Sentenza della Corte costituzionale 3 luglio 2013, n. 202

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G.U. 24 luglio 2013, n. 30

Nel giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale, la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 5, co. 5, del d.lgs. 286/1998 (Disposizioni sull’ingresso, il soggiorno e l’allontanamento dal territorio dello Stato). La disposizione censurata consentiva agli stranieri presenti in Italia sulla base di un provvedimento di ricongiungimento familiare di godere di una tutela rafforzata che li preservava dall’applicazione automatica di misure che avrebbero potuto limitare la loro presenza sul territorio italiano, come nel caso di una condanna per determinati reati. La norma in questione, al contrario, escludeva dal godimento di tale tutela rafforzata gli stranieri che non avessero presentato un’istanza di ricongiungimento perché la famiglia si era formata in Italia. Per la Corte, ciò determinava un’irragionevole disparità di trattamento che aveva come effetto quello di comprimere diritti fondamentali quali quello della tutela della famiglia e dei minori. In particolare, la Corte costituzionale ha ritenuto che l’illegittimità della disposizione censurata dovesse essere rilevata per violazione dell’art. 8 della CEDU inerente il diritto al rispetto della vita privata e familiare, come applicato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo e quale norma interposta in riferimento all’art. 117 Cost. Ciò sulla base di una valutazione “sistemica e non frazionata dei diritti fondamentali” tesa ad assicurare “la massima espansione delle garanzie” esistenti a livello costituzionale e sovranazionale.

Sentenza

nel giudizio di legittimità costituzionale degli articoli 5, comma 5, e 9 del decreto legislativo 25 luglio 1998 n. 286 (Disposizioni sull’ingresso, il soggiorno e l’allontanamento dal territorio dello Stato) promosso dal Tribunale amministrativo regionale per il Veneto, nel procedimento vertente tra S.B. e il Ministero dell’Interno ed altra, con ordinanza del 16 luglio 2012 iscritta al n. 223 del registro ordinanze 2012 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 41, prima serie speciale, dell’anno 2012.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 22 maggio 2013 il Giudice relatore Marta Cartabia.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza emessa il 14 giugno 2012 e depositata il 16 luglio 2012 (iscritta al n. 223 del registro ordinanze 2012), il Tribunale amministrativo regionale per il Veneto ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli articoli 5, comma 5, e 9 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Disposizioni sull’ingresso, il soggiorno e l’allontanamento dal territorio dello Stato), in relazione agli artt. 2, 3, 29, 30 e 31 della Costituzione, nonché all’art.117, primo comma, Cost. con riferimento all’art. 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 (Ratifica ed esecuzione della Convezione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, e del Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952), d’ora innanzi CEDU.

2.– Il Tribunale rimettente premette che la questione portata all’esame della Corte ha origine da un giudizio per l’annullamento del decreto emesso in data 2 aprile 2012 dal Questore di Venezia, con il quale è stata respinta l’istanza del ricorrente, cittadino di un Paese non appartenente all’Unione europea, volta ad ottenere il rinnovo del permesso di soggiorno per motivi di lavoro autonomo. Il provvedimento amministrativo di diniego è fondato su un giudizio di pericolosità sociale dell’istante desunto da una precedente espulsione disposta il 15 febbraio 1992, da un «deferimento» all’autorità giudiziaria per il reato di «appropriazione indebita», risalente all’anno 2006, e da una condanna in materia di stupefacenti, riportata in data 22 gennaio 2010 e relativa a fatti del 2002, per la quale pende ancora appello.

Il TAR ritiene che il giudizio di pericolosità sociale non possa ritenersi adeguatamente motivato, in considerazione della risalenza nel tempo dei fatti addebitati e dell’inerzia mantenuta in questi anni dalla pubblica amministrazione. Ciò nondimeno, l’automatismo ostativo al rinnovo del permesso di soggiorno – dovuto alla subìta condanna, anche se non definitiva, relativa a un reato in materia di stupefacenti – avrebbe ugualmente comportato, ai sensi degli artt. 4, comma 3, e 5, comma 4, del d.lgs. n. 286 del 1998, la reiezione del ricorso.

Infatti, simile automatismo ostativo alla permanenza sul territorio nazionale sarebbe escluso solo per i soggetti che si trovano nelle condizioni previste dagli artt. 5, comma 5, e 9 del citato d.lgs. n. 286 del 1998, per i quali soltanto la decisione sull’allontanamento dal territorio nazionale è subordinata a una valutazione discrezionale della pubblica amministrazione, che deve tenere conto della durata del soggiorno, del grado di inserimento dello straniero e dei suoi legami familiari.

