Sentenza della Corte costituzionale 25 ottobre 2017, n. 250

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G.U. 6 dicembre 2017, n. 49

Con la sent. n. 250/2017, la C. cost. ha ritenuto non fondate tutte le questioni di legittimità costituzionale (riunite in un unico giudizio) relative al d.l. n. 65/2015 che, in attuazione della sent. C. cost. n. 70/2015, ha introdotto un nuovo meccanismo perequativo delle pensioni. Tra le diverse questioni sollevate, rilevano qui quelle in riferimento all’art. 117, co. 1, Cost. in relazione all’art. 6 della CEDU e all’art. 1 del Primo Protocollo alla CEDU. Secondo il giudice rimettente, gli effetti retroattivi della disciplina censurata violavano il principio del legittimo affidamento e di certezza del diritto. Richiamando la giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani, la C. cost. ha invece affermato che le norme europee richiamate non possono essere interpretate nel senso di impedire ogni ingerenza dei pubblici poteri in un procedimento giudiziario pendente.

Sentenza

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 24, commi 25 e 25-bis, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214 – come sostituito (il comma 25) e inserito (il comma 25-bis), rispettivamente, dai numeri 1) e 2) del comma 1 dell’art. 1 del decreto-legge 21 maggio 2015, n. 65 (Disposizioni urgenti in materia di pensioni, di ammortizzatori sociali e di garanzie TFR), convertito, con modificazioni, dalla legge 17 luglio 2015, n. 109 – e dell’art. 1, comma 483, della legge 27 dicembre 2013, n. 147, come modificato dall’art. 1, comma 286, della legge 28 dicembre 2015, n. 208, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2016)», promossi dal Tribunale ordinario di Palermo con ordinanza del 22 gennaio 2016, dalla Corte dei Conti, sezione giurisdizionale regionale per l’Emilia Romagna, con ordinanza del 10 marzo 2016, dal Tribunale ordinario di Milano con ordinanza del 30 aprile 2016, dal Tribunale ordinario di Brescia con ordinanza dell’8 febbraio 2016, dal Tribunale ordinario di Napoli con ordinanza del 15 luglio 2016, dal Tribunale ordinario di Genova con tre ordinanze del 9 agosto 2016, dal Tribunale ordinario di Torino con ordinanza del 27 settembre 2016, dal Tribunale ordinario di La Spezia con ordinanze del 2 e del 7 novembre 2016, dal Tribunale ordinario di Cuneo con ordinanze del 18 novembre 2016 (n. 2 ordinanze) e del 9 e del 21 febbraio 2017, rispettivamente iscritte ai nn. 36, 101, 124, 188, 237, 242, 243, 244 e 278, del registro ordinanze 2016 e ai nn. 24, 25, 43, 44, 77 e 78 del registro ordinanze 2017 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 9, 21, 26, 40, 47 e 48, prima serie speciale, dell’anno 2016 e nn. 5, 9, 13 e 22, prima serie speciale, dell’anno 2017.

Visti gli atti di costituzione di C. G., di L. F. e altra, di R. P. e altri, di C. A. e altri, di F. M. e altro, di P. S. e altri e dell’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), nonché gli atti di intervento del Sindacato autonomo Dipendenti INAIL in pensione e altra, del Presidente del Consiglio dei ministri e quello, fuori termine, del CODACONS e altro;

udito nell’udienza pubblica del 24 ottobre 2017 il Giudice relatore Silvana Sciarra;

uditi gli avvocati Riccardo Troiano per C. G., Corrado Scivoletto per L. F. e altra, Andrea Rossi Tortarolo per R. P. e altri, Michele Iacoviello per C. A. e altri, Iside B. Storace per F. M. e altro, Fabrizio Ricciardi per P. S. e altri, Luigi Caliulo per l’INPS, Augusto Sinagra per il Sindacato autonomo Dipendenti INAIL in pensione e altra e l’avvocato dello Stato Gabriella Palmieri per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 22 gennaio 2016 (reg. ord. n. 36 del 2016), il Tribunale ordinario di Palermo, sezione lavoro, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 36, primo comma, e 38, secondo comma, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 24, comma 25, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, nel testo sostituito dall’art. 1, comma 1, numero 1), del decreto-legge 21 maggio 2015, n. 65 (Disposizioni urgenti in materia di pensioni, di ammortizzatori sociali e di garanzie TFR), convertito, con modificazioni, dalla legge 17 luglio 2015, n. 109, e, in particolare, della disposizione di cui alla lettera c) di tale comma 25.

Quest’ultimo prevede che: «La rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici, secondo il meccanismo stabilito dall’articolo 34, comma 1, della legge 23 dicembre 1998, n. 448, relativa agli anni 2012 e 2013, è riconosciuta: a) nella misura del 100 per cento per i trattamenti pensionistici di importo complessivo fino a tre volte il trattamento minimo INPS. Per le pensioni di importo superiore a tre volte il trattamento minimo INPS e inferiore a tale limite incrementato della quota di rivalutazione automatica spettante sulla base di quanto previsto dalla presente lettera, l’aumento di rivalutazione è comunque attribuito fino a concorrenza del predetto limite maggiorato; b) nella misura del 40 per cento per i trattamenti pensionistici complessivamente superiori a tre volte il trattamento minimo INPS e pari o inferiori a quattro volte il trattamento minimo INPS con riferimento all’importo complessivo dei trattamenti medesimi. Per le pensioni di importo superiore a quattro volte il predetto trattamento minimo e inferiore a tale limite incrementato della quota di rivalutazione automatica spettante sulla base di quanto previsto dalla presente lettera, l’aumento di rivalutazione è comunque attribuito fino a concorrenza del predetto limite maggiorato; c) nella misura del 20 per cento per i trattamenti pensionistici complessivamente superiori a quattro volte il trattamento minimo INPS e pari o inferiori a cinque volte il trattamento minimo INPS con riferimento all’importo complessivo dei trattamenti medesimi. Per le pensioni di importo superiore a cinque volte il predetto trattamento minimo e inferiore a tale limite incrementato della quota di rivalutazione automatica spettante sulla base di quanto previsto dalla presente lettera, l’aumento di rivalutazione è comunque attribuito fino a concorrenza del predetto limite maggiorato; d) nella misura del 10 per cento per i trattamenti pensionistici complessivamente superiori a cinque volte il trattamento minimo INPS e pari o inferiori a sei volte il trattamento minimo INPS con riferimento all’importo complessivo dei trattamenti medesimi. Per le pensioni di importo superiore a sei volte il predetto trattamento minimo e inferiore a tale limite incrementato della quota di rivalutazione automatica spettante sulla base di quanto previsto dalla presente lettera, l’aumento di rivalutazione è comunque attribuito fino a concorrenza del predetto limite maggiorato; e) non è riconosciuta per i trattamenti pensionistici complessivamente superiori a sei volte il trattamento minimo INPS con riferimento all’importo complessivo dei trattamenti medesimi.».

1.1.– Il giudice rimettente riferisce, in punto di fatto, di essere investito del ricorso proposto nei confronti dell’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) da G. C., pensionato titolare, per gli anni 2012 e 2013, di una pensione superiore a quattro volte e inferiore a cinque volte il trattamento minimo INPS; che il ricorrente aveva chiesto – previa rimessione alla Corte costituzionale di questioni di legittimità costituzionale dell’art. 24, comma 25, del d.l. n. 201 del 2011, nel testo anteriore alla sostituzione operata dall’art. 1, comma 1, numero 1), del d.l. n. 65 del 2015 (testo che, per gli anni 2012 e 2013, aveva stabilito il blocco della perequazione automatica delle pensioni di importo superiore a tre volte il trattamento minimo INPS) – di condannare l’INPS a liquidare il trattamento pensionistico perequato secondo il meccanismo dell’art. 34, comma 1, della legge 23 dicembre 1998, n. 448 (Misure di finanza pubblica per la stabilizzazione e lo sviluppo) e a corrispondergli i relativi ratei non percepiti nel biennio 2012-2013. Riferisce inoltre di avere sollevato questioni di legittimità costituzionale del citato art. 24, comma 25, nel testo previgente, decise dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 70 del 2015, dichiarativa dell’illegittimità costituzionale del medesimo comma 25 per violazione degli artt. 3, 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost., «nella parte in cui prevede[va] che “In considerazione della contingente situazione finanziaria, la rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici, secondo il meccanismo stabilito dall’art. 34, comma 1, della legge 23 dicembre 1998, n. 448, è riconosciuta, per gli anni 2012 e 2013, esclusivamente ai trattamenti pensionistici di importo complessivo fino a tre volte il trattamento minimo INPS, nella misura del 100 per cento”». Dopo tale sentenza, il ricorrente ha riassunto il giudizio, reiterando le domande formulate nel ricorso introduttivo e sollevando questioni di legittimità costituzionale dell’art. 24, comma 25, del d.l. n. 201 del 2011, nel testo sostituito dall’art. 1, comma 1, n. 1), del d.l. n. 65 del 2015, ritenute dal giudice a quo rilevanti e non manifestamente infondate.

1.2.– In punto di non manifesta infondatezza delle stesse, il Tribunale rimettente afferma anzitutto che, ancorché goda di «una certa discrezionalità» nella scelta, il legislatore è tenuto a individuare meccanismi perequativi che assicurino la perdurante adeguatezza delle pensioni all’incremento del costo della vita, nel rispetto del limite della ragionevolezza, al fine di scongiurare un «non sopportabile scostamento» tra l’andamento delle pensioni e delle retribuzioni e, in ogni caso, un contrasto con i principi di cui agli artt. 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost.

Il rimettente afferma quindi che tale meccanismo è stato individuato dal legislatore nella perequazione automatica delle pensioni.

Aggiunge il rimettente che il legislatore – che già in precedenza aveva temporaneamente sospeso il meccanismo di perequazione – anche dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 30 del 2004, con l’art. 1, comma 19, della legge 24 dicembre 2007, n. 247 (Norme di attuazione del Protocollo del 23 luglio 2007 su previdenza, lavoro e competitività per favorire l’equità e la crescita sostenibili, nonché ulteriori norme in materia di lavoro e previdenza sociale), aveva nuovamente disposto il blocco, per l’anno 2008, della perequazione automatica delle pensioni superiori a otto volte il trattamento minimo. In proposito, il rimettente osserva che, con la sentenza n. 316 del 2010, la Corte costituzionale, nel ritenere che quest’ultima previsione non contrastasse con gli artt. 3, 36 e 38, secondo comma, Cost., avrebbe affermato che il blocco della perequazione automatica delle pensioni di importo rilevante può ritenersi conforme a Costituzione a condizione che esso non venga «costantemente reiterato».

Ciò nonostante, con l’art. 24, comma 25, del d.l. n. 201 del 2011, nel testo originario, il legislatore ha escluso la perequazione non soltanto per le pensioni più elevate ma per tutte quelle superiori a tre volte il trattamento minimo INPS e non per un solo anno – come era avvenuto con i precedenti interventi – ma per due anni consecutivi (2012 e 2013).

A seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 70 del 2015, il legislatore, con l’art. 1, comma 1, numero 1), del d.l. n. 65 del 2015, ha sostituito tale disposizione con una nuova formulazione, che, ad avviso del rimettente, non terrebbe in considerazione quanto affermato nella sentenza n. 70 del 2015, poiché non tutelerebbe, per il periodo in considerazione, «l’interesse dei pensionati alla conservazione del potere di acquisto delle somme percepite (da cui deriva […] il diritto a una prestazione previdenziale adeguata), in particolar modo di quelli titolari di trattamenti previdenziali modesti, che – a differenza delle pensioni di importo elevato – non presentano margini di resistenza all’erosione determinata dal fenomeno inflattivo».

Il giudice a quo osserva ancora che la misura della perequazione delle pensioni riconosciuta dal censurato comma 25 è assai minore di quella riconosciuta, per il triennio 2014-2016, dal precedente art. 1, comma 483, della legge 27 dicembre 2013, n. 147, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2014)». Inoltre il disposto blocco parziale della perequazione «produce i suoi effetti in modo permanente, non essendo prevista alcuna forma di recupero della parte non corrisposta negli anni successivi», sicché «ogni eventuale perdita del potere di acquisto del trattamento, anche se limitata a periodi brevi, è, per sua natura, definitiva».

Con specifico riferimento agli invocati parametri costituzionali, il Tribunale rimettente deduce che la disposizione censurata «sembra violare i principi di uguaglianza, ragionevolezza e proporzionalità della prestazione previdenziale e di conservazione del trattamento pensionistico».

Sarebbero violati, in particolare: l’art. 38, secondo comma, Cost., «perché la modesta entità della rivalutazione impedisce la conservazione nel tempo del valore della pensione, menomandone l’adeguatezza, soprattutto con riferimento ai pensionati titolari di trattamenti previdenziali non elevati»; l’art. 36, primo comma, Cost., «poiché la modesta entità della rivalutazione viola il principio di proporzionalità tra pensione (che costituisce il prolungamento in pensione della retribuzione goduta in costanza di lavoro) e retribuzione goduta durante l’attività lavorativa»; il principio derivante dall’applicazione congiunta degli artt. 36, 38, 3 Cost., «perché la modesta entità della rivalutazione, violando il principio di proporzionalità tra pensione e retribuzione e quello di adeguatezza della prestazione previdenziale, altera il principio di eguaglianza e ragionevolezza, causando una irrazionale discriminazione in danno della categoria dei pensionati».

