Sentenza della Corte costituzionale 26 maggio 2015, n. 150

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G.U. 22 luglio 2015, n. 29

La Corte di cassazione, sez. lavoro, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, co. 224, della legge finanziaria 2006 (l. n. 266/2005), che escludeva l’applicazione al lavoro pubblico della normativa previgente riguardante il compenso relativo alle festività coincidenti con la domenica. Secondo la Cassazione tale disposizione, in quanto influente su procedimenti già pendenti nei confronti della p.a., si poneva in contrasto con i principi di autonomia e indipendenza della magistratura e di imparzialità della p.a. (artt. 104 e 97 Cost.), nonché con l’art.117, co. 1 Cost., in relazione all’art. 6 CEDU e alla Carta dei diritti fondamentali dell’UE; non vi erano infatti motivi imperativi di interesse pubblico che giustificassero una deroga all’irretroattività della legge secondo la giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani. Richiamando la propria consolidata giurisprudenza, la Corte costituzionale ha ritenuto corretto che la Cassazione avesse sollevato questione di costituzionalità, in quanto la norma censurata non poteva né essere interpretata in modo conforme alla CEDU, né essere direttamente disapplicata dal giudice. La questione era però infondata, in quanto la norma in questione non innovava la materia con effetti retroattivi, ma si limitava a stabilire un’interpretazione già compresa tra le possibili interpretazioni delle norme preesistenti.

Sentenza

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 224, della legge 23 dicembre 2005, n. 266 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2006), promosso dalla Corte di cassazione, sezione lavoro, nel procedimento vertente tra P. E. ed altri e il Ministero della giustizia con ordinanza del 20 gennaio 2014, iscritta al n. 64 del registro ordinanze 2014 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 20, prima serie speciale, dell’anno 2014.

Visti l’atto di costituzione di P. E. ed altri, nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 26 maggio 2015 il Giudice relatore Silvana Sciarra;

uditi l’avvocato Ferdinando Emilio Abbate per P. E. ed altri e l’avvocato dello Stato Daniela Giacobbe per Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza, depositata il 20 gennaio 2014, la Corte di cassazione, sezione lavoro, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 224, della legge 23 dicembre 2005, n. 266 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2006), per violazione dell’art.117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950 ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848.

1.1.– La Corte rimettente premette che, con sentenza depositata il 16 dicembre 2009, la Corte d’appello di Roma, in riforma della decisione di primo grado emessa dal Tribunale di Viterbo, aveva accolto le opposizioni proposte dal Ministero della giustizia avverso i decreti ingiuntivi emessi in favore di alcuni dipendenti dello stesso Ministero, ritenendone infondata la pretesa diretta ad ottenere il compenso previsto dall’ art. 5, terzo comma, della legge 27 maggio 1949, n. 260 (Disposizioni in materia di ricorrenze festive), relativo alle festività coincidenti con la domenica. La Corte di cassazione precisa che la Corte d’appello aveva escluso il riconoscimento del compenso di cui al citato art. 5, terzo comma, della legge n. 260 del 1949 ed aveva riformato la sentenza di primo grado, sulla base del rilievo che l’art. 1, comma 224, della legge n. 266 del 2005, norma di natura interpretativa o comunque dotata di efficacia retroattiva, aveva elencato il suddetto art. 5 fra le disposizioni inapplicabili al lavoro pubblico ai sensi dell’art. 69, comma 1, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), una volta stipulati i contratti collettivi nazionali di lavoro per il quadriennio 1998-2001.

La Corte rimettente precisa, pertanto, di essere stata adita con ricorso proposto dai dipendenti del Ministero avverso la sentenza d’appello e ricorda che, fra l’altro, i ricorrenti avevano chiesto anche di sollevare questione di legittimità costituzionale del comma 224 dell’art. 1 in esame, ritenendo che la retroattività della citata norma, che si applica a fattispecie anteriori alla sua entrata in vigore, «salva l’esecuzione dei giudicati», formatisi fino alla data dell’entrata in vigore della medesima norma, violasse il divieto di ingerenza del potere legislativo nell’amministrazione della giustizia, influisse sulla definizione delle controversie giudiziarie in corso (art. 117, primo comma, Cost. e art. 6 della CEDU), ledesse l’autonomia e l’indipendenza della magistratura (art. 104 Cost.) ed il principio di imparzialità della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.).