2.1.– Più precisamente, l’art. 4, comma 3, del d.lgs. n. 286 del 1998 stabilisce che «Non è ammesso in Italia lo straniero che (…) risulti condannato, anche con sentenza non definitiva, compresa quella adottata a seguito di applicazione della pena su richiesta ai sensi dell’articolo 444 del codice di procedura penale, per reati previsti dall’articolo 380, commi 1 e 2, del codice di procedura penale ovvero per reati inerenti gli stupefacenti, la libertà sessuale, il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina verso l’Italia e dell’emigrazione clandestina dall’Italia verso altri Stati o per reati diretti al reclutamento di persone da destinare alla prostituzione o allo sfruttamento della prostituzione o di minori da impiegare in attività illecite. Impedisce l’ingresso dello straniero in Italia anche la condanna, con sentenza irrevocabile, per uno dei reati previsti dalle disposizioni del titolo III, capo III, sezione II, della legge 22 aprile 1941, n. 633, relativi alla tutela del diritto di autore, e degli articoli 473 e 474 del codice penale. Lo straniero per il quale è richiesto il ricongiungimento familiare, ai sensi dell’articolo 29, non è ammesso in Italia quando rappresenti una minaccia concreta e attuale per l’ordine pubblico o la sicurezza dello Stato o di uno dei Paesi con i quali l’Italia abbia sottoscritto accordi per la soppressione dei controlli alle frontiere interne e la libera circolazione delle persone».

L’art. 5, comma 5, del d.lgs. n. 286 del 1998, stabilisce poi che «Il permesso di soggiorno o il suo rinnovo sono rifiutati e, se il permesso di soggiorno è stato rilasciato, esso è revocato, quando mancano o vengono a mancare i requisiti richiesti per l’ingresso e il soggiorno nel territorio dello Stato, fatto salvo quanto previsto dall’articolo 22, comma 9, e sempre che non siano sopraggiunti nuovi elementi che ne consentano il rilascio e che non si tratti di irregolarità amministrative sanabili. Nell’adottare il provvedimento di rifiuto del rilascio, di revoca o di diniego di rinnovo del permesso di soggiorno dello straniero che ha esercitato il diritto al ricongiungimento familiare ovvero del familiare ricongiunto, ai sensi dell’articolo 29, si tiene anche conto della natura e della effettività dei vincoli familiari dell’interessato e dell’esistenza di legami familiari e sociali con il suo Paese d’origine, nonché, per lo straniero già presente sul territorio nazionale, anche della durata del suo soggiorno nel medesimo territorio nazionale».

L’art. 9 del medesimo decreto legislativo prevede, al comma 4, che «Il permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo non può essere rilasciato agli stranieri pericolosi per l’ordine pubblico o la sicurezza dello Stato. Nel valutare la pericolosità si tiene conto anche dell’appartenenza dello straniero ad una delle categorie indicate nell’articolo 1 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423, come sostituito dall’articolo 2 della legge 3 agosto 1988, n. 327, o nell’articolo 1 della legge 31 maggio 1965, n. 575, come sostituito dall’articolo 13 della legge 13 settembre 1982, n. 646, ovvero di eventuali condanne anche non definitive, per i reati previsti dall’articolo 380 del codice di procedura penale, nonché, limitatamente ai delitti non colposi, dall’articolo 381 del medesimo codice. Ai fini dell’adozione di un provvedimento di diniego di rilascio del permesso di soggiorno di cui al presente comma il questore tiene conto altresì della durata del soggiorno nel territorio nazionale e dell’inserimento sociale, familiare e lavorativo dello straniero». Il successivo comma 11 dello stesso art. 9 stabilisce, inoltre, che: «Ai fini dell’adozione del provvedimento di espulsione di cui al comma 10, si tiene conto anche dell’età dell’interessato, della durata del soggiorno sul territorio nazionale, delle conseguenze dell’espulsione per l’interessato e i suoi familiari, dell’esistenza di legami familiari e sociali nel territorio nazionale e dell’assenza di tali vincoli con il Paese di origine».

Secondo il Tribunale rimettente, il tenore formale delle citate disposizioni e la loro interpretazione sistematica, alla luce delle direttive europee di cui costituiscono recepimento – direttiva del Consiglio 22 settembre 2003, n. 2003/86/CE (Direttiva del Consiglio relativa al ricongiungimento familiare) e direttiva del Consiglio 25 novembre 2003, n. 2003/109/CE (Direttiva del Consiglio relativa allo status dei cittadini di Paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo) – non consentono di estendere simile tutela rafforzata contro l’allontanamento a favore di quei soggetti che, come il ricorrente, verserebbero nelle condizioni sostanziali per ottenerla, ma non hanno svolto, o non sono stati in grado di svolgere, gli adempimenti formali necessari.

In particolare, in ordine al possesso dei requisiti sostanziali per ottenere la tutela rafforzata contro l’espulsione, il TAR ha rimarcato che il ricorrente è presente sul territorio nazionale dal 1992, anno in cui ha contratto matrimonio con una cittadina italiana, dalla quale ha avuto un figlio, ancora minorenne al momento in cui la pubblica amministrazione si è pronunciata sull’istanza di rinnovo del permesso di soggiorno per motivi di lavoro autonomo. I coniugi si sono separati e hanno divorziato il 4 luglio 2007 e, nella sentenza di scioglimento del vincolo matrimoniale, è stato stabilito l’affidamento del minore alla madre e l’obbligo di mantenimento a carico del padre, con facoltà di visita. Successivamente, il ricorrente si è coniugato in Italia con una cittadina di un Paese non appartenente all’Unione europea, titolare di un permesso per soggiornanti di lungo periodo, dalla quale ha avuto due figli ancora minorenni.