1.3.– In punto di rilevanza, il Tribunale rimettente rappresenta che, in base alla normativa censurata, al ricorrente, titolare, per gli anni 2012 e 2013, di un trattamento pensionistico superiore a quattro volte e inferiore a cinque volte il trattamento minimo INPS, è stata riconosciuta una rivalutazione di appena il 20 per cento.

2.– Si è costituito G. C., ricorrente nel giudizio principale, chiedendo che venga dichiarata l’illegittimità costituzionale, per contrasto con gli artt. 3, 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost., dell’art. 24, comma 25, del d.l. n. 201 del 2011, come sostituito dall’art. 1, comma 1, n. 1), del d.l. n. 65 del 2015, nonché di quest’ultima disposizione, per violazione dell’art. 136 Cost.

2.1.– Ad avviso della parte costituita, la nuova formulazione del citato comma 25 viola l’art. 38, secondo comma, Cost., in quanto il blocco, in alcuni casi totale e in altri parziale, della perequazione relativa agli anni 2012 e 2013 impedisce la conservazione nel tempo del valore della pensione, menomandone l’adeguatezza; l’art. 36, primo comma, Cost., in quanto la mancata rivalutazione viola il principio di proporzionalità tra pensione e retribuzione; il principio derivante dall’applicazione congiunta degli artt. 36, 38 e 3 della Costituzione, in quanto la mancata rivalutazione, ledendo i principi di adeguatezza della prestazione previdenziale e di proporzionalità tra pensione e retribuzione, «altera il principio di uguaglianza e di ragionevolezza, causando una irrazionale discriminazione in danno della categoria dei pensionati, cui appartiene il ricorrente, le cui ragioni sono sacrificate alla tenuta finanziaria del sistema, senza nessun bilanciamento tra tale valore costituzionale ed il diritto alla perequazione».

La parte costituita afferma, «in particolare», che il censurato art. 24, comma 25, si pone in contrasto, altresì, con «i principi di eccezionalità e non arbitrarietà del “blocco” cagionato dalla frequente reiterazione di misure intese a “paralizzare” il meccanismo perequativo».

La stessa difesa esamina poi la sentenza della Corte costituzionale n. 316 del 2010, affermando che essa aveva rivolto un «monito» al legislatore riguardo a una eventuale reiterazione del “blocco”, all’estensione temporale dello stesso, oltre che ai destinatari delle misure, titolari di trattamenti pensionistici «di sicura rilevanza». Per converso, il vigente comma 25 dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2001 stabilisce un blocco della perequazione per due anni consecutivi e «colpisce anche le pensioni medie, riconoscendo una piccola percentuale a quelle superiori a tre volte il trattamento minimo INPS e nulla a quelle superiori a 6 volte il trattamento minimo INPS (e non superiori ad otto volte come era avvenuto nel 2008)».

La difesa di G. C. passa poi a considerare la sentenza della Corte costituzionale n. 70 del 2015, sottolineando che essa «aveva […] individuato […] nella […] limitazione ad alcune fasce di pensionati, individuati in base al trattamento complessivo e non, invece, alla fascia di importo, due profili di illegittimità costituzionale» che la disposizione censurata, invece, «reitera». Essa considera inoltre che l’art. 1 del d.l. n. 65 del 2015, oltre a sostituire il comma 25 dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011 – con il quale avrebbe vanificato l’«effetto primario [della sentenza n. 70 del 2015] che dovrebbe consistere nella integrale applicazione, per gli anni 2012 e 2013, del regime di rivalutazione paralizzato dal d.l. n. 201/2011» – ha inserito un comma 25-bis (a norma del quale «La rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici, secondo il meccanismo stabilito dall’articolo 34, comma 1, della legge 23 dicembre 1998, n. 448, relativa agli anni 2012 e 2013 come determinata dal comma 25, con riguardo ai trattamenti pensionistici di importo complessivo superiore a tre volte il trattamento minimo INPS è riconosciuta: a) negli anni 2014 e 2015 nella misura del 20 per cento; b) a decorrere dall’anno 2016 nella misura del 50 per cento»). Tale disposizione «determina il consolidamento del danno patito dagli aventi diritto».

La difesa della parte costituita ripercorre poi le argomentazioni utilizzate dalla sentenza n. 70 del 2015, rilevando che essa «non ha affatto limitato le censure di incostituzionalità con riferimento alle sole fasce più deboli», e conclude che il d.l. n. 65 del 2015, pur affermando di volere dare attuazione ai principi enunciati nella sentenza n. 70 del 2015, «ne ha sostanzialmente vanificato gli effetti violando, nuovamente quei principi che sono stati posti a fondamento della stessa […] contenuti negli artt. 3, 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost.».

Sarebbe evidente la violazione «dell’art. 3 della Costituzione: principio di ragionevolezza ed uguaglianza; dell’art. 36, comma 1, della Costituzione: principio di proporzionalità tra pensione percepita e retribuzione goduta nel corso dell’attività lavorativa; dell’art. 38, comma 2, della Costituzione: principio di adeguatezza», poiché la parziale o mancata rivalutazione automatica delle pensioni, per due anni consecutivi e la sua reiterazione, oltre a vanificare nel tempo il valore del trattamento di quiescenza, pregiudicherebbe, altresì, la proporzionalità tra pensione e retribuzione goduta nel corso dell’attività lavorativa, tutelata dagli artt. 38 e 36 Cost. e discriminerebbe irragionevolmente i percettori di pensioni superiori a tre volte i minimi INPS rispetto ai percettori di pensioni ancor meno elevate, così violando anche il principio di ragionevolezza previsto dall’art. 3 Cost.

2.2.– Con specifico riferimento all’art. 1, comma 1, numero 1), del d.l. n. 65 del 2015, la difesa della parte costituita deduce anche la violazione dell’art. 136 Cost. Il decreto-legge citato e la successiva legge di conversione avrebbero violato il giudicato costituzionale, con il proporre nuovamente il blocco della rivalutazione per il 2012-2013 già dichiarato incostituzionale, limitandosi a innalzare la soglia, e facendo venire meno per il ricorrente il diritto riconosciuto dalla Corte costituzionale.

2.3.– Infine, la parte costituita afferma l’insussistenza delle ragioni di ordine finanziario indicate dall’alinea dell’art. 1, comma 1, del d.l. n. 65 del 2015 («Al fine di dare attuazione ai principi enunciati nella sentenza della Corte costituzionale n. 70 del 2015, nel rispetto del principio dell’equilibrio di bilancio e degli obiettivi di finanza pubblica, assicurando la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, anche in funzione della salvaguardia della solidarietà intergenerazionale, […]»). Tali ragioni non si potrebbero porre a fondamento dell’intervento censurato, atteso che «la copertura degli oneri necessari per l’adeguamento delle pensioni è garantita dagli introiti delle aliquote contributive a tale fine introdotte» dall’art. 3 della legge 29 maggio 1982, n. 297 (Disciplina del trattamento di fine rapporto e norme in materia pensionistica).

3.– Con ordinanza del 10 marzo 2016 (reg. ord. n. 101 del 2016), la Corte dei conti, sezione giurisdizionale regionale per l’Emilia-Romagna, in funzione di giudice unico delle pensioni, ha sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3, 23, 36, 38, 53, 117, primo comma – quest’ultimo, in relazione all’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950 e all’art. 1 del Protocollo addizionale alla stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952, atti entrambi ratificati e resi esecutivi con la legge 4 agosto 1955, n. 848 – e 136 Cost., questioni di legittimità costituzionale dell’art. 24, commi 25, lettera e), e 25-bis del d.l. n. 201 del 2011, come sostituito (il comma 25) e inserito (il comma 25-bis), rispettivamente, dai numeri 1) e 2) del comma 1 dell’art. 1 del d.l. n. 65 del 2015.

3.1.– Il giudice rimettente riferisce, in punto di fatto: di essere investito di due ricorsi proposti, nei confronti dell’INPS, da dieci pensionati titolari di pensioni superiori a sei volte il trattamento minimo INPS, nei confronti, tra l’altro, della mancata rivalutazione automatica del proprio trattamento pensionistico in applicazione dell’art. 24, comma 25, dello stesso d.l. n. 201 del 2011; che i ricorrenti si dolevano del fatto che la mancata rivalutazione automatica del proprio trattamento pensionistico violava gli artt. 3, 36, 38 e 53 Cost.; che l’INPS replicava con memorie depositate il 12 e il 26 settembre 2013; di avere sollevato questioni di legittimità costituzionale del menzionato art. 24, comma 25, nel testo previgente, le quali erano state decise dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 70 del 2015; che, dopo tale sentenza, i ricorrenti hanno chiesto la fissazione di una nuova udienza, ai sensi dell’art. 297 del codice di procedura civile, e, con successive memorie, hanno eccepito l’illegittimità costituzionale dei commi 25, lettera e), e 25-bis dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011, come medio tempore sostituito (il comma 25) e inserito (il comma 25-bis), rispettivamente, dai numeri 1) e 2) del comma 1 dell’art. 1 del d.l. n. 65 del 2015; che l’INPS ha controdedotto con memoria depositata il 4 dicembre 2015; che i ricorrenti, in aggiunta alla domanda originaria avente a oggetto il mancato riconoscimento della perequazione relativa agli anni 2012 e 2013, hanno formulato anche quella concernente il biennio 2014-2015 nonché il periodo successivo «a decorrere dal 2016»; che l’INPS, sollecitato ai sensi dell’art. 101 cod. proc. civ., ha ritenuto che tale pretesa costituisse una domanda nuova e, pertanto, inammissibile; di ritenere tale eccezione dell’INPS non fondata, in quanto la suddetta pretesa non integra, ai sensi degli artt. 183 e 189 cod. proc. civ., una domanda nuova bensì un’estensione della domanda originaria (emendatio libelli).

3.2.– Il giudice a quo ritiene di dovere anzitutto ricostruire il dictum della sentenza della Corte costituzionale n. 70 del 2015, precisando che, a tale fine, è a suo avviso necessario il «richiamo congiunto della motivazione e del dispositivo», atteso che la sentenza n. 70 del 2015, ancorché «declaratoria di illegittimità costituzionale secca», afferma, in chiusura della motivazione, l’incostituzionalità della norma censurata «nei termini esposti». Dopo avere citato ampi stralci dei punti 8 e 10 del Considerato in diritto della sentenza n. 70 del 2015, il giudice rimettente conclude che «se per un verso l’an circa la spettanza della perequazione non può essere negata ai percipienti trattamenti pensionistici […], per altro verso, in ragione di concorrenti interessi di rilevanza costituzionale, è consentito al legislatore calibrarne il “quantum di tutela” nel rispetto dei “limiti della ragionevolezza e proporzionalità”».

3.3.– Da ciò risulterebbe, secondo la Corte rimettente, che i denunciati commi 25 e 25-bis del d.l. n. 201 del 2011 violano, rispettivamente, gli artt. 3, 36, 38 e 136 Cost., e gli artt. 3, 36 e 38 Cost.

Il giudice a quo osserva anzitutto che, mentre il censurato art. 24, comma 25, lettera e), «può considerarsi “riproduttivo” della disposizione espunta dall’ordinamento con la citata sentenza caducatoria», il successivo comma 25-bis ne costituisce il «prolungamento», poiché innalza la soglia dell’esclusione dalla perequazione ai trattamenti complessivamente superiori a sei volte il trattamento minimo INPS.

Il comma 25, lettera e), dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011, in quanto «riproduttivo» di una disposizione dichiarata incostituzionale, dovrebbe essere oggetto di uno scrutinio di stretta ragionevolezza, nel senso che l’art. 136 Cost. impone al legislatore di accettare l’immediata cessazione dell’efficacia giuridica della norma dichiarata incostituzionale.

Né si rivelerebbe perspicuo, in relazione a quanto affermato dalla sentenza n. 70 del 2015, l’alinea dell’art. 1 del d.l n. 65 del 2015, che si propone – secondo il rimettente in modo non convincente – di bilanciare l’interesse pubblico perseguito dal legislatore e il sacrificio imposto ai pensionati.

Il giudice a quo si sofferma poi sulle differenze fra il regime della perequazione introdotto con la disposizione caducata e riprodotta (art. 24, comma 25, lettera e) e quello previsto dall’art. 1, comma 19, della legge n. 247 del 2007 (oggetto della sentenza della Corte costituzionale n. 316 del 2010), quanto alla durata del blocco, alla generica esemplificazione delle esigenze di equilibrio di bilancio, e alla soglia dei trattamenti presi in considerazione.

Alla stregua di tali considerazioni, emergerebbe la non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 24, comma 25, lettera e), del d.l. n. 201 del 2011, in riferimento agli artt. 3, 36, 38 e 136 Cost., atteso che detta disposizione «di fronte a una pronuncia di carattere caducatorio circa l’azzeramento della perequazione […] per tutti i trattamenti pensionistici e non “in parte qua”, limitatamente cioè ai trattamenti previdenziali modesti, persevera nell’azzerare per taluni trattamenti pensionistici superiori ad una determinata soglia la perequazione».

Analogo dubbio investirebbe, in riferimento agli artt. 3, 36 e 38 Cost., la disciplina «a regime» dell’art. 24, comma 25-bis, che non solo prolunga il blocco, ma anche esclude, per la sola categoria dei titolari di trattamenti pensionistici complessivamente superiori a sei volte il minimo INPS, il meccanismo della rivalutazione, la cui funzione è di collegare i trattamenti pensionistici all’inflazione.