1.2.– Ciò premesso, la Corte di cassazione, in linea preliminare, ritiene non sia possibile adottare un’interpretazione della disposizione censurata, che fa espressamente «salva l’esecuzione dei giudicati formatisi alla data di entrata in vigore della presente legge» (art. 1, comma 224, ultimo periodo), conforme alla CEDU. Né ritiene di poter accogliere la tesi della disapplicazione da parte del giudice comune di norme contrastanti con l’art. 6 della CEDU (ma anche con gli artt. 47, secondo comma, e 52, terzo comma, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007), alla luce della costante giurisprudenza costituzionale e della giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea. Pertanto, solleva questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 224, della legge n. 266 del 2005, nella parte in cui, applicandosi anche ai processi pendenti, sarebbe intervenuto a determinare la modifica dell’esito di un giudizio in corso – nel quale si era riconosciuto il diritto dei dipendenti pubblici ad un compenso aggiuntivo in caso di coincidenza delle festività con la domenica – a favore dell’amministrazione statale, parte in giudizio. E ciò senza che sussistessero gli “impellenti motivi di interesse generale” prescritti dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, in riferimento all’art. 6 della CEDU, per giustificare la deroga al principio di irretroattività della legge. Non sarebbero, infatti, riconducibili ai predetti motivi né le finalità di “razionalizzare” ed “omogeneizzare” il trattamento dei pubblici impiegati indicate dal Ministero, né le generiche esigenze di compressione della spesa pubblica connesse all’equilibrio del bilancio dello Stato.

Detta norma, pertanto, risulterebbe lesiva dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 6 della CEDU, come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Quest’ultima ha, infatti, ripetutamente affermato che, nonostante non sia precluso al legislatore intervenire, mediante nuove disposizioni retroattive, a disciplinare diritti derivanti da leggi in vigore, i principi della preminenza del diritto e del processo equo di cui all’art. 6 della CEDU impediscono, tranne che per motivi di interesse generale non riconducibili a mere esigenze finanziarie, l’interferenza del legislatore nell’amministrazione della giustizia, con il proposito di influenzare la determinazione giudiziaria di una controversia azionata contro lo Stato.

Il Collegio rimettente ricorda, inoltre, che la Corte costituzionale ha già avuto occasione più volte di ravvisare una coincidenza di impostazione fra la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo e la propria giurisprudenza (in specie, sentenza n. 264 del 2012) in ordine al divieto di retroattività della legge, secondo la quale il legislatore può emanare disposizioni retroattive, anche di interpretazione autentica, purché la retroattività trovi adeguata giustificazione nell’esigenza di tutelare principi, diritti e beni di rilievo costituzionale, che costituiscono altrettanti “motivi imperativi di interesse generale” ai sensi della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo.

1.3.– E’ intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che il ricorso venga dichiarato inammissibile o che venga dichiarata non fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata.

Nella specie, l’Avvocatura generale dello Stato ritiene che la norma di cui all’art. 1, comma 224, della legge n. 266 del 2005, pur avendo efficacia retroattiva, non sia innovativa e sia rivolta a chiarire il significato di una legge precedente, ovvero ad esplicitare uno dei significati, tra quelli ragionevolmente ascrivibili alle statuizioni interpretate.

Essa non contrasterebbe con l’art. 117, primo comma, Cost., in primo luogo perché la Corte europea dei diritti dell’uomo non avrebbe affermato il principio del divieto assoluto di leggi retroattive, ma avrebbe ritenuto legittimo l’intervento del legislatore che, per porre rimedio ad un’imperfezione tecnica della legge interpretata, avesse inteso, con legge retroattiva, ristabilire un’interpretazione più aderente all’originaria volontà del legislatore stesso. Alla luce di tutto ciò, la difesa statale ritiene che la norma censurata abbia un’indubbia natura di norma di interpretazione autentica dell’art. 69 del d.lgs. n. 165 del 2001. Essa, infatti, tenderebbe a risolvere dubbi interpretativi sull’ambito di efficacia della predetta norma a seguito della stipulazione della seconda tornata di contratti collettivi in materia di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni. La specificazione di tale ambito di efficacia risponderebbe a precise esigenze di razionalizzazione e perequazione del sistema retributivo dei dipendenti pubblici, anche alla luce della ritenuta ragionevolezza della norma in base alla sentenza della Corte costituzionale n. 146 del 2008.