2.2.– Il rimettente ha precisato, altresì, di non ignorare l’esistenza di alcune pronunce del Consiglio di Stato, che hanno applicato la tutela rafforzata contro l’allontanamento anche a soggetti privi dei requisiti formali, in forza di una interpretazione degli artt. 5 e 9 del d.lgs. n. 286 del 1998, asseritamente “conforme” all’art. 8 della CEDU.

Tuttavia, il TAR ha ritenuto che il tenore letterale delle disposizioni di cui agli artt. 5 e 9 del d.lgs. n. 286 del 1998 e la loro lettura sistematica alla luce delle citate direttive europee, non consentono in alcun modo una interpretazione conforme, di tal che l’operazione compiuta dal Consiglio di Stato equivale ad una sostanziale disapplicazione delle norme interne, ciò che il rimettente considera precluso dalla giurisprudenza costituzionale interna in materia di rapporti con la CEDU.

Pertanto il TAR ritiene che debba essere sollevata questione di legittimità costituzionale delle citate disposizioni e, dopo aver dato atto di aver già accolto la domanda cautelare del ricorrente, ha sospeso il giudizio in attesa della decisione di questa Corte, cui ha trasmesso gli atti.

3.– Quanto alla non manifesta infondatezza della sollevata questione di legittimità costituzionale, il rimettente osserva, anzitutto, che la mancata estensione della tutela rafforzata contro l’allontanamento, quale prevista dagli artt. 5 e 9 del citato decreto, a chi non abbia presentato un’istanza di ricongiungimento perché la famiglia si è formata in Italia, violerebbe i principi di uguaglianza e di proporzionalità di cui all’art. 3 Cost., perché discrimina tra situazioni identiche dal punto di vista sostanziale, ledendo i diritti fondamentali degli stranieri e dei loro familiari per una ragione di carattere meramente formale, consistente nella mancata presentazione di un’istanza amministrativa.

Inoltre, il TAR ritiene che l’ingerenza pubblica nella vita familiare, giustificata dal solo mancato espletamento di una formalità, violerebbe l’art. 8 della CEDU, nella interpretazione datane dalla Corte di Strasburgo e, quindi, l’art. 117, primo comma, Cost.

Infine, irragionevole e sproporzionato ex art. 3 Cost. risulterebbe il sacrificio dei diritti inviolabili dell’uomo ex art. 2 Cost., dei diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio ex art. 29 Cost., del diritto e dovere dei genitori di istruire ed educare i figli ex art. 30 Cost. e del principio di cui all’art. 31 Cost., che dispone che la Repubblica agevola la formazione delle famiglie proteggendo l’infanzia e la gioventù.

4.– Con atto depositato in data 6 novembre 2012, il Presidente del Consiglio dei ministri è intervenuto nel giudizio, chiedendo che la sollevata questione di legittimità costituzionale venga dichiarata manifestamente inammissibile o non fondata.

4.1.– In primo luogo, la difesa dello Stato eccepisce il difetto di rilevanza della questione nel giudizio a quo. Invero, secondo la difesa erariale, il caso di specie rientrerebbe nelle ipotesi di mantenimento del diritto di soggiorno da parte dei familiari in caso di divorzio e di annullamento del matrimonio, quale previsto dall’art. 12 del decreto legislativo 6 febbraio 2007, n. 30 (Attuazione della direttiva 2004/38/CE relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri), in vigore al momento dell’adozione del provvedimento amministrativo impugnato. Conseguentemente la disciplina applicabile al caso di specie sarebbe quella stabilita dall’art. 20 del d.lgs. n. 30 del 2007, che non richiede alcun «automatismo espulsivo» e implica, viceversa, una valutazione discrezionale dei comportamenti individuali.

In particolare l’art. 12 del d.lgs. citato prevede al comma 2 che «il divorzio e l’annullamento del matrimonio con il cittadino dell’Unione non comportano la perdita del diritto di soggiorno dei familiari del cittadino dell’Unione non aventi la cittadinanza di uno Stato membro a condizione che essi abbiano acquisito il diritto al soggiorno permanente di cui all’articolo 14 o che si verifichi una delle seguenti condizioni: a) il matrimonio è durato almeno tre anni, di cui almeno un anno nel territorio nazionale, prima dell’inizio del procedimento di divorzio o annullamento; b) il coniuge non avente la cittadinanza di uno Stato membro ha ottenuto l’affidamento dei figli del cittadino dell’Unione in base ad accordo tra i coniugi o a decisione giudiziaria; c) l’interessato risulti parte offesa in procedimento penale, in corso o definito con sentenza di condanna, per reati contro la persona commessi nell’ambito familiare; d) il coniuge non avente la cittadinanza di uno Stato membro beneficia, in base ad un accordo tra i coniugi o a decisione giudiziaria, di un diritto di visita al figlio minore, a condizione che l’organo giurisdizionale ha ritenuto che le visite devono obbligatoriamente essere effettuate nel territorio nazionale, e fino a quando sono considerate necessarie».