Tale disciplina si porrebbe quindi in conflitto «con il precetto della “adeguatezza” (artt. 38, secondo comma, 36 e 3 Cost.) della prestazione pensionistica nel tempo in quanto detto precetto presuppone la permanenza delle condizioni di effettività della prestazione economica garantita».

Il giudice rimettente sottolinea ancora che la Corte costituzionale ha sì affermato che, in ragione delle necessarie attuali prospettive pluriennali del ciclo di bilancio, sacrifici gravosi non possono non interessare periodi più lunghi rispetto a quelli presi in considerazione in precedenti sentenze della stessa Corte, ma ha aggiunto che tali periodi devono essere «definiti» (sono citate la sentenza n. 310 del 2013 e l’ordinanza n. 113 del 2014).

3.4.– Ad avviso del giudice a quo, l’art. 24, comma 25, lettera e), del d.l. n. 201 del 2011, potrebbe porsi in contrasto anche con gli artt. 2, 3 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6 della CEDU, in quanto, riproducendo, con effetti retroattivi, la disciplina – già espunta dall’ordinamento con la sentenza della Corte costituzionale n. 70 del 2015 – che non riconosce la rivalutazione dei trattamenti pensionistici complessivamente superiori a sei volte il trattamento minimo INPS, violerebbe «in termini di ragionevolezza [il] principio del legittimo affidamento e di certezza del diritto».

Il rimettente si interroga circa il quadro normativo preesistente alla disposizione censurata, tale da fare sorgere nei pensionati la ragionevole fiducia nel non azzeramento della perequazione e da far loro ritenere che l’art. 24, comma 25, lettera e), comporti «una radicale e irreversibile incisione sulle situazioni soggettive dei pensionati, dopo la pronuncia n. 70 del 2015», analoga a quella censurata dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 216 del 2015.

3.5.– Secondo il giudice rimettente, l’art. 24, commi 25, lettera e), e 25-bis, del d.l. n. 201 del 2011, potrebbe altresì violare gli artt. 2, 3 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU, che riconosce a ogni persona il «diritto al rispetto dei suoi beni».

Il rimettente evidenzia che la Corte europea dei diritti dell’uomo ha affermato più volte che nella nozione di «beni» rientrano non solo i «beni attuali» ma anche i crediti e, tra questi, quelli relativi a una pensione, a condizione che «il titolare di essi abbia sufficiente fondamento nel diritto interno».

Ciò avverrebbe, secondo il giudice a quo, per i percettori di un reddito complessivamente superiore a sei volte il minimo INPS, i cui diritti sarebbero stati permanentemente incisi. Lo stesso rimettente asserisce che «il legislatore, con la normativa oggetto di dubbio, non sembra avere disciplinato detto “bene”, e cioè la “perequazione automatica”, nel rispetto del requisito dell’equo bilanciamento alla luce del principio per cui ogni ingerenza su un “bene” della persona debba essere ragionevolmente proporzionata al fine perseguito».

3.6.– Il rimettente ritiene infine che l’art. 24, commi 25, lettera e), e 25-bis, del d.l. n. 201 del 2011, violi anche gli artt. 2, 3, 23 e 53 Cost., «in relazione alla presunta natura tributaria della misura in esame».

Secondo il giudice a quo, il censurato azzeramento della rivalutazione automatica «per gli anni 2012-2013, 2014-2015 e dal 2016» presenterebbe tutti e tre gli elementi che, secondo la Corte costituzionale, connotano le prestazioni patrimoniali di natura tributaria. Esso dà luogo a una prestazione patrimoniale imposta, realizzata attraverso un atto autoritativo di carattere ablatorio, destinato a reperire risorse per l’erario; tale decurtazione «non integra, per definizione, una modifica di un rapporto sinallagmatico»; le risorse, «connesse al presupposto economicamente rilevante, individuato nel superamento della predetta fascia pensionistica, e derivanti dalla suddetta decurtazione, sembrano […] destinate a sovvenire pubbliche spese», tenuto conto della previsione di cui all’art. 17, comma 1, lettera b), della legge 31 dicembre 2009, n. 196 (Legge di contabilità e finanza pubblica), nonostante l’assenza di una espressa indicazione della destinazione di tali risorse. Nella specie, peraltro, tale destinazione sarebbe desumibile dall’alinea dell’art. 1 del d.l. n. 65 del 2015.

Tanto premesso, il rimettente afferma che vi sarebbe lesione del principio dell’universalità dell’imposizione a parità di capacità contributiva, con conseguente violazione del principio di eguaglianza.

3.7.– In punto di rilevanza, il giudice a quo rappresenta che la disciplina censurata «trova applicazione nel caso di specie, in quanto la misura dei trattamenti pensionistici in godimento dei ricorrenti è superiore al limite di sei volte il minimo INPS ».

4.– Con ordinanza del 30 aprile 2016 (reg. ord. n. 124 del 2016), il Tribunale ordinario di Milano, sezione lavoro, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale: in via principale, dell’art. 24, comma 25, del d.l. n. 201 del 2011, come sostituito dal numero 1) dell’art. 1 del d.l. n. 65 del 2015, e, in particolare, delle disposizioni di cui alle lettere b), c), d) ed e) di detto comma 25, in riferimento agli artt. 3, 36, primo comma, 38, secondo comma, e 136 Cost.; in via subordinata, del «combinato disposto del DL 65» del 2015 e dell’art. 1, comma 483, della legge n. 147 del 2013, e, in particolare, della disposizione di cui alla lettera e) di detto comma 483, in riferimento agli artt. 3, 36, primo comma, 38, secondo comma, Cost.

4.1.– Il giudice rimettente riferisce, in punto di fatto: di essere investito del ricorso proposto nei confronti dell’INPS da sette pensionati titolari di trattamenti a carico di tale Istituto; che i ricorrenti hanno chiesto – previa rimessione alla Corte costituzionale di questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1 del d.l. n. 65 del 2015 e dell’art. 1, comma 483, della legge n. 147 del 2013 – la condanna dell’INPS a corrispondere loro «quanto maturato per la mancata rivalutazione» dei propri trattamenti pensionistici per gli anni 2012, 2013 e 2014; che l’INPS si è costituito in giudizio contestando il ricorso in fatto e in diritto; di avere preliminarmente respinto le eccezioni di nullità del ricorso sollevate dall’INPS per l’omessa specificazione dei fatti costitutivi del diritto, atteso che era pacifico e «documentale» in giudizio che tutti i ricorrenti sono titolari di un trattamento pensionistico a carico dell’INPS «variamente inciso dalle conseguenze collegate al DL 65/15»; che il procuratore dei ricorrenti, in seguito a un’ordinanza dello stesso rimettente, ha depositato una nota difensiva, non contestata dall’INPS, indicando per ciascuno di essi l’ammontare lordo della pensione percepita.

4.2.– In punto di non manifesta infondatezza, il Tribunale rimettente afferma che il denunciato comma 25 dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011 presenta plurimi profili di incostituzionalità.

4.2.1.– Esso violerebbe, anzitutto, l’art. 136 Cost.

Il rimettente afferma che, con riguardo ai trattamenti pensionistici superiori a sei volte il minimo INPS, il legislatore «ha pedissequamente riprodotto la norma dichiarata incostituzionale».

In proposito, il Tribunale rimettente rappresenta che la sentenza n. 70 del 2015, nell’affermare che l’art. 24, comma 25, del d.l. n. 201 del 2011 (nel suo testo originario), era eccentrico rispetto ai precedenti in materia, sia in quanto incideva sui trattamenti pensionistici di importo meno elevato, a prescindere dal loro ammontare, sia per la sua durata biennale, non aveva limitato tale valutazione alle pensioni di modesta entità ma si era riferita anche ai trattamenti «di valore più cospicuo».

Nella normativa censurata, d’altro canto, non sarebbe rinvenibile alcuna indicazione circa le ragioni che giustificherebbero il permanere del blocco della rivalutazione delle pensioni superiori a sei volte il trattamento minimo INPS per una durata così significativa. Il rimettente osserva in proposito che nella Relazione illustrativa al «Disegno di Legge n. 65/15» ci si limita solo a evocare le necessità di bilancio che giustificavano l’intervento.

Il Tribunale ordinario di Milano sottolinea ancora che, secondo l’INPS, le misure previste dal d.l. n. 65 del 2015 si sarebbero rese necessarie anche ai sensi dell’art. 17, comma 13, secondo periodo, della legge n. 196 del 2009, e richiama la Relazione illustrativa, carente, secondo la sua valutazione, di adeguate valutazioni.

La scelta legislativa sarebbe, d’altro canto, ancor più incongruente ove si consideri che la menzionata Relazione dà atto, con riferimento al periodo 2007-2014, della riduzione del potere di acquisto di ampie fasce di lavoratori.

Da ciò conseguirebbe che la violazione dell’art. 136 Cost. sussisterebbe anche con riguardo alla posizione dei titolari di trattamenti pensionistici che, superiori a tre volte il trattamento minimo INPS, siano pari o inferiori a sei volte lo stesso.

4.2.2.– Il comma 25 dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011 violerebbe, poi, gli artt. 3, 36 e 38 Cost., e, in particolare: il principio di adeguatezza del trattamento pensionistico, di cui all’art. 38 Cost.; il «principio di proporzionalità», di cui all’art. 36 Cost.; l’interpretazione congiunta di tali articoli con l’art. 3 Cost., in relazione al principio di ragionevolezza.

In proposito, varrebbero, secondo il rimettente, le stesse ragioni di contrasto ritenute dalla sentenza n. 70 del 2015.

La disposizione censurata avrebbe, infatti, disatteso quanto affermato da tale sentenza, con riguardo da un lato all’assenza di «alcun elemento utile a dare conto delle ragioni per cui si fosse ritenuto di dare prevalenza alle esigenze finanziarie sui diritti oggetto di bilanciamento», dall’altro al fatto che interventi di riduzione della rivalutazione devono ritenersi ammissibili «ove temporalmente contenuti […] nel termine annuale».

4.3.– In via subordinata, ovvero in caso di rigetto delle anzidette questioni di costituzionalità, il rimettente solleva questione di legittimità costituzionale di più norme, ovvero del d.l. n. 65 del 2015 e dell’art. 1, comma 483, della legge n. 147 del 2013, lettera e), nella parte in cui disciplina la rivalutazione, per l’anno 2014, dei trattamenti pensionistici superiori a sei volte il minimo INPS, in riferimento agli artt. 3, 36, primo comma, 38, secondo comma, Cost.

Il rimettente ritiene che tale «norma, in sé considerata possa resistere alle censure di incostituzionalità», ma che, qualora le sollevate questioni di legittimità costituzionale dell’art. 24, comma 25, del d.l. n. 65 del 2015, fossero ritenute non fondate, «si verrebbe a creare un meccanismo che […] si dovrebbe necessariamente ritenere incostituzionale con riferimento ai trattamenti pensionistici superiori a sei volte il trattamento minimo, per i quali il blocco della rivalutazione riguarderebbe addirittura un triennio».

4.4.– In punto di rilevanza, il Tribunale rimettente rappresenta che, dalla documentazione prodotta dai ricorrenti, emerge che essi hanno ricevuto adeguamenti parziali (se titolari di un trattamento pensionistico superiore a sei volte il minimo) o nessun adeguamento.

5.– Sono intervenuti nel giudizio il Sindacato autonomo dipendenti INAIL in pensione e l’Associazione sindacale nazionale pensionati dipendenti INPS, chiedendo che le questioni sollevate siano accolte.

5.1.– Tali sindacati affermano anzitutto che, ancorché non siano parti del giudizio a quo, sono titolari di un interesse qualificato tale da legittimare, secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale, il loro intervento nel giudizio.

In proposito, deducono che, ai sensi dei rispettivi statuti, non sono portatori di un interesse collettivo alla generica rappresentanza degli interessi economici dei pensionati, ma di quello alla «partecipazione ai pertinenti giudizi».

5.2.– Quanto alla fondatezza delle questioni, gli intervenienti fanno proprie, sostanzialmente, le argomentazioni del rimettente Tribunale di Milano.

6.– Con ordinanza dell’8 febbraio 2016 (reg. ord. n. 188 del 2016), il Tribunale ordinario di Brescia, sezione lavoro, previdenza e assistenza obbligatoria, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale: dell’art. 24, comma 25, del d.l. n. 201 del 2011, come sostituito dal numero 1) dell’art. 1 del d.l. n. 65 del 2015, e, in particolare, delle disposizioni di cui alla lettera e) di detto comma 25, in riferimento agli artt. 3, 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost., all’interpretazione congiunta degli artt. 3, 36 e 38 Cost., e all’art. 136 Cost.; dell’art. 1, comma 483, della legge n. 147 del 2013, e, in particolare, della disposizione di cui alla lettera e) di tale comma 483, in riferimento agli artt. 3, 36, primo comma, 38, secondo comma, Cost., e all’interpretazione congiunta degli artt. 3, 36 e 38 Cost.