1.4.– Si sono costituite in giudizio le parti private del giudizio principale, chiedendo che venga dichiarata la manifesta infondatezza della questione sollevata in quanto una lettura adeguatrice e costituzionalmente orientata della norma censurata consentirebbe di escluderne la natura retroattiva. Ove intesa in tal modo, la predetta norma sarebbe, infatti, applicabile ai soli giudizi instaurati successivamente alla sua entrata in vigore e non, quindi, al giudizio principale.

In via subordinata, le predette parti chiedono che sia dichiarata l’illegittimità costituzionale della norma oggetto di censura per violazione dell’art. 117, comma primo, Cost., in relazione all’art. 6 della CEDU.

L’art. 1, comma 224, della legge n. 266 del 2005 sarebbe in contrasto con i principi di parità delle armi, di certezza del diritto, nonché più in generale del diritto ad un giusto ed equo processo, sanciti dall’art. 6 della CEDU, principi che fanno parte anche dell’ordinamento giuridico europeo, per effetto del loro recepimento da parte del Trattato di Lisbona, firmato il 13 dicembre 2007, ratificato e reso esecutivo con legge 2 agosto 2008, n. 130, ed entrato in vigore il 1° dicembre 2009.

Tale contrasto sussisterebbe per le seguenti ragioni: la disposizione censurata sarebbe inserita nel testo di una legge, la legge finanziaria per il 2006, destinata a tutt’altri fini; essa è intervenuta a distanza di cinque anni dal d.lgs. n. 165 del 2001 ed oltre quarantacinque anni dopo la legge n. 260 del 1949, quando sulla predetta legislazione si era formato un diritto vivente che, derivato dall’orientamento univoco della Corte di cassazione, riconosceva pacificamente ai lavoratori pubblici le pretese negate dalla norma in esame; essa risulterebbe solo formalmente interpretativa, essendo nella sostanza innovativa, in quanto il tenore letterale delle norme interpretate (d.lgs. n. 165 del 2001 e legge n. 260 del 1949) non comprenderebbe, fra le possibili combinate letture, l’interpretazione in parte qua fornita dal legislatore; infine, essa andrebbe a regolare fattispecie in cui lo Stato italiano è direttamente parte in causa.

2.– All’udienza pubblica, le parti costituite nel giudizio ed il Presidente del Consiglio dei ministri hanno insistito per l’accoglimento delle conclusioni formulate nelle difese scritte.

Considerato in diritto

1.– La Corte di cassazione, sezione lavoro, dubita della legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 224, della legge 23 dicembre 2005, n. 266 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2006), là dove prevede che «tra le disposizioni riconosciute inapplicabili dall’articolo 69, comma 1, secondo periodo, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, a seguito della stipulazione dei contratti collettivi del quadriennio 1994/1997, è ricompreso l’articolo 5, terzo comma, della legge 27 maggio 1949, n. 260, come sostituito dall’articolo 1 della legge 31 marzo 1954, n. 90, in materia di retribuzione nelle festività civili nazionali ricadenti di domenica. E’ fatta salva l’esecuzione dei giudicati formatisi alla data di entrata in vigore della presente legge».

Tale norma è censurata per violazione dell’art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950 ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848. Essa, infatti, nella parte in cui stabilisce che l’art. 69, comma 1, secondo periodo, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), deve intendersi nel senso di escludere l’applicabilità ai lavoratori pubblici, a seguito della stipulazione dei contratti collettivi del quadriennio 1994/1997, dell’art. 5, terzo comma, della legge n. 260 del 1949, escludendo quindi il riconoscimento del diritto dei predetti ad un compenso aggiuntivo in caso di coincidenza delle festività con la domenica, anche con riguardo ai giudizi pendenti, conterrebbe una norma retroattiva, lesiva dei principi della preminenza del diritto e del processo equo di cui all’art. 6 della CEDU.

In particolare, la norma sarebbe intervenuta nel corso di un giudizio, al fine di determinare la modifica dell’esito dello stesso in favore dello Stato, parte del medesimo giudizio, in assenza di motivi imperativi di interesse generale, non potendosi configurare come tali né le finalità di “omogeneizzare” e “razionalizzare” il trattamento nel pubblico impiego, né le generiche esigenze finanziarie richiamate.

2.– La questione non è fondata nei termini di seguito precisati.