Il successivo art. 20 stabilisce, poi, al comma 4 che: «I provvedimenti di allontanamento sono adottati nel rispetto del principio di proporzionalità e non possono essere motivati da ragioni di ordine economico, né da ragioni estranee ai comportamenti individuali dell’interessato che rappresentino una minaccia concreta, effettiva e sufficientemente grave all’ordine pubblico o alla pubblica sicurezza. L’esistenza di condanne penali non giustifica di per sé l’adozione di tali provvedimenti», mentre il comma 5 precisa altresì che: «Nell’adottare un provvedimento di allontanamento, si tiene conto della durata del soggiorno in Italia dell’interessato, della sua età, della sua situazione familiare e economica, del suo stato di salute, della sua integrazione sociale e culturale nel territorio nazionale e dell’importanza dei suoi legami con il Paese di origine».

4.2.– In ogni caso, ad avviso dell’Avvocatura generale dello Stato, la questione sarebbe infondata, non essendo condivisibile la ricostruzione del quadro normativo effettuata dal rimettente. Infatti, il testo unico consente il rilascio del permesso di soggiorno per motivi familiari anche quando la famiglia si è costituita in Italia e, pertanto, in forza di una lettura sistematica dell’art. 5, comma 5, del d.lgs. n. 286 del 1998, deve escludersi che la tutela rafforzata contro l’allontanamento si rivolga esclusivamente a chi ha espletato la procedura amministrativa per il ricongiungimento familiare. Al contrario, lo straniero che si trovi regolarmente sul territorio dello Stato e che sia nelle condizioni per ottenere un permesso di soggiorno per motivi familiari, potrà essere allontanato solo con provvedimento che motivi la prevalenza delle esigenze di pubblica sicurezza su quelle dell’unità familiare e senza alcun automatismo. Nessuna lesione, quindi, degli invocati diritti fondamentali potrebbe considerarsi determinata dalla disciplina in vigore.

Quanto poi ai soggiornanti di lungo periodo, le condizioni previste dalla legge implicano uno scrutinio della condotta dell’istante, che non consente di ravvisare a priori una uguaglianza sostanziale che giustifichi il beneficio di una tutela rafforzata contro l’allontanamento anche in capo a coloro che non hanno espletato il relativo procedimento amministrativo, di tal che nessuna ingiustificata disparità di trattamento potrebbe ravvisarsi nella specie.

Considerato in diritto

1.– Con l’ordinanza indicata in epigrafe il Tribunale amministrativo regionale per il Veneto ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli articoli 5, comma 5, e 9 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Disposizioni sull’ingresso, il soggiorno e l’allontanamento dal territorio dello Stato), in relazione agli artt. 2, 3, 29, 30 e 31 della Costituzione, nonché all’art. 117, primo comma, Cost., con riferimento all’art. 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 (Ratifica ed esecuzione della Convezione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, e del Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952), d’ora innanzi CEDU.

1.1.– Il giudice rimettente, chiamato a decidere della legittimità di un provvedimento amministrativo di diniego del rinnovo del permesso di soggiorno per motivi di lavoro autonomo, osserva, anzitutto, che l’automatismo ostativo alla permanenza sul territorio nazionale del condannato, anche in via non definitiva, per alcuni reati, fra i quali quelli in materia di stupefacenti, disposto in generale dall’art. 4, comma 3, del d.lgs. n. 286 del 1998, è escluso, in via di eccezione, nelle ipotesi previste dai successivi artt. 5, comma 5, e 9, rispettivamente per coloro che hanno esercitato il diritto al ricongiungimento familiare e per coloro che richiedono un permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo. In tali casi eccezionali, infatti, è prevista una valutazione discrezionale della pericolosità attuale dello straniero da parte della pubblica amministrazione, che deve tenere conto di elementi quali la durata del soggiorno, il grado di inserimento sociale e lavorativo dello straniero e i suoi legami familiari, senza che l’autorità amministrativa possa, in tali ipotesi eccezionali, rifiutare il permesso di soggiorno o il suo rinnovo automaticamente per il solo fatto dell’intervenuta condanna.

Secondo il giudice a quo, il ricorrente si troverebbe nelle condizioni sostanziali per ottenere, sia il ricongiungimento familiare, sia il permesso CE di lungo soggiorno, ma non avendo presentato le relative istanze e non avendo, quindi, esercitato i relativi diritti, né ottenuto i relativi provvedimenti, non rientra nelle eccezioni previste dal legislatore e dovrebbe, perciò, essere assoggettato all’automatismo ostativo al rinnovo del permesso di soggiorno, in forza della subita condanna.