6.1.– Il giudice rimettente riferisce, in punto di fatto: di essere investito del ricorso proposto nei confronti dell’INPS da F. L., titolare di un trattamento pensionistico superiore a sei volte il trattamento minimo INPS; che il ricorrente chiedeva – previa rimessione alla Corte costituzionale di questioni di legittimità costituzionale del comma 25 dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011 (nel suo testo previgente) e dell’art. 1, comma 483, della legge n. 147 del 2013 – la condanna dell’INPS a provvedere alla perequazione del proprio trattamento pensionistico ai sensi dell’art. 69 della legge 23 dicembre 2000, n. 388, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2001)»; che lo stesso ricorrente riferiva che il proprio trattamento pensionistico, dal 1° gennaio 2012, non era stato rivalutato ai sensi dell’art. 24, comma 25, del d.l. n. 101 del 2011, e che solo dal gennaio 2014 aveva ricevuto un modesto incremento; che l’INPS, in via preliminare, aveva eccepito l’inammissibilità del ricorso in quanto si era «limitato ad applicare la normativa vigente che il ricorrente reputava essere incostituzionale, ma in relazione alla quale non poteva chiedere la rimessione alla Corte Costituzionale in quanto la stessa poteva pronunciarsi solo in via incidentale»; che, con intervento adesivo dipendente, Dircredito, Associazione sindacale nazionale dell’area direttiva e delle alte professionalità del credito, delle società assicurative, agenzie esattoriali e/o di riscossione tributi, della finanza, delle attività similari e/o strumentali, delle poste, delle fondazioni bancarie e delle Authorities o agenzie nazionali comunque denominate (di seguito: Dircredito), ha sostenuto la fondatezza della domanda del ricorrente; di ritenere infondata l’eccezione preliminare dell’INPS, atteso che «dalla circostanza che l’INPS ha applicato correttamente la vigente disciplina che, ad avviso della parte ricorrente sarebbe viziata da incostituzionalità, discende la necessità/opportunità di sottoporre la questione al giudice delle leggi».

6.2.– In punto di non manifesta infondatezza, il Tribunale rimettente afferma che il censurato comma 25 dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011 ha nuovamente escluso la perequazione dei trattamenti pensionistici complessivamente superiori a sei volte il trattamento minimo INPS, così «contravvenendo […] alle indicazioni fornite dalla Corte Costituzionale» poiché tali trattamenti non sarebbero da considerare “di sicura rilevanza” come, invece, i trattamenti di importo otto volte superiore al trattamento minimo INPS, presi in considerazione dalla Corte Costituzionale, con riferimento al solo 2008, nella sentenza n. 316 del 2010.

Le pensioni superiori a sei volte il trattamento minimo INPS, escluse dalla perequazione per il biennio 2012-2013, sono state attratte nel blocco anche per l’anno 2014, secondo la disciplina della legge n. 147 del 2013.

Pertanto, «in relazione alla novella introdotta dalla legge del 2015 ed […] alla legge n. 147/2013 con riferimento al blocco afferente l’anno 2014» sarebbero violati: il principio di cui all’art. 38, secondo comma, Cost., perché la mancata rivalutazione della pensione ne impedisce la conservazione del valore nel tempo, menomandone l’adeguatezza; il principio di cui all’art. 36, primo comma, Cost., perché la mancata rivalutazione della pensione si pone in contrasto con «il principio di proporzionalità tra pensione (che costituisce il prolungamento in pensione della retribuzione goduta in costanza di lavoro) e retribuzione goduta durante l’attività lavorativa»; il principio derivante dall’interpretazione congiunta degli artt. 3, 36 e 38 Cost., perché la mancata rivalutazione, violando i principi di adeguatezza della prestazione previdenziale e di proporzionalità tra pensione e retribuzione, «altera il principio di eguaglianza e ragionevolezza, causando una irrazionale discriminazione in danno della categoria dei pensionati».

Il solo comma 25 dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011, come sostituito dall’art. 1, comma 1, numero 1), del d.l. n. 65 del 2015, violerebbe inoltre l’art. 136 Cost., poiché alla «lettera c» (recte: lettera e) ha «riproposto», per i trattamenti complessivamente superiori a sei volte il minimo INPS, il blocco della rivalutazione relativa agli anni 2012 e 2013 «già dichiarato incostituzionale» dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 70 del 2015.

6.3.– In punto di rilevanza, il Tribunale rimettente rappresenta che il ricorrente ha chiesto la perequazione della propria pensione «che non gli può essere concessa né dall’INPS né da questo Giudice proprio in applicazione della normativa di cui si contesta la costituzionalità».

7.– Si è costituito F. L., ricorrente nel giudizio principale, chiedendo che le questioni sollevate siano accolte.

7.1.– Con riguardo ai «profili di incostituzionalità individuati dalla sentenza n. 70/2015», la parte costituita osserva che nel testo della disposizione censurata «non vi è alcuna traccia delle ragioni che, nel necessario bilanciamento dei rispettivi interessi, avrebbero indotto il legislatore a pregiudicare l’interesse dei pensionati»; il blocco della perequazione dei trattamenti pensionistici superiori a sei volte il minimo INPS sembra contrastare con il principio, ricavabile dalla sentenza n. 70 del 2015, in base al quale il punto di equilibrio tra l’interesse dei pensionati e le esigenze finanziarie dello Stato va ricercato all’interno del meccanismo della perequazione che, quindi, dovrebbe sempre essere prevista; anche i trattamenti pensionistici da quattro a sei volte il trattamento minimo INPS sono stati gravemente incisi, con una graduazione ritenuta discutibile quanto alla proporzionalità e all’adeguatezza; la soglia da cui opera l’azzeramento della perequazione è ben inferiore a quella, di otto volte il minimo INPS, che, nella sentenza n. 316 del 2010, la Corte costituzionale aveva ritenuto «un limite d’importo di sicura rilevanza».

La stessa parte aggiunge che il blocco previsto si estende per il 2012 e il 2013 e si prolungherà anche nel 2014 (in base all’altra disposizione censurata). Mancherebbe quindi del tutto uno dei due elementi, la durata limitata nel tempo del sacrificio imposto ai titolari delle pensioni più elevate, che avevano indotto la Corte costituzionale a rigettare, con la sentenza n. 316 del 2010, le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 19, della legge n. 247 del 2007.

Sarebbe, infine, indubbio il contrasto con il giudicato costituzionale, atteso che la disposizione censurata otterrebbe «sostanzialmente lo stesso risultato già perseguito dal legislatore con il precedente testo dichiarato incostituzionale».

7.2.– Quanto alle questioni aventi a oggetto l’art. 1, comma 483, della legge n. 147 del 2013, la parte costituita ritiene che le ragioni di incostituzionalità prospettate dal giudice rimettente non siano intaccate dalla sentenza n. 70 del 2015. Profili di criticità emergerebbero tenuto conto che la disposizione censurata: non fa cenno alle ragioni che giustificherebbero il pregiudizio recato alle ragioni dei pensionati; incide su tutti i trattamenti pensionistici superiori a tre volte il minimo INPS e, quindi, anche su quelli di minore ammontare; infligge alle pensioni un pregiudizio che si estende per ben tre anni (dal 2014 al 2016), mentre, «se è vero che il blocco totale della rivalutazione automatica delle pensioni superiori a sei volte il minimo è previsto per un solo anno (il 2014), è vero anche, però, che esso si aggiunge all’analogo blocco imposto dall’art. 24, comma 25, del decreto-legge n. 201/2011, alle medesime pensioni […] per il biennio 2012-2013».

La parte costituita precisa di non ignorare che, con la sentenza n. 173 del 2016, la Corte costituzionale ha dichiarato la non fondatezza di questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 483, della legge n. 147 del 2013, in riferimento agli artt. 3, 36 e 38 Cost. (oltre che all’art. 53 Cost.). Tale dichiarazione, tuttavia, sarebbe basata su «profili […] non sovrapponibili a quelli di cui al presente giudizio», sottolineando, tra l’altro, che la sentenza n. 173 del 2016 non avrebbe preso in considerazione il “nuovo” testo dell’art. 24, comma 25, del d.l. n. 65 del 2015, sicché «l’effetto complessivo, del combinato disposto delle due norme (e cioè il prolungamento del blocco totale delle perequazioni per tre anni consecutivi, dal 2012 fino al 2014), non ha formato oggetto dell’esame della Corte».

8.– Si è costituita Dircredito, interveniente adesiva dipendente nel giudizio principale, prospettando deduzioni di contenuto identico a quelle di cui all’atto di costituzione di F. L.

9.– Con ordinanza del 15 luglio 2016 (reg. ord. n. 237 del 2016), il Tribunale di Napoli, sezione lavoro, previdenza e assistenza obbligatoria, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost., al «combinato disposto» degli artt. 3, 36 e 38 Cost., e all’art. 136 Cost., questioni di legittimità costituzionale dell’art. 24, comma 25, del d.l. n. 201 del 2011, come sostituito dal numero 1) dell’art. 1 del d.l. n. 65 del 2015, e, in particolare, delle disposizioni di cui alla lettera e) di detto comma 25 (unica lettera citata nelle conclusioni dell’ordinanza).

9.1.– Il giudice rimettente riferisce, in punto di fatto: di essere investito del ricorso proposto nei confronti dell’INPS da quindici pensionati; che i ricorrenti chiedevano – previa rimessione alla Corte costituzionale di questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1 del d.l. n. 65 del 2015 – la condanna dell’INPS a provvedere alla perequazione del proprio trattamento pensionistico, ai sensi dell’art. 69 della legge n. 388 del 2000, per gli anni 2012 e 2013; che gli stessi ricorrenti riferivano che, dal 1° gennaio 2012, ai sensi della disposizione di cui denunciavano l’incostituzionalità, la loro pensione non era stata rivalutata; che l’INPS, in via preliminare, aveva eccepito l’inammissibilità del ricorso in quanto si era «limitato ad applicare la normativa vigente che i ricorrenti reputavano essere incostituzionale, ma in relazione alla quale non potevano chiedere la rimessione alla Corte Costituzionale in quanto la stessa poteva pronunciarsi solo in via incidentale»; di ritenere infondata l’eccezione preliminare dell’INPS, atteso che «dalla circostanza che l’INPS ha applicato correttamente la vigente disciplina che, ad avviso delle parti ricorrenti sarebbe viziata da incostituzionalità, discende la necessità/opportunità di sottoporre la questione al giudice delle leggi».

9.2.– In punto di non manifesta infondatezza, il rimettente prospetta argomentazioni coincidenti con quelle dell’ordinanza del Tribunale ordinario di Brescia (reg. ord. n. 188 del 2016), per la parte di questa relativa alla non manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 24, comma 25, del d.l. n. 101 del 2011, come sostituito dal numero 1) dell’art. 1 del d.l. n. 65 del 2015.

9.3.– In punto di rilevanza, il Tribunale rimettente rappresenta che i ricorrenti hanno chiesto «la perequazione della loro pensione con la conseguente riliquidazione ed il pagamento di una differenza sul trattamento pensionistico pregresso che non gli può essere concessa né dall’INPS né da questo Giudice proprio in applicazione della normativa di cui si contesta la costituzionalità», che «imped[isce] la perequazione della pensione dei ricorrenti (titolari di un trattamento superiore a sei volte il trattamento minimo) o, comunque, per alcuni di essi, […] la perequazione totale».

10.– Con ordinanza del 9 agosto 2016 (reg. ord. n. 242 del 2016), il Tribunale ordinario di Genova, sezione lavoro, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale: dell’art. 24, commi 25 e 25-bis del d.l. n. 201 del 2011, come sostituito (il comma 25) e inserito (il comma 25-bis), rispettivamente dai numeri 1) e 2) dell’art. 1 del d.l. n. 65 del 2015, e, in particolare, quanto al comma 25, della disposizione di cui alla lettera b) dello stesso, in riferimento agli artt. 3, 36, primo comma, 38, secondo comma, e 136 Cost.; in via subordinata, delle medesime disposizioni «in collegamento» con l’art. 1, comma 483, della legge n. 147 del 2013, come modificato dall’art. 1, comma 286, lettera b), della legge 28 dicembre 2015, n. 208, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2016)», e, in particolare, con le disposizioni di cui alle lettere d) ed e), primo periodo, di tale comma 483.

10.1.– Il giudice rimettente riferisce, in punto di fatto: di essere investito dei ricorsi proposti, nei confronti dell’INPS, da P. R, G. D. R e A. P, titolari di trattamenti pensionistici, a carico di tale Istituto; che i ricorrenti hanno chiesto – previa rimessione alla Corte costituzionale di questioni di legittimità costituzionale dell’art. 24, commi 25, 25-bis e 25-ter del d.l. n. 201 del 2011, dell’art. 1, comma 483, della legge n. 147 del 2013, e dell’art. 34 della legge 23 dicembre 1998, n. 448 (Misure di finanza pubblica per la stabilizzazione e lo sviluppo) – l’accertamento del loro diritto alla perequazione automatica «integrale» del trattamento pensionistico per gli anni 2012 e 2013, con la conseguente condanna dell’INPS a corrispondere loro gli «importi così maturati anche sui ratei arretrati»; che l’INPS si è costituito in giudizio contestando la fondatezza dei ricorsi e chiedendone il rigetto.

10.2.– Dopo avere affermato che la dichiarazione di illegittimità costituzionale del blocco della rivalutazione delle pensioni previsto dal previgente comma 25 dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011 «ha avuto l’effetto di ripristinare l’integrale applicazione del meccanismo perequativo previsto dall’art. 34, primo comma, l. 448/98», il Tribunale rimettente sostiene la non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dei denunciati commi 25 e 25-bis dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011.

Il giudice a quo osserva che l’intervento operato con il d.l. n. 65 del 2015 è «motivato […] da enunciazioni generiche» anche nella Relazione illustrativa al disegno di legge di conversione del decreto.

