU, come interpretate dalla Corte di Strasburgo, l’affermazione di un vincolo di matrice convenzionale in ordine alla previsione generalizzata, da parte degli ordinamenti interni dei singoli Stati aderenti, del principio della retroattività della legge più favorevole, da trasporre nel sistema delle sanzioni amministrative.
Da ciò discende la non fondatezza della denunciata violazione degli obblighi internazionali, di cui all’art. 117, primo comma, Cost.
4.− Anche in riferimento all’art. 3 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 della legge n. 689 del 1981 non è fondata.
4.1.– Ad avviso del giudice a quo, la disposizione in esame si porrebbe in contrasto con i principi di uguaglianza e di ragionevolezza, poiché − a differenza di altre fattispecie previste in leggi speciali ed in mancanza di motivi di interesse generale tali da giustificare il diverso trattamento – verrebbe derogato il principio generale di retroattività della norma successiva più favorevole.
Il rimettente prospetta, dunque, la necessità di un intervento additivo volto ad estendere a tutto il sistema sanzionatorio amministrativo, in via generalizzata ed indifferenziata, il principio della retroattività della legge successiva favorevole.
4.2.− In riferimento all’art. 3 Cost., la costante giurisprudenza di questa Corte, richiamata dallo stesso rimettente, ha affermato che in materia di sanzioni amministrative non è dato rinvenire un vincolo costituzionale nel senso dell’applicazione in ogni caso della legge successiva più favorevole, rientrando nella discrezionalità del legislatore ‒ nel rispetto del limite della ragionevolezza ‒ modulare le proprie determinazioni secondo criteri di maggiore o minore rigore in base alle materie oggetto di disciplina (ordinanze n. 245 del 2003, n. 501 e n. 140 del 2002).
Quanto, inoltre, al differente e più favorevole trattamento riservato dal legislatore ad alcune sanzioni, ad esempio a quelle tributarie e valutarie, esso trova fondamento nelle peculiarità che caratterizzano le rispettive materie e non si presta, conseguentemente, a trasformarsi da eccezione a regola (ordinanze n. 245 del 2003, n. 501 e n. 140 del 2002). Tale impostazione risulta coerente non solo con il principio generale dell’irretroattività della legge (art. 11 delle preleggi), ma anche con il divieto di applicazione analogica di norme di carattere eccezionale (art. 14 delle preleggi).
4.3.− Nel caso in esame, la specialità della disciplina sanzionatoria di cui all’art. 3, comma 3, del d.l. n. 12 del 2002 è accentuata dall’applicabilità della disposizione di cui al secondo comma dell’art. 8 della legge n. 689 del 1981, intitolato «Più violazioni di disposizioni che prevedono sanzioni amministrative». Essa prevede che – per le sole violazioni in materia di previdenza ed assistenza obbligatorie ed in via derogatoria rispetto alla regola generale del cumulo materiale – si applichi il trattamento di maggior favore del cumulo giuridico (sanzione per la violazione più grave, aumentata fino al triplo) anche per le ipotesi di concorso materiale eterogeneo. Peraltro, al di fuori di tale particolare categoria di illeciti amministrativi, il concorso materiale di violazioni continua ad essere regolato dal criterio generale del cumulo materiale delle sanzioni.
Siffatto trattamento favorevole – specificamente applicabile in via derogatoria alle sole sanzioni in esame – sottolinea la peculiarità degli interessi tutelati e la natura eccezionale di tale disciplina, la quale non si presta ad una generalizzata trasposizione di principi maturati nell’ambito di settori diversi dell’ordinamento.
4.4.− Invero, la scelta legislativa dell’applicabilità della lex mitior limitatamente ad alcuni settori dell’ordinamento non può ritenersi in sé irragionevole.
A questo riguardo, va rilevato che la qualificazione degli illeciti, in particolare di quelli sanzionati in via amministrativa, in quanto espressione della discrezionalità legislativa si riflette sulla natura “contingente” e storicamente connotata dei relativi precetti. Essa giustifica, quindi, sul piano sistematico, la pretesa di potenziare l’effetto preventivo della comminatoria, eliminando per il trasgressore ogni aspettativa di evitare la sanzione grazie a possibili mutamenti legislativi.
Il limitato riconoscimento della retroattività in mitius, circoscritto ad alcuni settori dell’ordinamento, risponde, quindi, a scelte di politica legislativa in ordine all’efficacia dissuasiva della sanzione, modulate in funzione della natura degli interessi tutelati.
Tali scelte costituiscono espressione della discrezionalità del legislatore nel configurare il trattamento sanzionatorio per gli illeciti amministrativi e risultano quindi sindacabili da questa Corte solo laddove esse trasmodino nella manifesta irragionevolezza o nell’arbitrio, come avviene a fronte di sperequazioni sanzionatorie tra fattispecie omogenee non sorrette da alcuna ragionevole giustificazione.
4.5.− Va, infine, rilevato che un intervento come quello invocato dal rimettente, in quanto finalizzato alla generalizzata ed indiscriminata estensione del principio della lex mitior a tutto il sistema sanzionatorio amministrativo, risulta esorbitante dall’ambito della disciplina settoriale della quale il giudice a quo è chiamato a fare applicazione.
Inoltre, l’invocata declaratoria di illegittimità costituzionale sancirebbe il principio della retroattività della lex mitior per le sanzioni amministrative in maniera persino più ampia di quanto stabilito dall’art. 2 cod. pen., il quale fa salvo il limite del giudicato ed esclude dal proprio ambito di operatività le leggi eccezionali e temporanee.
Viene, in definitiva, sollecitata dal rimettente una nuova configurazione del complessivo trattamento sanzionatorio di tutti gli illeciti amministrativi, in un ambito in cui deve riconoscersi al legislatore un ampio margine di libera determinazione.
per questi motivi
La Corte Costituzionale
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 6 e 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848, dal Tribunale ordinario di Como, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 6 luglio 2016.