Di qui, secondo il TAR rimettente, deriverebbe la non manifesta infondatezza della questione di legittimità degli artt. 5, comma 5, e 9 del d.lgs. n. 286 del 1998, nella parte in cui non estendono le eccezioni ivi stabilite a coloro che si trovano nelle condizioni sostanziali per ottenere il ricongiungimento familiare o il permesso di soggiorno di lungo periodo, ma non hanno richiesto i relativi provvedimenti: tale disciplina, infatti, determinerebbe una irragionevole disparità di trattamento di situazioni consimili, con una illegittima compromissione della tutela della famiglia e dei minori, quale garantita dalla Costituzione ai sensi degli artt. 2, 3, 29, 30 e 31 Cost. e dall’art. 8 della CEDU come applicato dalla Corte di Strasburgo, integrante il parametro di cui all’art. 117, primo comma, Cost., specie in casi, come quello di specie, in cui vi sia stata una prolungata inerzia della pubblica amministrazione a fronte della patita condanna.

1.2– Quanto alla rilevanza, il TAR afferma che, in caso di accoglimento della sollevata questione, si dovrebbe pervenire all’accoglimento del ricorso nel procedimento a quo, dovendosi, nel caso di specie, ritenere assente la pericolosità attuale, mentre il ricorso medesimo sarebbe da respingersi ove la Corte costituzionale ritenesse non illegittime le norme impugnate e dovesse, quindi, operare l’automatismo previsto dalla legge.

2.– Occorre preliminarmente esaminare l’eccezione di inammissibilità per difetto di rilevanza, sollevata dall’Avvocatura dello Stato, in considerazione del fatto che nel caso di specie sarebbero applicabili gli artt. 12 e 20 del decreto legislativo 6 febbraio 2007, n. 30 (Attuazione della direttiva 2004/38/CE relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri) – il cui contenuto sarebbe tale da salvaguardare i diritti di cui si è denunciata la compromissione – invece delle disposizioni del d.lgs. n. 286 del 1998 impugnate dal rimettente.

Deve, tuttavia, rilevarsi che l’art. 12 citato si limita a prevedere che lo straniero non perde il diritto di soggiorno per il solo fatto di aver divorziato da un cittadino dell’Unione europea, senza però stabilire a quali condizioni egli abbia diritto a soggiornare sul territorio dello Stato; l’art. 20 del medesimo testo normativo, poi, disciplina non il “rinnovo” del permesso di soggiorno, ma il provvedimento di “allontanamento” dal territorio dello Stato. In entrambi i casi si tratta, quindi, di disposizioni che non riguardano, evidentemente, il procedimento pendente dinanzi al TAR.

A ciò si aggiunga che, in base alle disposizioni del d.lgs. n. 30 del 2007 richiamato dall’Avvocatura generale, il coniuge di cittadino italiano (o di altro Stato membro dell’Unione europea), dopo aver trascorso nel territorio dello Stato i primi tre mesi di soggiorno informale, è tenuto a richiedere la carta di soggiorno ai sensi dell’art. 10 dello stesso d.lgs. n. 30 del 2007 e, sino a che non ottenga detto titolo, avente valore costitutivo per l’esercizio dei diritti nell’Unione europea, o in assenza di tale richiesta, la sua condizione di soggiornante rimane regolata dal testo unico sull’immigrazione (ex plurimis sentenza della Corte di cassazione civile n.17346 del 2010) e, quindi, proprio dalle disposizioni del predetto d.lgs. n. 286 del 1998, impugnate dal rimettente.

Sono, quindi, le disposizioni del d.lgs. n. 30 del 2007, indicate dalla difesa statale, ad essere irrilevanti al fine del decidere nel procedimento a quo, mentre il rimettente ha correttamente ritenuto applicabile la disciplina contenuta nel t.u. sull’immigrazione.

3.– Più specificamente, il giudice a quo ha plausibilmente motivato sulla rilevanza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 5, del d.lgs. n.286 del 1998; viceversa, deve ritenersi inammissibile la questione sollevata con riferimento all’art 9 del medesimo testo unico.

Infatti, il TAR Veneto, dovendo pronunciarsi su una richiesta di annullamento di un provvedimento di diniego del rinnovo del permesso di soggiorno per lavoro autonomo, è chiamato ad applicare l’art. 5, comma 3, che richiama l’art. 4, comma 3, del d.lgs. n. 286 del 1998.

In riferimento a dette disposizioni, il rimettente non reputa illegittimo in generale l’automatismo ostativo al rilascio e al rinnovo del permesso di soggiorno previsto dal citato art. 4, comma 3, in ipotesi di condanna, per determinati reati, del cittadino non appartenente all’Unione europea. Consapevole delle ragioni in base alle quali la Corte costituzionale ha ritenuto non manifestamente irragionevole condizionare l’ingresso e la permanenza dello straniero nel territorio italiano alla circostanza della mancata commissione di reati di non scarso rilievo, il TAR non censura l’art. 4, comma 3, del d.lgs. n. 286 del 1998 in sé e per sé considerato. Piuttosto, secondo l’ordinanza di rimessione, sarebbero costituzionalmente illegittime, in quanto troppo restrittive e subordinate ad adempimenti meramente formali, le eccezioni all’automatismo ostativo di cui al citato art. 4, comma 3, contenute in altre disposizioni del medesimo testo normativo.