Tale intervento si discosterebbe dalle finalità solidaristiche che sorreggevano il blocco della perequazione previsto – per un solo anno e per i soli trattamenti superiori a otto volte il minimo INPS – dall’art. 1, comma 19, della legge n. 247 del 2007, ritenuto conforme a Costituzione dalla sentenza della Corte costituzionale n. 316 del 2010. Al contrario, il comma 25 dell’art. 24 «ha effetti distribuiti su più anni e destinati a divenire permanenti, poiché non v’è previsione di recupero futuro del mancato incremento rivalutativo della base di calcolo dei trattamenti pensionistici», con la conseguenza che «si è […] realizzata […] una reiterazione annuale della paralisi del meccanismo perequativo».

La normativa censurata, inoltre, inciderebbe su pensioni di valore inferiore alla metà di quelle che la sentenza n. 316 del 2010 aveva ritenuto dotate di «margini di resistenza» alla perdita del potere d’acquisto.

La stessa normativa avrebbe quindi introdotto «uno strumento che eccede nell’opera di riequilibrio finanziario rispetto al fine dichiarato », da ritenersi irragionevole.

Il rimettente sottolinea ancora che la normativa censurata fa seguito a numerose diposizioni che hanno limitato la funzionalità della perequazione delle pensioni, con la conseguenza che, con il d.l. n. 65 del 2015, «si è […] riprodotta quella “frequente reiterazione” (Corte cost., 316/2010) di misure capace di paralizzare per un lungo periodo l’adeguamento concepito per evitare la perdita di potere d’acquisto delle pensioni».

Non potrebbe quindi che ritenersi non manifestamente infondata «l’eccezione d’incostituzionalità delle norme predette rispetto ai parametri forniti dalla lettura sistematica degli artt. 3, 36, primo comma, e 38, secondo comma, della Costituzione».

10.3.– La stessa normativa contrasterebbe anche con l’art. 136 Cost.

Il giudice rimettente afferma che, alla luce di quanto esposto, la normativa censurata neutralizza gli effetti della sentenza della Corte costituzionale n. 70 del 2015 – in particolare «i vantaggi economici […] che ne sarebbero derivati per i titolari delle pensioni incise col ritorno all’applicazione dell’art. 69, primo comma, l. n. 388/2000» – utilizzando «una tecnica in parte già censurata dalla stessa decisione». L’elusione del giudicato sarebbe, poi «massimamente evidente per le pensioni di valore complessivo superiore a sei volte il trattamento minimo».

10.4.– In via subordinata, nel caso siano ritenute conformi a Costituzione le disposizioni dei commi 25 e 25-bis dell’art. 24 del d.l. n. 101 del 2011, il rimettente ha sollevato questioni di legittimità costituzionale della medesime disposizioni «in collegamento» con l’art. 1, comma 483, della legge n. 147 del 2013, come modificato dall’art. 1, comma 286, lettera b), della legge n. 208 del 2015, e, in particolare, con le disposizioni di cui alle lettere d) ed e), primo periodo, di tale comma 483 (uniche lettere citate nelle conclusioni dell’ordinanza).

Il giudice a quo afferma che, qualora le questioni di legittimità costituzionale dei commi 25 e 25-bis dell’art. 24 del d.l. n. 101 del 2011 non fossero ritenute fondate, ciò «comporterebbe l’azzeramento della rivalutazione annuale delle pensioni d’importo sei volte superiore al trattamento minimo per un triennio ed un’applicazione successiva del meccanismo perequativo in misura inferiore alla metà per un ulteriore triennio».

Il sacrificio che ne deriverebbe risulterebbe sproporzionato e, quindi, irragionevole, con la conseguente non manifesta infondatezza delle questioni sempre in riferimento agli artt. 3, 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost.

10.5.– In punto di rilevanza delle questioni, il rimettente deduce che, poiché le pensioni dei ricorrenti si collocano nelle fasce di importo di cui alle lettere, rispettivamente, b), c) e d) del comma 25 dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011 (nel testo vigente), nell’agosto del 2015, ciascuno di essi ha percepito un importo ridotto nella proporzione stabilita dalla norma, anziché l’ammontare integrale della rivalutazione maturata nel biennio 2012-2013. L’incidenza sulle pensioni è stata protratta nel tempo dal legislatore, che ha adottato percentuali riduttive diverse per il triennio 2014-2016 in forza del comma 25-bis, lettere a) e b), inserito nell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011 dall’art. 1, comma 1, numero 2), del d.l. n. 65 del 2015. La valutazione di legittimità delle norme citate rileva per la decisione della causa e per l’accertamento del diritto dei ricorrenti all’integrale perequazione.

11.– Si sono costituiti P. R, G. D. R e A. P, ricorrenti nel giudizio principale, chiedendo che le questioni sollevate siano accolte.

I commi 25 e 25-bis dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011 violerebbero anzitutto l’art. 3 Cost., atteso che, per le pensioni di importo non elevato (fino a otto volte la minima) il legislatore del 2015 non ha posto in essere «alcun tentativo di spiegazione […] sia sull’an del dare, sia, in caso affermativo, sul quantum», così ledendo il principio di ragionevolezza, in assenza di «qualunque forma di bilanciamento tra valori di pari rango costituzionale».

I censurati commi 25 e 25-bis violerebbero, inoltre, gli artt. 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost., presentando i profili di contrasto con tali parametri che avevano indotto la Corte costituzionale a dichiarare l’illegittimità costituzionale del comma 25 nel suo testo originario.

I menzionati commi 25 e 25-bis violerebbero, infine, l’art. 136 Cost. in quanto non darebbero «alcuna esecuzione pratica» alla sentenza della Corte costituzionale n. 70 del 2015, lasciando ferme le «violazioni già presenti» nella disposizione dichiarata incostituzionale con tale sentenza.

12.– Con ordinanza del 9 agosto 2016 (reg. ord. n. 243 del 2016), il Tribunale ordinario di Genova, sezione lavoro, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale: in via principale, dell’art. 24, commi 25 e 25-bis del d.l. n. 201 del 2011, come sostituito (il comma 25) e inserito (il comma 25-bis), rispettivamente dai numeri 1) e 2) dell’art. 1 del d.l. n. 65 del 2015, e, in particolare, quanto al comma 25, della disposizione di cui alla lettera b) dello stesso, in riferimento agli artt. 3, 36, primo comma, 38, secondo comma, e 136 Cost.; in via subordinata, delle medesime disposizioni «in collegamento» con l’art. 1, comma 483, della legge n. 147 del 2013, come modificato dall’art. 1, comma 286, lettera b), della legge n. 208 del 2015, e, in particolare, con le disposizioni di cui alle lettere d) ed e), primo periodo, di tale comma 483.

12.1.– Il giudice rimettente riferisce, in punto di fatto: di essere investito del ricorso proposto, nei confronti dell’INPS, da A. C e M. M., titolari di trattamenti pensionistici, il secondo «oltre cinque volte superiore al trattamento minimo» e il primo «nella fascia immediatamente superiore»; che i ricorrenti hanno chiesto – previa rimessione alla Corte costituzionale di questioni di legittimità costituzionale dell’art. 24, comma 25, del d.l. n. 201 del 2011, «anche» nel testo sostituito dall’art. 1, comma 1, numero 1), del d.l. n. 65 del 2015 – l’accertamento del loro diritto alla perequazione automatica del trattamento pensionistico per gli anni 2012 e 2013 «per effetto della sentenza della Corte costituzionale 70/2015 e comunque in applicazione della norma di cui all’art. 69, primo comma, legge 388/2000», con la conseguente condanna dell’INPS a corrispondere loro gli «importi così maturati anche sui ratei arretrati»; che l’INPS si è costituito in giudizio contestando la fondatezza dei ricorsi e chiedendone il rigetto.

12.2.– In punto di non manifesta infondatezza delle questioni, sia principale sia subordinata, il Tribunale ordinario di Genova adduce motivazioni identiche a quelle dell’ordinanza emessa dallo stesso Tribunale e iscritta al reg. ord. n. 242 del 2016.

12.3.– In punto di rilevanza delle questioni, il rimettente deduce che, come documentato dall’INPS, nell’agosto del 2015 ciascuno dei ricorrenti ha percepito, «a titolo di arretrati per effetto della […] pronuncia n. 70/2015 della Corte costituzionale, un importo ridotto nella proporzione stabilita dalla norma anziché l’ammontare integrale della rivalutazione maturata nel biennio 2012-2013». Il rimettente asserisce quindi che «la disciplina tacciata d’incostituzionalità ha dunque inciso sul valore del trattamento pensionistico goduto dai ricorrenti» e si è protratta ulteriormente nel tempo. Conclude affermando che «la valutazione di legittimità delle norme citate ha dunque rilevanza per la decisione della causa e l’accertamento del diritto dei ricorrenti all’integrale perequazione rivendicata».

13.– Si sono costituiti A. C. e M. M., ricorrenti nei giudizi principali, chiedendo che le questioni sollevate siano accolte.

Entrambe le parti richiamano le argomentazioni dell’ordinanza di rimessione e ribadiscono anzitutto la violazione dell’art. 136 Cost., atteso che il d.l. n. 65 del 2015 «ha riproposto […] la norma già invalidata dalla Corte [costituzionale], dichiarandola sostituita, e per di più con una inammissibile efficacia ex tunc».

Esse ribadiscono anche la violazione degli artt. 3, 36 e 38 Cost., tenuto conto che: la perequazione delle pensioni, per mantenerne il potere di acquisto, è costituzionalmente necessaria al fine di assicurare l’adeguatezza e la proporzionalità del trattamento pensionistico; i blocchi della stessa producono effetti permanenti; la decurtazione permanente delle pensioni, al fine di fronteggiare una «contingente situazione finanziaria», è irragionevole perché è sproporzionata rispetto allo scopo. Dopo aver richiamato la sentenza n. 173 del 2016, le parti ritengono che non potrebbe «essere vanificata la sentenza della Corte costituzionale n. 70 del 2015, là dove ha affermato che il legislatore non aveva ascoltato il monito indirizzatogli dalla sentenza della stessa Corte n. 316 del 2010».

14.– Con ordinanza del 9 agosto 2016 (reg. ord. n. 244 del 2016), il Tribunale ordinario di Genova, sezione lavoro, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale: in via principale, dell’art. 24, commi 25 e 25-bis del d.l. n. 201 del 2011, come sostituito (il comma 25) e inserito (il comma 25-bis), rispettivamente dai numeri 1) 2) dell’art. 1 del d.l. n. 65 del 2015, e, in particolare, quanto al comma 25, della disposizione di cui alla lettera b) dello stesso, in riferimento agli artt. 3, 36, primo comma, 38, secondo comma, e 136 Cost.; in via subordinata, delle medesime disposizioni «in collegamento» con l’art. 1, comma 483, della legge n. 147 del 2013, come modificato dall’art. 1, comma 286, lettera b), della legge n. 208 del 2015, e, in particolare, con le disposizioni di cui alle lettere d) ed e), primo periodo, di tale comma 483.

14.1.– Il giudice rimettente riferisce, in punto di fatto: di essere investito dei ricorsi proposti, nei confronti dell’INPS, da M. F e G. C. T., titolari di trattamenti pensionistici di importo lordo mensile superiore a tre volte il trattamento minimo INPS; che i ricorrenti hanno chiesto – previa rimessione alla Corte costituzionale di questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1 del d.l. n. 65 del 2015 – l’accertamento del loro diritto alla perequazione automatica «integrale» del trattamento pensionistico per gli anni compresi tra il 2012 e il 2015, «in applicazione della norma originaria di cui all’art. 34, primo comma, legge 448/98», con la conseguente condanna dell’INPS a corrispondere loro gli «importi così maturati anche sui ratei arretrati»; che l’INPS si è costituito in giudizio contestando la fondatezza dei ricorsi e chiedendone il rigetto.

14.2.– In punto di non manifesta infondatezza delle questioni, sia principale sia subordinata, il rimettente adduce motivazioni identiche a quelle delle ordinanze emesse dallo stesso Tribunale e iscritte al reg. ord. n. 242 e n. 243 del 2016.

14.3.– In punto di rilevanza delle questioni, il rimettente deduce che, poiché le pensioni dei ricorrenti si collocavano tra il triplo e il quadruplo del trattamento minimo, nell’agosto del 2015, ciascuno di essi ha percepito, «a titolo di arretrati per effetto della […] pronuncia n. 70/2015 della Corte costituzionale, un importo ridotto nella proporzione stabilita dalla norma anziché l’ammontare integrale della rivalutazione maturata nel biennio 2012-2013». Il rimettente asserisce che la disciplina sospettata d’incostituzionalità ha inciso sul valore del trattamento pensionistico goduto dai ricorrenti. Il protrarsi delle misure che hanno reiterato una tale incisione per il triennio 2014-2016 in forza del comma 25-bis, lettere a) e b), inserito nell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011 dall’art. 1, comma 1, numero 2), del d.l. n. 65 del 2015, lo spinge a ritenere che «la valutazione di legittimità delle norme citate ha dunque rilevanza per la decisione della causa e l’accertamento del diritto dei ricorrenti all’integrale perequazione rivendicata».

15.– Si sono costituiti M. F. e G. C. T., ricorrenti nei giudizi principali, chiedendo che le questioni sollevate siano accolte.

Ad avviso delle parti costituite, il d.l. n. 65 del 2015 «non ha saputo correggere l’errore […] evidenziato dalla Consulta» nella sentenza n. 70 del 2015.