2.1.– Preliminarmente occorre riconoscere la fondatezza dell’assunto del rimettente secondo cui non è possibile una interpretazione della norma censurata che ne escluda la portata retroattiva e dunque l’applicabilità ai giudizi in corso, ivi compreso il giudizio principale. Il tenore letterale dell’art. 1, comma 224, della legge n. 266 del 2005 che, nel delimitare la propria sfera di applicazione, espressamente fa salva solo «l’esecuzione dei giudicati formatisi alla data di entrata in vigore della presente legge» (secondo periodo), impedisce di assegnare a detta norma un significato diverso da quello sospettato di illegittimità, non consentendo di attribuirle effetti solo pro futuro, poiché risulta ictu oculi il suo carattere retroattivo e la sua incidenza sul giudizio in corso. Questa Corte ha più volte affermato che l’onere dell’interpretazione conforme grava sul giudice «entro i limiti nei quali ciò sia permesso dai testi delle norme» (sentenza n. 349 del 2007). Qualora ciò non sia possibile, ove cioè la verifica della praticabilità di una interpretazione della norma interna in senso conforme alla CEDU, realizzata dal giudice comune avvalendosi di ogni strumento ermeneutico a sua disposizione, dia esito negativo, questi non può far altro che sollevare questione di legittimità costituzionale per violazione dell’art. 117, primo comma, Cost. (sentenze n. 113 del 2011, n. 93 del 2010, n. 311 del 2009,). Questa soluzione si collega all’impossibilità di disapplicare la norma ritenuta in contrasto con la norma convenzionale, come affermato dalla costante giurisprudenza di questa Corte (fra le altre, sentenze n. 80 del 2011 e n. 349 del 2007).

2.2.– Il suddetto contrasto con la norma convenzionale e, quindi, con l’art. 117, primo comma, Cost., tuttavia, non sussiste per i motivi che si precisano di seguito.

L’art. 1, comma 224, della legge n. 266 del 2005, nella parte in cui dispone che l’art. 5, terzo comma, della legge n. 260 del 1949, come successivamente modificato, è una fra le disposizioni divenute inapplicabili a seguito della stipulazione dei contratti collettivi del quadriennio 1994/1997, ai sensi dell’art. 69, comma 1, del d.l.gs. n. 165 del 2001, interviene sul contenuto di tale norma. Quest’ultima, nel dettare norme transitorie volte ad assicurare la graduale attuazione della riforma del lavoro pubblico, prescrive che, «salvo che per le materie di cui all’articolo 2, comma 1, lettera c), della legge 23 ottobre 1992, n. 421, gli accordi sindacali recepiti in decreti del Presidente della Repubblica in base alla legge 29 marzo 1983, n. 93, e le norme generali e speciali del pubblico impiego, vigenti alla data del 13 gennaio 1994 e non abrogate, costituiscono, limitatamente agli istituti del rapporto di lavoro, la disciplina di cui all’ articolo 2, comma 2. Tali disposizioni sono inapplicabili a seguito della stipulazione dei contratti collettivi del quadriennio 1994-1997, in relazione ai soggetti e alle materie dagli stessi contemplati. Tali disposizioni cessano in ogni caso di produrre effetti dal momento della sottoscrizione, per ciascun ambito di riferimento, dei contratti collettivi del quadriennio 1998-2001».

Il citato art. 69 si inserisce nel quadro della riforma del lavoro pubblico, introdotta con il decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 (Razionalizzazione dell’organizzazione delle amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego, a norma dell’articolo 2 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), ed ispirata, come già riconosciuto da questa Corte, «alle finalità di “accrescere l’efficienza delle amministrazioni in relazione a quella dei corrispondenti uffici e servizi dei paesi della Comunità europea”, di “razionalizzare il costo del lavoro pubblico, contenendo la spesa complessiva per il personale, diretta e indiretta, entro i vincoli della finanza pubblica”, di “integrare gradualmente la disciplina del lavoro pubblico con quella del lavoro privato” (v. art. 1)» (sentenza n. 359 del 1993). Tale riforma «ha profondamente innovato la disciplina in precedenza posta dalla legge quadro sul pubblico impiego (legge 29 marzo 1983, n. 93), ricostruendo l’intera materia intorno ai nuovi principi della “privatizzazione” e della “contrattualizzazione” enunciati nell’art. 2, primo comma, lett. a), della legge n. 421 del 1992 e attuati, nel decreto n. 29 del 1993, mediante l’inquadramento dei rapporti d’impiego pubblico nella cornice del diritto civile e nella contrattazione collettiva e individuale» (sentenza n. 359 del 1993).