La prima, disposta dall’art. 5, comma 5, esclude ogni automatismo nei confronti di coloro che abbiano «esercitato il diritto al ricongiungimento familiare» ovvero nei confronti dei familiari ricongiunti: nei loro riguardi, nell’adottare il provvedimento di rifiuto del rilascio, oppure quello di revoca o di diniego di rinnovo del permesso di soggiorno «si tiene anche conto della natura e della effettività dei vincoli familiari dell’interessato e dell’esistenza di legami familiari e sociali con il suo Paese d’origine, nonché, per lo straniero già presente sul territorio nazionale, anche della durata del suo soggiorno nel medesimo territorio nazionale». In proposito, il giudice a quo lamenta che tale eccezione all’automatismo non si estenda a coloro che, pur trovandosi nelle condizioni sostanziali per ottenere il ricongiungimento familiare, non abbiano attivato le relative procedure formali.

La seconda eccezione, prevista dall’art. 9 del d.lgs. n. 286 del 1998, esclude l’applicazione di ogni automatismo ex art. 4, comma 3, alle richieste di permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo, il cui rilascio è subordinato a una valutazione in concreto della pericolosità dello straniero richiedente, da effettuarsi alla luce di una serie di circostanze, tra cui «la durata del soggiorno nel territorio nazionale e dell’inserimento sociale, familiare e lavorativo dello straniero».

In ordine a questa seconda disposizione – prevista dall’art. 9, d.lgs. n. 286 del 1998 – occorre però osservare che, dovendo il TAR decidere, nel giudizio a quo, sulla legittimità di un provvedimento di diniego del rinnovo del permesso di soggiorno per motivi di lavoro autonomo, disciplinato dall’art. 5 del d.lgs. n. 286 del 1998, essa non può trovare applicazione nel caso di specie. In altri termini: poiché il procedimento pendente davanti al TAR riguarda un permesso di soggiorno per lavoro autonomo e non un permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo, l’unica eccezione al citato automatismo ostativo suscettibile di trovare applicazione è quella contemplata all’art. 5, comma 5, del d.lgs. n. 286 del 1998, che stabilisce in generale le condizioni per il rilascio, il rifiuto o la revoca del permesso di soggiorno e che, in questo ambito, prevede una valutazione discrezionale di pericolosità in concreto solo per gli stranieri che abbiano esercitato il diritto al ricongiungimento familiare ovvero dei loro familiari ricongiunti.

Pertanto, la questione di legittimità costituzionale sollevata in riferimento all’art. 9 del d.lgs. n. 286 del 1998 deve dichiararsi inammissibile per difetto di rilevanza nel giudizio a quo.

Deve, invece, respingersi l’eccezione di inammissibilità per difetto di rilevanza formulata dalla difesa dello Stato, limitatamente alla questione di legittimità proposta in riferimento all’art. 5, comma 5, del decreto citato, in ordine alla quale, dunque deve essere circoscritto il presente giudizio.

4.– Nel merito, la questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto l’art. 5, comma 5, del d.lgs. n. 286 del 1998, è fondata.

4.1.– La disposizione impugnata prevede che nell’adottare il provvedimento di rifiuto, revoca o diniego di rinnovo del permesso di soggiorno «dello straniero che ha esercitato il diritto al ricongiungimento familiare, ovvero del familiare ricongiunto» si tiene conto anche della natura e dell’effettività dei vincoli familiari dell’interessato e dell’esistenza di legami familiari e sociali con il suo Paese di origine, nonché della durata del suo soggiorno nel territorio italiano. In tal modo, gli stranieri che sono presenti in Italia in virtù di un provvedimento di ricongiungimento familiare possono godere di una tutela rafforzata, che li pone al riparo dall’applicazione automatica di misure capaci di compromettere la loro permanenza nel territorio, in caso di condanna per i reati indicati dall’art. 4, comma 3, del t.u. sull’immigrazione.

Tale tutela rafforzata, che impone all’amministrazione di valutare in concreto la situazione dell’interessato, tenendo conto tanto della sua pericolosità per la sicurezza e l’ordine pubblico, quanto della durata del suo soggiorno e dei suoi legami familiari e sociali, non si estende – secondo quanto disposto dall’art. 5, comma 5 – nei confronti di coloro che, pur trovandosi nelle condizioni sostanziali per ottenere il ricongiungimento familiare, non hanno fatto richiesta del relativo provvedimento formale e, dunque, non hanno «esercitato il diritto al ricongiungimento familiare» ai sensi della disposizione impugnata. Nei loro confronti, pertanto, si dovrebbe applicare un automatismo, che impone alla pubblica autorità di procedere senz’altro al rifiuto del rilascio, alla revoca o al diniego del rinnovo del permesso di soggiorno, qualora i richiedenti risultino condannati, con sentenza anche non definitiva, per i reati previsti dall’art. 4, comma 3, del d.lgs. n. 286 del 1998.