Nell’alinea dell’art. 1 del d.l. n. 65 del 2015, le motivazioni dell’intervento sono costituite da «mere enunciazioni […] generiche», che nuovamente non chiariscono «i motivi sulla base dei quali le percentuali di rivalutazione vengano ridotte». Neppure nei lavori preparatori del decreto sarebbe possibile «reperire un’effettiva spiegazione delle ragioni che avrebbero dovuto consentire il rispetto del principio dell’equilibrio di bilancio». Inoltre, diversamente dal blocco della perequazione delle pensioni previsto dall’art. 1, comma 19, della legge n. 247 del 2007, il nuovo testo dell’art. 24, comma 25, del d.l. n. 201del 2011, «non risulta assistito dalle precise ragioni solidaristiche richieste». Le parti costituite concludono affermando che la modifica normativa operata dall’art. 1 del d.l. n. 65 del 2015 «ha dunque introdotto uno strumento che non garantisce la conservazione nel tempo del potere di acquisto delle pensioni incise e, eccedendo nell’opera di riequilibrio finanziario rispetto al fine dichiarato, sacrifica in misura sproporzionata la tutela dei titolari dei trattamenti previdenziali non elevati».

Con riguardo alla questione sollevata in riferimento all’art. 136 Cost. e alle questioni sollevate in via subordinata, le parti costituite ribadiscono, nella sostanza, le argomentazioni del rimettente.

16.– Con ordinanza del 27 settembre 2016 (reg. ord. n. 278 del 2016), il Tribunale ordinario di Torino, sezione lavoro, ha sollevato, in riferimento all’art. 136 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 24, comma 25-bis, del d.l. n. 201 del 2011, inserito dal numero 2) dell’art. 1 del d.l. n. 65 del 2015.

16.1.– Il giudice rimettente riferisce, in punto di fatto: di essere investito del ricorso proposto dal titolare di una pensione VOBANC di importo superiore a sei volte il trattamento minimo INPS, con decorrenza dal 1° luglio 2012; che il ricorrente aveva agito in giudizio «al fine di ottenere il pagamento della differenza tra quanto effettivamente percepito, a seguito del blocco della rivalutazione, con quanto avrebbe avuto diritto applicando la rivalutazione automatica per il periodo dal 2013 sino al luglio 2015»; che lo stesso ricorrente aveva chiesto di sollevare questioni di legittimità costituzionale dei commi 25 e 25-bis dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011, come sostituito (il comma 25) e inserito (il comma 25-bis), rispettivamente, dai numeri 1) e 2) dell’art. 1 del d.l. n. 65 del 2015.

16.2.– Il rimettente, premesso di ritenere manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dei commi 25 e 25-bis dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011 in riferimento agli artt. 36 e 38 Cost., afferma invece la non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale del medesimo comma 25-bis in riferimento all’art. 136 Cost. Ciò in quanto il comma censurato «non fa altro che bloccare la rivalutazione delle pensioni il cui importo sia oltre sei volte il minimo previsto dall’I.N.P.S., con ciò contravvenendo al monito della Corte costituzionale», formulato nella sentenza n. 70 del 2015, «secondo il quale il blocco del meccanismo perequativo deve essere necessariamente contenuto nel tempo».

16.3.– In punto di rilevanza della questione, il rimettente premette che il ricorrente, «sulla base del meccanismo di rivalutazione automatica delle pensioni, come introdotto dall’art. 34, comma 1, della legge 23 dicembre 1998, n. 448, avrebbe diritto alla rivalutazione annua del trattamento pensionistico percepito», la quale «è nuovamente esclusa dalla […] normativa introdotta» dal d.l. n. 65 del 2015.

La rilevanza della questione sarebbe allora «evidente».

Infatti, nel caso in cui detta normativa fosse ritenuta costituzionalmente legittima, il ricorso dovrebbe essere rigettato, atteso che la domanda del ricorrente troverebbe la propria negazione nella legge «che esclude ogni rivalutazione per le pensioni di importo di oltre sei volte rispetto al trattamento minimo INPS […] non solo per gli anni 2012 e 2013, ma anche per gli anni successivi», ai sensi, rispettivamente, del comma 25, lettera e), dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011, e del comma 25-bis dello stesso articolo. Qualora la medesima normativa venisse dichiarata incostituzionale, la domanda del ricorrente dovrebbe essere accolta, «in quanto la rivalutazione della pensione dovrà avvenire secondo i criteri già stabiliti».

Non sarebbe infine possibile un’interpretazione costituzionalmente orientata «delle norme, le quali sono chiare nello stabilire che la rivalutazione, per le pensioni oltre sei volte il trattamento minimo, è esclusa».

17.– Con ordinanza del 2 novembre 2016 (reg. ord. n. 24 del 2017), il Tribunale ordinario di La Spezia, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 36, primo comma, 38, secondo comma, e 136 Cost., dell’art. 24, comma 25, del d.l. n. 201 del 2011, come sostituito dal numero 1) dell’art. 1 del d.l. n. 65 del 2015, e, in particolare, delle disposizioni di cui alle lettere b), d) ed e) di detto comma 25.

17.1.– Il giudice rimettente riferisce, in punto di fatto: di essere investito del ricorso proposto nei confronti dell’INPS da S. P., R. S., V. V., F. M. e F. B.; che i ricorrenti sono titolari di pensioni di valore, rispettivamente, compreso tra tre e quattro volte il trattamento minimo INPS (S. P. e R. S.), compreso tra quattro e cinque volte il trattamento minimo INPS (F. B.) e superiore a sei volte il trattamento minimo INPS (V. V. e F. M.); che gli stessi ricorrenti chiedevano che, previa rimessione alla Corte costituzionale di questioni di legittimità costituzionale del comma 25 dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011, come sostituito dall’art. 1, comma 1, numero 1), del d.l. n. 65 del 2015, fosse dichiarato il proprio diritto al pagamento «delle somme richieste a titolo di arretrati per rivalutazione dei trattamenti pensionistici per gli anni 2012/2013, oltre le differenze successivamente maturate», con corrispondente condanna dell’INPS; che l’INPS si era costituito resistendo alle domande avversarie.

17.2.– Il rimettente ritiene che «la questione d’incostituzionalità sollevata dai ricorrenti sia […] non manifestamente infondata».

Il giudice a quo afferma che il censurato comma 25 dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011 suscita «i medesimi dubbi di legittimità costituzionale già ravvisati dalla Corte [costituzionale] con riferimento alla previgente formulazione [dello stesso] art. 25, comma 24». Analogamente a quest’ultima disposizione, infatti, anche quella oggi censurata: esclude in toto la rivalutazione dei trattamenti pensionistici di importo superiore a sei volte il trattamento minimo e individua «fasce intermedie di valore, nei cui confronti la rivalutazione viene comunque pesantemente incisa»; conferma il blocco della perequazione automatica per un biennio; difetta «dell’indicazione di puntuali ragioni giustificative».

La disposizione censurata, inoltre, rientrerebbe «in un disegno complessivo – quale quello stigmatizzato dalla sentenza n. 316/2010 – di frequente reiterazione di misure intese a paralizzare il meccanismo perequativo, tali da esporre il sistema ad evidenti tensioni con gli invalicabili principi di ragionevolezza e proporzionalità».

Risulterebbe pertanto non manifestamente infondata la questione sollevata dai ricorrenti con riferimento ai principi di proporzionalità del trattamento di quiescenza, inteso quale retribuzione differita, di cui all’art. 36, primo comma, Cost., e di adeguatezza dello stesso trattamento, di cui all’art. 38, secondo comma, Cost., da intendere, quest’ultimo, anche quale espressione del principio di solidarietà, di cui all’art. 2 Cost., nonché quale attuazione del principio di «eguaglianza sostanziale» di cui all’art. 3, secondo comma, Cost.

Parimenti non manifestamente infondata sarebbe l’eccezione di illegittimità costituzionale sollevata dai ricorrenti in riferimento all’art. 136 Cost. Il rimettente deduce che il legislatore, con riguardo ai trattamenti pensionistici superiori a sei volte il trattamento minimo INPS, ha introdotto un blocco totale della perequazione identico a quello che, per il medesimo periodo di tempo, era stato previsto dalla disposizione dichiarata incostituzionale con la sentenza n. 70 del 2015. La violazione del giudicato costituzionale sarebbe ravvisabile – sempre secondo il giudice a quo – anche con riguardo ai trattamenti pensionistici compresi «tra tre e sei volte il minimo», atteso che il legislatore, «a parziale modifica della […] disciplina dichiarata incostituzionale, ha introdotto un blocco parziale, variabile dal 60 al 90% della perequazione che sarebbe spettata in applicazione della disciplina generale: anche in dette ipotesi, infatti, il blocco della perequazione, seppure limitato nel quantum, sconta gli stessi vizi già ravvisati nella sentenza del 2015».

Il Tribunale rimettente ritiene invece manifestamente infondata l’eccezione di legittimità costituzionale sollevata dai ricorrenti in riferimento al «combinato disposto degli artt. 2, 23 e 53 Cost.», atteso che «l’azzeramento della perequazione automatica oggetto di censura» non costituisce una prestazione patrimoniale di natura tributaria.

17.3.– In punto di rilevanza delle questioni, il giudice a quo afferma che «le disposizioni di cui all’art. 1 DL n. 65/2015 […] hanno variamente inciso sul diritto, azionato dagli odierni ricorrenti, ad ottenere la perequazione integrale dei propri trattamenti pensionistici».

18.– Si sono costituiti S. P., R. S., V. V., F. M. e F. B., ricorrenti nel giudizio principale, chiedendo che le questioni siano accolte.

Dopo avere precisato che anche il cosiddetto “trascinamento” – il computo ai fini dei successivi incrementi dei miglioramenti parziali concessi a titolo di perequazione nel 2012 e 2013 – è stato sterilizzato, le parti costituite affermano che, considerato l’interesse dei pensionati, in particolare di quelli titolari di trattamenti modesti, alla conservazione del potere di acquisto delle somme percepite, la disposizione censurata viola «i diritti fondamentali connessi al rapporto previdenziale, fondati su inequivocabili parametri costituzionali». Il legislatore, inoltre, non avrebbe tenuto conto del monito a esso indirizzato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 316 del 2010, tanto più che il blocco della perequazione produrrebbe i propri effetti «in modo permanente, non essendo prevista alcuna forma di recupero negli anni successivi».

Le parti costituite ribadiscono, quindi, tutte le censure già formulate nel giudizio principale, in particolare la violazione del «principio della parità di prelievo a parità di presupposto d’imposta economicamente rilevante».

Altresì violato sarebbe l’art. 136 Cost. Le parti costituite asseriscono che la normativa censurata, «che riconosce solo una parte molto limitata delle rivalutazioni maturate e conferma il blocco totale per alcune fasce di reddito […] non può […] ragionevolmente ritenersi conforme ai principi affermati dalla Corte Costituzionale, ma rappresenta invece una reiterazione rispetto a precedenti provvedimenti […] abrogati dalla Consulta».

19.– Con ordinanza del 7 novembre 2016 (reg. ord. n. 25 del 2017), il Tribunale ordinario di La Spezia, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, secondo comma, 36, primo comma, 38, secondo comma, e 136 Cost., dell’art. 24, comma 25, lettere b) e c), del d.l. n. 201 del 2011, come sostituito dal numero 1) dell’art. 1 del d.l. n. 65 del 2015.

19.1.– Il giudice rimettente riferisce, in punto di fatto: di essere investito dei ricorsi proposti nei confronti dell’INPS da S. N., G. N., M. P., G. V., E. S., V. Z., F. M., C. F. e F. F., «pensionati I.N.P.S.», titolari di trattamenti pensionistici superiori a tre volte il minimo INPS; che gli stessi ricorrenti chiedevano che, previa rimessione alla Corte costituzionale di questioni di legittimità costituzionale del comma 25 dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011, come sostituito dall’art. 1, comma 1, numero 1), del d.l. n. 65 del 2015, fosse accertato «il proprio diritto alla differenza sugli arretrati ad essi spettanti per gli anni 2012-2013-2014-2015 per effetto della sentenza n. 70 del 2015 della […] Corte costituzionale», con la conseguente condanna dell’INPS al pagamento; che l’INPS resisteva in tutte le cause riunite; che nel corso del giudizio gli stessi ricorrenti hanno dichiarato di limitare la propria domanda al capo relativo all’accertamento del proprio diritto, con riserva di agire separatamente per l’esatta quantificazione e liquidazione del credito; che l’INPS aveva accettato tale limitazione della domanda.

19.2.– In punto di non manifesta infondatezza, il rimettente afferma che il censurato art. 24, comma 25, del d.l. n. 201 del 2011, contrasta, anzitutto, con l’art. 136 Cost.

Il Tribunale rimettente premette che il vigente comma 25 « ha introdotto un meccanismo che rivaluta in percentuali limitate e progressivamente riducentesi tutti i trattamenti». Lo stesso Tribunale deduce poi che la sentenza della Corte costituzionale n. 70 del 2015 aveva «rilevato come l’originario art. 24, comma 25, fosse “eccentrico” rispetto al nostro sistema pensionistico». Secondo il rimettente, la disposizione del “nuovo” testo del comma 25 dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011 «pare muoversi nel medesimo solco di quella censurata». Il rimettente conclude sul punto che la disposizione vigente «appare volgere piuttosto alla limitazione degli effetti della sentenza n. 70 del 2015 e, quindi, sospettabile di inadempimento al dettato dell’art. 136 Cost.».