Il d.lgs. n. 165 del 2001, seguito alla cosiddetta “seconda privatizzazione” del lavoro pubblico operata dalla legge 15 marzo 1997, n. 59 (Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma della Pubblica Amministrazione e per la semplificazione amministrativa), ha confermato l’impianto della riforma del 1993, diretta a «valorizzare la distinzione tra organizzazione della pubblica amministrazione, la cui disciplina viene affidata in primo luogo alla legge, e rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti, tendenzialmente demandato allo strumento della contrattazione collettiva» (sentenza n. 313 del 1996; sentenza n. 88 del 1996), in linea con la configurazione della contrattazione collettiva come strumento di partecipazione.

In questa prospettiva l’art. 2 del predetto d.l.lgs. n. 165 del 2001, nell’individuare le fonti di disciplina del lavoro pubblico, ha assegnato alla legge il compito di regolare, quanto meno nei principi, l’organizzazione degli uffici, demandando viceversa alla contrattazione collettiva la regolamentazione dei rapporti di lavoro dei dipendenti. In particolare, al comma 2, ha statuito che «i rapporti di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche sono disciplinati dalle disposizioni del capo I, titolo II, del libro V del codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa, fatte salve le diverse disposizioni contenute nel presente decreto». Fra di esse c’è il comma 3 nel quale ha disposto che «l’attribuzione dei trattamenti economici può avvenire esclusivamente mediante contratti […] collettivi o, alle condizioni previste, mediante contratti individuali» e che «le disposizioni di legge, regolamenti o atti amministrativi che attribuiscono incrementi retributivi non previsti da contratti cessano di avere efficacia a far data dall’entrata in vigore del relativo rinnovo contrattuale».

Questa Corte ha già avuto modo di desumere dalle indicate disposizioni che il legislatore «ha voluto riservare alla contrattazione collettiva l’intera definizione del trattamento economico, eliminando progressivamente tutte le voci extra ordinem» (sentenza n. 146 del 2008) al fine di realizzare, ad un tempo, l’obiettivo della contrattualizzazione del rapporto di lavoro pubblico e della razionalizzazione del costo del lavoro pubblico, mediante il contenimento della spesa complessiva per il personale, diretta e indiretta, entro i vincoli della finanza pubblica.

L’art. 1, comma 224, della legge n. 266 del 2005, nell’annoverare tra le disposizioni riconosciute inapplicabili dall’art. 69, comma 1, secondo periodo, del d.lgs. n. 165 del 2001) a seguito della stipulazione dei contratti collettivi del quadriennio 1994/1997, l’art. 5, terzo comma, della legge n. 260 del 1949, in base al quale è riconosciuto il diritto ad una ulteriore retribuzione nel caso in cui le festività ricorrano di domenica, si pone in armonia con l’obiettivo di riconoscere alla sola fonte contrattuale il compito di definire il trattamento retributivo, eliminando tutte le voci extra ordinem. Come questa Corte ha già avuto occasione di affermare, scrutinando la medesima norma, pur sotto altro profilo, si deve anche evidenziare la finalità del contenimento e della razionalizzazione della spesa per il settore del pubblico impiego, finalità «che è imposta dall’art. 2, comma 1, della legge 23 ottobre 1992, n. 421 […], e ribadita dall’art. 1, comma 1, lettera b), del d.lgs. n. 165 del 2001» (sentenza n. 146 del 2008).

Risulta, pertanto, evidente che la norma censurata si limita ad assegnare alla disposizione interpretata un significato già in essa contenuto, riconoscibile come una delle possibili letture del testo originario, cosicché la portata retroattiva della medesima non si rivela irragionevole, né si pone in contrasto con altri interessi costituzionalmente protetti (ex plurimis: sentenze n. 257 del 2011, n. 236 del 2009).