4.2.– Oggetto del presente giudizio è proprio l’esclusione dal campo di applicazione della tutela rafforzata di cui all’art. 5, comma 5, del t.u. sull’immigrazione, di coloro che, pur avendone i requisiti, non hanno esercitato il loro diritto al ricongiungimento familiare. L’impossibilità di annoverare tra i beneficiari di tale tutela rafforzata tutti coloro che vivono in Italia con una famiglia, indipendentemente dal tipo di permesso di soggiorno di cui dispongono, determina, come prospettato dal giudice rimettente, una irragionevole disparità di trattamento di situazioni consimili, con una illegittima compromissione di diritti fondamentali legati alla tutela della famiglia e dei minori, in violazione sia degli artt. 2, 3, 29, 30 e 31 Cost., sia dell’art. 8 della CEDU come applicato dalla Corte di Strasburgo, integrante il parametro di cui all’art. 117, primo comma, Cost.

4.3.– Occorre anzitutto ricordare che questa Corte ha costantemente affermato che al legislatore è riconosciuta un’ampia discrezionalità nella regolamentazione dell’ingresso e del soggiorno dello straniero nel territorio nazionale, in considerazione della pluralità degli interessi che tale regolazione riguarda; peraltro, si deve altresì sottolineare che la medesima Corte ha regolarmente ribadito che tale discrezionalità legislativa non è assoluta, dovendo rispecchiare un ragionevole e proporzionato bilanciamento di tutti i diritti e gli interessi coinvolti, soprattutto quando la disciplina dell’immigrazione sia suscettibile di incidere sui diritti fondamentali, che la Costituzione protegge egualmente nei confronti del cittadino e del non cittadino (sentenze n. 172 del 2012, n. 245 del 2011, nn. 299 e 249 del 2010, n. 148 del 2008, n. 206 del 2006, n. 78 del 2005).

Nell’ambito di questa discrezionalità, il legislatore può anche prevedere casi in cui, di fronte alla commissione di reati di una certa gravità, ritenuti particolarmente pericolosi per la sicurezza e l’ordine pubblico, l’amministrazione sia tenuta a revocare o negare il permesso di soggiorno automaticamente e senza ulteriori considerazioni. Questa Corte ha già avuto modo di rimarcare che, in linea generale, statuizioni di tal genere non sono di per sé manifestamente irragionevoli «costituendo l’automatismo espulsivo un riflesso del principio di stretta legalità che permea l’intera disciplina dell’immigrazione e che costituisce, anche per gli stranieri presidio ineliminabile dei loro diritti, consentendo di scongiurare arbitrii da parte dell’autorità amministrativa» (sentenza n. 148 del 2008).

Ai sensi della giurisprudenza pregressa, dunque, la condanna per determinati reati di uno straniero non appartenente all’Unione europea ben può giustificare la previsione di un automatismo ostativo al rilascio o al rinnovo del permesso di soggiorno, ma occorre pur sempre che una simile previsione possa considerarsi rispettosa di un bilanciamento, ragionevole e proporzionato ai sensi dell’art. 3 Cost., tra l’esigenza, da un lato, di tutelare l’ordine pubblico e la sicurezza dello Stato e di regolare i flussi migratori e, dall’altro, di salvaguardare i diritti dello straniero, riconosciutigli dalla Costituzione (sentenza n. 172 del 2012).

Pertanto, questa Corte è chiamata a verificare che gli automatismi disposti dal legislatore rispecchino un ragionevole bilanciamento tra tutti gli interessi e i diritti di rilievo costituzionale coinvolti nella disciplina dell’immigrazione e non può esimersi dal censurare quelle disposizioni legislative che incidano in modo sproporzionato e irragionevole sui diritti fondamentali (sentenze n. 245 del 2011, n. 299 e n. 249 del 2010). Nell’ambito di tali valutazioni la Corte deve altresì considerare che gli automatismi procedurali, essendo basati su una presunzione assoluta di pericolosità, devono ritenersi arbitrari e perciò costituzionalmente illegittimi, se non rispondono a dati di esperienza generalizzati, quando cioè sia agevole – come nel caso in esame – formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta alla base della presunzione stessa (sentenze n. 57 del 2013, n. 172 e n. 110 del 2012, n. 231 del 2011, n. 265, n. 164 e n. 139 del 2010).

4.4.– Nel caso in esame, la disposizione impugnata delimita l’ambito di applicazione della tutela rafforzata, che permette di superare l’automatismo solo nei confronti dei soggetti che hanno fatto ingresso nel territorio in virtù di un formale provvedimento di ricongiungimento familiare, determinando così una irragionevole disparità di trattamento rispetto a chi, pur versando nelle condizioni sostanziali per ottenerlo, non abbia formulato istanza in tal senso. Simile restrizione viola l’art. 3 Cost. e reca un irragionevole pregiudizio ai rapporti familiari, che dovrebbero ricevere una protezione privilegiata ai sensi degli artt. 29, 30 e 31 Cost. e che la Repubblica è vincolata a sostenere, anche con specifiche agevolazioni e provvidenze, in base alle suddette previsioni costituzionali.