Ad avviso del rimettente, la disposizione dell’art. 24, comma 25, del d.l. n. 201 del 2011 violerebbe anche gli artt. 3, 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost., poiché «il meccanismo perequativo da essa stabilito conduce a risultati assai modesti e tali da compromettere la conservazione nel corso del tempo del valore del trattamento pensionistico, con pregiudizio delle finalità previste dai ridetti articoli». A tale proposito, il giudice a quo indica i crediti esposti dai ricorrenti, rappresentando che gli importi degli stessi evidenzierebbero, «a contrario», che la rivalutazione prevista dal censurato art. 24, comma 25, «è assai modesta e tale da far dubitare che sia conforme all’art. 3 e soddisfi ai richiamati precetti dell’art. 36 1° comma e 38, 2° comma, Cost.».

Sotto tale aspetto, l’art. 24, comma 25, del d.l. n. 201 del 2011, si discosterebbe dai precedenti interventi normativi in materia, tra cui l’art. 1, comma 19, della legge n. 247 del 2007, che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 316 del 2010, ritenne non contrastare con agli artt. 3 e 38 Cost. Il raffronto con le precedenti disposizioni metterebbe in rilievo che l’art. 24, comma 25, del d.l. n. 201 del 2011, «non appare effettuare un ragionevole contemperamento delle esigenze contrapposte» e non si sottrae, pertanto, «a dubbi di legittimità costituzionale con riguardo ai principi di eguaglianza sostanziale (art. 3, 2° comma), di proporzionalità alla quantità e qualità del lavoro svolto (art. 36, 1° comma), di adeguatezza del trattamento pensionistico (art. 38, 2° comma)».

19.3.– In punto di rilevanza delle questioni, il giudice a quo afferma che ciascuno dei ricorrenti lamenta di essere creditore, «anno per anno, dal 2012 al 2015», di importi variabili se fosse stata pienamente attuata la sentenza n. 70 del 2015. Da ciò la rilevanza delle questioni.

20.– Con ordinanza del 18 novembre 2016 (reg. ord. n. 43 del 2017), il Tribunale ordinario di Cuneo, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 36, primo comma, 38, secondo comma, e 136 Cost., dell’art. 24, commi 25 e 25-bis, come sostituito (il comma 25) e inserito (il comma 25-bis), rispettivamente dai numeri 1) e 2) dell’art. 1 del d.l. n. 65 del 2015, e, in particolare, quanto al comma 25, delle disposizioni di cui alle lettere b), c), d) ed e) dello stesso.

20.1.– Il giudice rimettente riferisce, in punto di fatto: di essere investito del ricorso proposto nei confronti dell’INPS da L. D. e da B. P. R.; che i ricorrenti esponevano di essere titolari di pensioni di importo superiore a tre volte il trattamento minimo INPS, di avere perciò subito, ai sensi dell’art. 24, comma 25, del d.l. n. 201 del 2011, il blocco della rivalutazione automatica della propria pensione per gli anni 2012 e 2013, che, «a seguito della pronuncia della Corte Costituzionale» n. 70 del 2015, spettavano loro degli arretrati e che, con l’entrata in vigore del d.l. n. 65 del 2015, sono state loro corrisposte somme ampiamente inferiori agli stessi; che gli stessi ricorrenti hanno pertanto chiesto, previa rimessione alla Corte costituzionale di questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 del d.l. n. 65 del 2015, di accertare il diritto alla rivalutazione automatica, relativa agli anni 2012 e 2013, della propria pensione «secondo la sentenza della Corte Costituzionale n. 70/15, e comunque in base al meccanismo di cui all’art. 69, comma 1, legge 23.12.2000 n. 388, senza tener conto dei limiti di cui al decreto legge n. 65/15» e di condannare l’INPS a corrispondere loro, per i suddetti anni, «l’aumento mensile e gli arretrati sui trattamenti pensionistici, oltre accessori sino al saldo»; che l’esame delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 483, della legge n. 147 del 2013, pure sollevate dai ricorrenti, doveva essere «rimesso al momento della pronuncia della sentenza».

20.2.– In punto di non manifesta infondatezza, il Tribunale rimettente afferma che le disposizioni censurate violano, anzitutto, l’art. 136 Cost.

Le suddette disposizioni avrebbero «sostanzialmente aggirato le statuizioni» della sentenza n. 70 del 2015, «impedendo la portata retroattiva insita nella dichiarazione di incostituzionalità».

In particolare, l’elusione del giudicato costituzionale sarebbe evidente con riguardo alla disciplina dei trattamenti pensionistici superiori a sei volte il trattamento minimo INPS, atteso che, per i titolari di tali trattamenti, l’esclusione di qualsivoglia meccanismo di perequazione è rimasta anche dopo l’introduzione del d.l. n. 65 del 2015.

La violazione del giudicato costituzionale sussisterebbe, comunque, ad avviso del giudice rimettente, anche con riguardo alla disciplina dei trattamenti pensionistici che, come quelli dei ricorrenti, sono «pari o inferiori a sei volte il minimo del trattamento INPS», in quanto «l’introduzione di una rivalutazione in misure percentuali differenziate a seconda della misura in cui la pensione superi il trattamento minimo INPS, avendo l’effetto di neutralizzare la portata retroattiva connaturata alla declaratoria di incostituzionalità, nonché, in rilevante misura, i conseguenti vantaggi economici, integra un inadempimento del legislatore alla sentenza 70/15».

Ad avviso del giudice a quo, il censurato art. 24, commi 25, lettere b), c), d) ed e), e 25-bis del d.l. n. 101 del 2011, violerebbe anche gli artt. 3, 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost.

Il rimettente afferma che anche «il nuovo testo dell’art. 24 d.l. 201/2011» è stato «giustificato» con enunciazioni generiche e relative a finalità già insite, ai sensi degli artt. 38 e 81 Cost., in ogni iniziativa legislativa in materia pensionistica.

Lo stesso giudice a quo, dopo avere sottolineato che la normativa censurata produce effetti su più anni, destinati a diventare permanenti – così da realizzare, con un’unica disposizione, una reiterazione della paralisi del meccanismo perequativo – afferma che «il decreto legge 65/15 ha quindi introdotto uno strumento che eccede nell’opera di riequilibrio finanziario rispetto al fine dichiarato, senza garantire appieno la conservazione nel tempo del potere d’acquisto delle pensioni incise e sacrificando perciò in misura sproporzionata la tutela dei beneficiari di trattamenti previdenziali non elevati», manifestandosi, così, «l’irragionevolezza delle disposizioni contenute nei commi 25 e 25-bis del nuovo testo dell’art. 24 del d.l. 201/11».

Il rimettente rappresenta infine che il blocco della rivalutazione delle pensioni, ancorché limitato nel tempo, ha effetti permanenti e che la Corte costituzionale ha ritenuto la legittimità di precedenti interventi di blocco della suddetta rivalutazione quando essi avessero una durata ragionevole, «sostanzialmente annuale», mentre nella specie la durata biennale dell’intervento normativo, «risulta ancor più gravosa».

20.3.– In punto di rilevanza delle questioni, il giudice a quo afferma che, in applicazione del d.l. n. 65 del 2015, i ricorrenti, «anziché vedersi ripristinare la perequazione e pagare gli arretrati […] hanno ottenuto una perequazione – e relativi arretrati – in misura notevolmente inferiore […]. Alla luce dell’attuale normativa le domande attoree non potrebbero […] che essere rigettate, mentre dall’accoglimento della questione […] conseguirebbe il diritto alla perequazione della pensione secondo i criteri già stabiliti».

21.– Con ordinanza del 18 novembre 2016 (reg. ord. n. 44 del 2017), il Tribunale ordinario di Cuneo, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 36, primo comma, 38, secondo comma, 117, primo comma – quest’ultimo, in relazione all’art. 6 della CEDU – e 136 Cost., dell’art. 24, commi 25 e 25-bis, come sostituito (il comma 25) e inserito (il comma 25-bis), rispettivamente dai numeri 1) e 2) dell’art. 1 del d.l. n. 65 del 2015, e, in particolare, quanto al comma 25, delle disposizioni di cui alle lettere b), c), d) ed e) dello stesso.

21.1.– Il giudice rimettente riferisce, in punto di fatto: di essere investito del ricorso proposto nei confronti dell’INPS da R. P. e da E. R.; che le ricorrenti esponevano di essere titolari di pensioni di importo complessivo superiore a tre volte il trattamento minimo INPS, di avere perciò subito, ai sensi dell’art. 24, comma 25, del d.l. n. 201 del 2011, il blocco della rivalutazione automatica della propria pensione per gli anni 2012 e 2013 e che, «in forza della sentenza [della Corte Costituzionale] 70/15», avrebbero dovuto percepire «gli aumenti mensili maturati nel biennio 2012/2013», da erogare anche per il futuro, nonché gli arretrati, a decorrere dal 1° gennaio 2012; che le ricorrenti hanno perciò chiesto, previa rimessione alla Corte costituzionale di questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 del d.l. n. 65 del 2015, di accertare il diritto alla rivalutazione automatica, relativa agli anni 2012 e 2013, della propria pensione «secondo la sentenza della Corte Costituzionale n. 70/15, e comunque in base al meccanismo di cui all’art. 69, comma 1, legge 23.12.2000 n. 388, senza tener conto dei limiti di cui al decreto legge n. 65/15» e di condannare l’INPS a corrispondere loro, per i suddetti anni, «l’aumento mensile e gli arretrati sui trattamenti pensionistici, oltre accessori sino al saldo».

21.2.– In punto di non manifesta infondatezza delle questioni sollevate in riferimento agli artt. 3, 36, primo comma, 38, secondo comma, e 136 Cost., il Tribunale ordinario di Cuneo motiva in modo identico alla motivazione dell’ordinanza dello stesso Tribunale iscritta al reg. ord. n. 43 del 2017.

Ad avviso del giudice rimettente, il censurato art. 24, commi 25, lettere b), c), d) ed e), e 25-bis del d.l. n. 201 del 2011, violerebbe, inoltre, l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 6 della CEDU.

Il giudice a quo afferma in proposito che le disposizioni censurate hanno provveduto, «con efficacia retroattiva, su una materia la cui disciplina era, a seguito dell’espunzione della norma ad opera della declaratoria di incostituzionalità, del tutto completa e chiara». Le disposizioni retroattive, inoltre, avrebbero «natura radicalmente innovativa e non interpretativa, semplicemente disponendo, con riferimento agli stessi anni ai quali si riferiva la declaratoria di incostituzionalità, in modo diverso da quest’ultima».

Il rimettente rappresenta che la Corte EDU è particolarmente rigorosa nell’ammettere leggi retroattive, anche se di interpretazione autentica, atteso che anche le leggi di interpretazione autentica possono violare il diritto a un processo equo garantito dall’art. 6 della CEDU.

Nella specie, non si porrebbe «alcun problema di interpretazione della norma, essendo invece intervenuta una declaratoria di incostituzionalità che ha […] espunto dall’ordinamento la norma censurata, di talché il decreto legge 65/15 ha introdotto una nuova e diversa disciplina rispetto a quella risultante dalla pronuncia della Consulta, per di più con efficacia retroattiva». Il rimettente conclude che, quindi, con il d.l. n. 65 del 2015, «è stata frustrata la tutela giurisdizionale del cittadino, e quindi il suo diritto a un equo processo, che, nel caso di specie, consisteva nel vedersi applicare la disciplina della perequazione delle pensioni risultante dalla declaratoria di incostituzionalità».

21.3.– In punto di rilevanza delle questioni, il giudice a quo afferma che, «anziché vedersi ripristinare la perequazione e pagare gli arretrati (come sarebbe avvenuto in forza della sentenza della Corte Costituzionale)», in applicazione del d.l. n. 65 del 2015, E. R. «ha ottenuto una perequazione per un importo minimale», mentre R. P. in quanto titolare di un trattamento pensionistico superiore a sei volte il minimo INPS, nulla ha ottenuto. Il Tribunale rimettente conclude affermando che, alla «luce dell’attuale normativa le domande attoree non potrebbero […] che essere rigettate, mentre dall’accoglimento della questione […] conseguirebbe il diritto alla perequazione della pensione secondo i criteri già stabiliti».

22.– Si sono costituti R. P. e E. R., ricorrenti nel giudizio principale, chiedendo che le questioni sollevate siano accolte.

A proposito delle questioni sollevate in riferimento agli artt. 3, 36, primo comma, 38, secondo comma, e 136 Cost., le parti costituite formulano deduzioni coincidenti con quelle formulate nell’atto di costituzione di A. C. e M. M. nel giudizio iscritto al reg. ord. n. 243 del 2016.

Quanto alla questione sollevata in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., le parti costituite ritengono che le disposizioni censurate integrino una «violazione del giudicato costituzionale alla luce dell’art. 6 della CEDU».

Richiamando la giurisprudenza della Corte EDU in tema di norme di interpretazione autentica e «in tema di giudicato», asseriscono che il caso di specie sarebbe «ben più grave» di quelli relativi a leggi retroattive di interpretazione autentica, atteso che «dopo la dichiarazione di incostituzionalità la norma caducata semplicemente non c’è più, e quindi non vi è alcuna incertezza interpretativa da risolvere, poiché si tratta solo di prendere atto della sua invalidità».

Né si potrebbe ipotizzare un bilanciamento con «asserite esigenze finanziarie», atteso che, secondo la Corte EDU, queste non possono giustificare una limitazione del diritto a un processo equo.