Questa Corte ha più volte affermato che, posto che il divieto di retroattività della legge, pur costituendo fondamentale valore di civiltà giuridica, non è stato elevato a dignità costituzionale, salva la previsione dell’art. 25 Cost. per la materia penale, (fra le altre, sentenze n. 156 del 2014, n. 78 del 2012, n. 257 del 2011), deve riconoscersi come «al legislatore non sia […] precluso di emanare […] norme retroattive (sia innovative che di interpretazione autentica), “purché la retroattività trovi adeguata giustificazione nella esigenza di tutelare principi, diritti e beni di rilievo costituzionale che costituiscono altrettanti motivi imperativi di interesse generale ai sensi della giurisprudenza della Corte EDU” (sentenza n. 264 del 2012)» (sentenza n. 156 del 2014; così anche, ex plurimis, sentenze n. 78 del 2012, n. 15 del 2012). Questa Corte ha ritenuto che ciò accade allorquando una norma di natura interpretativa persegua lo scopo di chiarire situazioni di oggettiva incertezza del dato normativo in ragione di un dibattito giurisprudenziale irrisolto o di ristabilire un’interpretazione più aderente all’originaria volontà del legislatore (sentenza n. 311 del 2009; così anche Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza 23 ottobre 1997, National & Provincial Building Society ed altri contro Regno Unito), nonché di riaffermare l’intento originale del Parlamento (Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza 27 maggio 2004, OGIS-Institut Stanislas e altri contro Francia) a tutela della certezza del diritto e dell’eguaglianza dei cittadini.

Nella specie, l’art. 1, comma 224, della legge n. 266 del 2005, nell’escludere l’applicabilità ai lavoratori pubblici della norma recante la previsione del diritto ad una retribuzione aggiuntiva nel caso in cui le festività ricorrano di domenica, all’indomani della stipulazione dei contratti collettivi del quadriennio 1994/1997, non ha fatto altro che dare attuazione ad uno dei principi ispiratori dell’intero d.lgs. n. 165 del 2001. Tale è da intendersi la contrattualizzazione del rapporto di lavoro pubblico, principio cui era informata la norma interpretata (l’art. 69 del citato d.lgs. n. 165 del 2001), nella parte in cui disponeva, in via generale, l’inapplicabilità «delle norme generali e speciali del pubblico impiego», a seguito appunto della stipulazione dei contratti collettivi del quadriennio 1994-1997. La norma in questione ha chiarito – risolvendo una situazione di incertezza testimoniata dalla presenza di pronunce di segno contrastante (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 28 marzo 1981, n. 1803; Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 10 gennaio 2011, n. 258; Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 5 luglio 2006, n. 15331) – che l’art. 5, terzo comma, della legge n. 260 del 1949 ha carattere imperativo. Esso è, pertanto, applicabile a tutti i lavoratori dipendenti dallo Stato, dagli enti pubblici e dai privati (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 22 febbraio 2008, n. 4667), rientrando fra le «norme generali […] del pubblico impiego», di cui l’art. 69 del d.lgs. n. 165 del 2001 stabilisce l’inapplicabilità a seguito della stipulazione dei contratti collettivi, in linea con il principio della onnicomprensività della retribuzione e del divieto di ulteriori corresponsioni, diverse da quelle contrattualmente stabilite (sentenza n. 146 del 2008).

Alla luce di quanto detto, l’intervento interpretativo del legislatore non solo non contrasta con il principio di ragionevolezza «che ridonda nel divieto di introdurre ingiustificate disparità di trattamento» (sentenza n. 209 del 2010), escluse da questa Corte già nella sentenza n. 146 del 2008 in considerazione della peculiarità del regime del rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni delineato dal d.lgs. n. 165 del 2001 e dai contratti collettivi ivi richiamati, ma neppure determina una lesione dell’affidamento. Il testo originario rendeva, sin dall’inizio, plausibile, come si è già rilevato, una lettura diversa da quella che i destinatari della norma interpretata hanno ritenuto di privilegiare (sentenza n. 170 del 2008), coerente con i principi ai quali è informato il rapporto di lavoro pubblico. Né si ravvisa una lesione delle attribuzioni del potere giudiziario. La norma in esame, infatti, avendo natura interpretativa, ha operato sul piano delle fonti, senza toccare la potestà di giudicare, limitandosi a precisare la regola astratta ed il modello di decisione cui l’esercizio di tale potestà deve attenersi, definendo e delimitando la fattispecie normativa oggetto della medesima (sentenza n. 170 del 2008), proprio al fine di assicurare la coerenza e la certezza dell’ordinamento giuridico (sentenza n. 209 del 2010).

per questi motivi

La Corte Costituzionale

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 224, della legge 23 dicembre 2005, n. 266 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2006), sollevata, in riferimento all’art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950 ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, dalla Corte di cassazione, sezione lavoro, con l’ordinanza di rimessione riportata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 26 maggio 2015.