In particolare, la tutela della famiglia e dei minori assicurata dalla Costituzione implica che ogni decisione sul rilascio o sul rinnovo del permesso di soggiorno di chi abbia legami familiari in Italia debba fondarsi su una attenta ponderazione della pericolosità concreta e attuale dello straniero condannato, senza che il permesso di soggiorno possa essere negato automaticamente, in forza del solo rilievo della subita condanna per determinati reati. Nell’ambito delle relazioni interpersonali, infatti, ogni decisione che colpisce uno dei soggetti finisce per ripercuotersi anche sugli altri componenti della famiglia e il distacco dal nucleo familiare, specie in presenza di figli minori, è decisione troppo grave perché sia rimessa in forma generalizzata e automatica a presunzioni di pericolosità assolute, stabilite con legge, e ad automatismi procedurali, senza lasciare spazio ad un circostanziato esame della situazione particolare dello straniero interessato e dei suoi familiari.

In questo senso, la disposizione di cui all’art. 5, comma 5, d.lgs. n. 286 del 1998 contrasta con gli artt. 2, 3, 29, 30 e 31 Cost. nella parte in cui non estende la tutela rafforzata ivi prevista a tutti i casi in cui lo straniero abbia nello Stato legami familiari.

5.– Ad analoghe considerazioni conduce anche l’esame dell’art. 8 della CEDU, come applicato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, pure evocato a parametro interposto del presente giudizio, in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost.

La Corte di Strasburgo ha, infatti, sempre affermato (ex plurimis pronuncia 7 aprile 2009, Cherif e altri c. Italia) che la CEDU non garantisce allo straniero il diritto di entrare o risiedere in un determinato Paese, di tal che gli Stati mantengono il potere di espellere gli stranieri condannati per reati puniti con pena detentiva. Tuttavia, quando nel Paese dove lo straniero intende soggiornare vivono i membri stretti della sua famiglia, occorre bilanciare in modo proporzionato il diritto alla vita familiare del ricorrente e dei suoi congiunti con il bene giuridico della pubblica sicurezza e con l’esigenza di prevenire minacce all’ordine pubblico, ex art. 8, paragrafo 1, della CEDU.

La ragionevolezza e la proporzione del bilanciamento richiesto dall’art. 8 della CEDU implicano, secondo la Corte europea (ex plurimis pronuncia 7 aprile 2009, Cherif e altri c. Italia), la possibilità di valutare una serie di elementi desumibili dall’attenta osservazione in concreto di ciascun caso, quali, ad esempio, la natura e la gravità del reato commesso dal ricorrente; la durata del soggiorno dell’interessato; il lasso di tempo trascorso dalla commissione del reato e la condotta del ricorrente durante tale periodo; la nazionalità delle diverse persone interessate; la situazione familiare del ricorrente, e segnatamente, all’occorrenza, la durata del suo matrimonio ed altri fattori che testimonino l’effettività di una vita familiare in seno alla coppia; la circostanza che il coniuge fosse a conoscenza del reato all’epoca della creazione della relazione familiare; il fatto che dal matrimonio siano nati dei figli e la loro età; le difficoltà che il coniuge o i figli rischiano di trovarsi ad affrontare in caso di espulsione; l’interesse e il benessere dei figli; la solidità dei legami sociali, culturali e familiari con il paese ospite.

Una simile attenzione alla situazione concreta dello straniero e dei suoi congiunti, garantita dall’art. 8 della CEDU, come applicato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, esprime un livello di tutela dei rapporti familiari equivalente, per quanto rileva nel caso in esame, alla protezione accordata alla famiglia nel nostro ordinamento costituzionale. Di conseguenza, anche sotto questo profilo deve rilevarsi l’illegittimità costituzionale della disposizione impugnata, per violazione dell’art. 8 della CEDU, conformemente alla giurisprudenza costituzionale che affida a questa Corte, nello svolgimento del proprio infungibile ruolo, il compito di effettuare una valutazione «sistemica e non frazionata» dei diritti fondamentali, in modo da assicurare la «massima espansione delle garanzie» esistenti di tutti i diritti e i principi rilevanti, costituzionali e sovranazionali, complessivamente considerati, che sempre si trovano in rapporto di integrazione reciproca (sentenze n. 170 e n. 85 del 2013, e n. 264 del 2012).

per questi motivi

La Corte Costituzionale

1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 5, comma 5, del decreto legislativo 25 luglio 1998 n. 286 (Disposizioni sull’ingresso, il soggiorno e l’allontanamento dal territorio dello Stato), nella parte in cui prevede che la valutazione discrezionale in esso stabilita si applichi solo allo straniero che «ha esercitato il diritto al ricongiungimento familiare» o al «familiare ricongiunto», e non anche allo straniero «che abbia legami familiari nel territorio dello Stato»;

2) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale sollevata con l’ordinanza in epigrafe in relazione all’art. 9 del d.lgs. n. 286 del 1998.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 3 luglio 2013.