23.– Con ordinanza del 9 febbraio 2017 (reg. ord. n. 77 del 2017), il Tribunale ordinario di Cuneo, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 36, primo comma, 38, secondo comma, e 136 Cost., dell’art. 24, commi 25 e 25-bis, come sostituito (il comma 25) e inserito (il comma 25-bis), rispettivamente dai numeri 1) e 2) dell’art. 1 del d.l. n. 65 del 2015.

23.1.– Il giudice rimettente riferisce, in punto di fatto: di essere investito del ricorso proposto nei confronti dell’INPS da G. C.; che il ricorrente esponeva di essere titolare di pensione superiore al triplo del trattamento minimo INPS e di non avere perciò usufruito, ai sensi dell’art. 24, comma 25, del d.l. n. 201 del 2011, della rivalutazione automatica della propria pensione «per l’anno 2013»; che, «tanto dedotto», lo stesso ricorrente ha chiesto l’accertamento del diritto alla rivalutazione automatica della propria pensione «per gli anni 2012 e 2013», con «le conseguenti condanne a carico dell’INPS» e, in via subordinata, «in ipotesi di ritenuta applicabilità della normativa sopravvenuta alla declaratoria di illegittimità costituzionale, ne ha prospettato l’illegittimità costituzionale al fine della rimozione degli ostacoli normativi all’accoglimento delle conclusioni»; l’INPS si costituiva chiedendo il rigetto del ricorso.

23.2.– In punto di non manifesta infondatezza, il Tribunale rimettente afferma che le disposizioni censurate violano, anzitutto, gli artt. 3, 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost.

Esse, infatti, non si sottrarrebbero «alle medesime censure […] già […] rilevate dalla Corte costituzionale» nella sentenza n. 70 del 2015 con riguardo al testo originario dell’art. 24, comma 25, del d.l. n. 201 del 2011.

Il giudice a quo sottolinea ancora che la norma censurata ha effetti su più anni, destinati a diventare permanenti, così da realizzare, con un’unica disposizione, una reiterazione della paralisi del meccanismo perequativo.

La stessa normativa, inoltre, incide anche su pensioni di modesto valore economico, «con applicazione del meccanismo di rivalutazione in percentuali tali da svuotarne il valore».

A quest’ultimo proposito, il giudice rimettente osserva che, nella sentenza n. 70 del 2015, la Corte costituzionale ha individuato due tecniche adottate dal legislatore nel diversificare le percentuali riconosciute di rivalutazione automatica delle pensioni, «avallando, con dei limiti, la scelta del passato legislatore di diversificare la dinamica perequativa per aree di riferimento».

Tali tecniche sono, in specie, quella «per fasce di importo pensionistico» e quella «per trattamenti complessivi percepiti». Mentre quest’ultima tecnica «attribuisce ai pensionati con trattamenti maggiori una percentuale minore di perequazione su tutto il trattamento percepito», in base alla prima tecnica «gli stessi pensionati avrebbero percepito una percentuale di incremento più favorevole per le quote più basse del loro trattamento».

Il Tribunale rimettente afferma quindi che è solo «la modestia e con ciò, la ragionevolezza, della decrescita della percentuale ad escludere radicali differenze tra le diverse platee di percettori, e con ciò discriminazioni tra gli stessi».

Lo stesso Tribunale conclude sul punto affermando che «la riduzione delle percentuali» di rivalutazione, da parte del censurato art. 24, comma 25, del d.l. n. 201 del 2011, rispetto a quelle riconosciute dall’art. 1, comma 483, della legge n. 147 del 2013 «rende la norma estremamente differente e finisce per offrire aumenti poco più che simbolici, a fronte di una diversificazione operata non più per fasce di importo ma per soggetti percettori».

Quanto alla non manifesta infondatezza della questione sollevata in riferimento all’art. 136 Cost., il Tribunale di Cuneo afferma che la normativa censurata, intervenendo a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 70 del 2015, avrebbe «negli effetti vanificato la portata retroattiva della pronuncia di incostituzionalità, eludendone il significato, riproducendo la stessa tecnica di applicazione della perequazione, solo lievemente edulcorata, ma non in maniera tale da riuscire a correggerne la già ritenuta irragionevolezza».

Il giudice a quo conclude affermando che «la emanazione della norma ha chiaramente impedito alla declaratoria d’illegittimità costituzionale dell’art. 24, co. 25, d.l. 201/2011 di produrre le conseguenze previste dall’art. 136 Cost.».

23.3.– In punto di rilevanza delle questioni, il giudice rimettente rappresenta quindi che, «[i]n applicazione della norma da ritenersi vigente a seguito della dichiarazione di incostituzionalità» dell’art. 24, comma 25, del d.l. n. 101 del 2011, il ricorrente avrebbe avuto diritto «per il 2012 ad una rivalutazione pari al 2,7% per la quota sino al triplo della pensione, e del 2,43% per la parte eccedente e sino al quintuplo» e «per il 2013 […] ad una rivalutazione del 3% per la quota fino al triplo del trattamento minimo, e del 2,7% per la parte eccedente, al quintuplo del trattamento minimo». Lo stesso rimettente osserva poi che, pertanto, «[c]iò che il ricorrente deduce […] è che in applicazione della norma di cui al D.L. 65/15, […] ha ottenuto a titolo di arretrati dovuti per effetto della citata pronuncia n. 70/15 […] un importo ridotto per effetto della perequazione minima stabilita dalla norma da ultimo introdotta (collocandosi nella fascia b), anziché l’ammontare dovutogli in applicazione della legge 448/98», cosicché ha proposto il ricorso «al fine di ottenere il pagamento della differenza tra quanto effettivamente percepito, a seguito del blocco della rivalutazione, con quanto avrebbe avuto diritto applicando la rivalutazione automatica per il periodo dal 2013 sino al luglio 2015». Ciò considerato, il rimettente conclude che la disciplina «da ultimo introdotta […] ha dunque inciso sul valore del trattamento pensionistico riconosciuto al ricorrente», aggiungendo che, per effetto del comma 25-bis dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011, «tale incidenza è destinata a protrarsi nel tempo (per il triennio 2014-2016)».

Infine, sarebbe «chiara, perché espressa, l’applicabilità della norma sopravvenuta alla declaratoria di incostituzionalità, all’ammontare delle prestazioni maturate al biennio 2012-2014, non potendosi semplicemente, come sembrerebbe auspicare il ricorrente, ritenere l’acquisizione definitiva al suo patrimonio degli “arretrati” spettantigli».

24.– Con ordinanza del 21 febbraio 2017 (reg. ord. n. 78 del 2017), il Tribunale ordinario di Cuneo, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 36, primo comma, 38, secondo comma, e 136 Cost., dell’art. 24, commi 25 e 25-bis, come sostituito (il comma 25) e inserito (il comma 25-bis), rispettivamente dai numeri 1) e 2) dell’art. 1 del d.l. n. 65 del 2015.

24.1.– Il giudice rimettente riferisce, in punto di fatto: di essere investito del ricorso proposto nei confronti dell’INPS da D. B., L. C., G. L., C. M., F. M., N. M., F. M., A. R. e V. A., titolari di pensioni di anzianità; che i ricorrenti esponevano di non avere usufruito, ai sensi dell’art. 24, comma 25, del d.l. n. 201 del 2011, della rivalutazione automatica della propria pensione «per gli anni successivi al 2011»; che, intervenuta la sentenza della Corte costituzionale n. 70 del 2015, essi, in base ai conteggi effettuati e prodotti – che il rimettente afferma non essere contestati dall’Istituto convenuto – «in applicazione della normativa previgente alla normativa dichiarata incostituzionale avrebbero maturato crediti nei confronti dell’ente convenuto, travolti invece dalla normativa sopravvenuta» e che «il pregiudizio derivante dalla perequazione minima ricevuta ha condizionato le successive rivalutazioni»; che gli stessi ricorrenti hanno chiesto, previa rimessione alla Corte costituzionale della questione di legittimità costituzionale «della normativa», l’accertamento del diritto alla rivalutazione automatica della propria pensione per gli anni dal 2011 al 2015, la condanna dell’INPS al pagamento di quanto dovuto e non versato e l’accertamento dell’importo delle rispettive pensioni per l’anno 2016; che l’INPS si costituiva in giudizio chiedendo il rigetto del ricorso.

24.2.– In punto di non manifesta infondatezza delle questioni, il Tribunale rimettente motiva in modo pressoché identico alla motivazione dell’ordinanza dello stesso Tribunale iscritta al reg. ord. n. 77 del 2017.

24.3.– In punto di rilevanza delle questioni, il giudice a quo rappresenta che «[c]iò che tutti i ricorrenti deducono […] è che in applicazione della norma di cui al D.L. 65/15 hanno ottenuto a titolo di arretrati dovuti per effetto della citata pronuncia n. 70/15 […] un importo ridotto per effetto della perequazione minima stabilita dalla norma da ultimo introdotta» e che «l’effetto di “trascinamento” della minima rivalutazione, legato alla mancata previsione della capitalizzazione della rivalutazione annuale determina una definitiva erosione dell’importo delle loro pensioni anche per gli anni successivi».

Ciò considerato, il rimettente conclude che la disciplina «da ultimo introdotta […] ha certamente inciso sul valore del trattamento pensionistico riconosciuto ai ricorrenti».

Infine, sarebbe «chiara, perché espressa, l’applicabilità della norma sopravvenuta alle posizioni dei ricorrenti».

25.– In tutti i giudizi incidentali si è costituito l’INPS, resistente nei giudizi a quibus, chiedendo che le questioni sollevate siano dichiarate inammissibili o infondate.

Ciò sulla base di argomentazioni sostanzialmente analoghe o, comunque, complementari, adeguate a seconda dell’oggetto e dei parametri delle questioni sollevate con le singole ordinanze.

25.1.– In via preliminare, l’INPS ha sollevato alcune eccezioni di inammissibilità delle questioni.

L’Istituto ha eccepito l’inammissibilità delle questioni sollevate con l’ordinanza n. 101 del 2016, con riguardo alla «rilevanza» delle stesse, sotto tre profili. A suo avviso, il giudice rimettente: affermerebbe «di non aver percepito con sufficiente nettezza l’esigenza di bilanciamento del sacrificio imposto a talune categorie di pensionati con le necessità di bilancio e di tenuta del sistema» sulla sola base dell’esame delle disposizioni censurate, senza neppure menzionare gli atti parlamentari e i documenti di Verifica delle quantificazioni che le accompagnano»; si limiterebbe «a una mera enunciazione dei principi consacrati negli artt. 36 e 38 della Costituzione, […] senza considerare gli altri di uguale rango ai fini del necessario bilanciamento, con particolare riferimento alla previsione dell’art. 81 della Carta», il che «non è sufficiente […] a fondare un giudizio di non manifesta infondatezza della questione di illegittimità costituzionale di una norma»; trascurerebbe di calare i condivisibili principi enunciati nel particolare attuale momento storico in cui «l’inflazione è pari a zero o addirittura negativa» e, per tale ragione, ometterebbe di precisare l’entità di un danno che risulta sostanzialmente assai limitato e comunque sopportabile per le categorie di pensionanti colpiti dall’intervento.

Quest’ultimo profilo di inammissibilità è stato prospettato dall’INPS anche con riguardo alle questioni di legittimità costituzionale sollevate con le ordinanze n. 188, n. 237, n. 242, n. 243 e n. 244 del 2016, n. 24, n. 43, n. 44, n. 77 e n. 78 del 2017.

Secondo l’Istituto, anche la questione sollevata in via subordinata con le ordinanze n. 242 e n. 244 del 2016 sarebbe inammissibile per difetto di rilevanza, in quanto concerne esclusivamente la disciplina dei trattamenti pensionistici superiori a sei volte il trattamento minimo INPS, mentre i giudizi a quibus sono stati promossi da pensionati con un trattamento compreso tra tre e sei volte tale minimo.

25.2.– Nel merito, l’INPS nega anzitutto che la normativa censurata violi l’art. 136 Cost., poiché essa non può ritenersi meramente riproduttiva di quella dichiarata incostituzionale con la sentenza n. 70 del 2015. A tale proposito, l’Istituto rappresenta che quest’ultima normativa prevedeva soltanto l’integrale perequazione delle pensioni non superiori a tre volte il trattamento minimo INPS – escludendo in toto la perequazione delle altre pensioni – mentre le disposizioni introdotte con il d.l. n. 65 del 2015 assicurano una tutela, ancorché parziale e decrescente, anche per i più elevati trattamenti pensionistici da tre a sei volte il minimo INPS. Ad avviso dello stesso Istituto, l’art. 136 Cost. sarebbe violato solo qualora il legislatore riproducesse pedissequamente una disposizione espunta dall’ordinamento o emanasse una norma che ne faccia rivivere gli effetti. L’INPS afferma ancora che «la Consulta nella sentenza 70/2015 non ha indicato (e si ha ragione di credere che non potesse farlo) la misura della perequazione da attribuire alle pensioni di importo superiore a tre volte il minimo INPS, né ha individuato la soglia entro la quale accordare una perequazione ancorché non integrale e dunque il legislatore del 2015 ha adottato una regolamentazione che non soltanto non è riproduttiva di quella già dichiarata incostituzionale, ma che si conforma ai principi sanciti nella sentenza n. 70/2015». L’INPS aggiunge ancora che non sarebbe possibile ritenere ragionevolmente che «il legislatore debba subire, quale necessaria ed ineluttabile conseguenza della decisione caducatoria, la reviviscenza delle disposizioni pregresse, specialmente ove la loro applicazione dovesse comportare, come nella fattispecie, imponenti esborsi di spesa in grado di compromettere la tenuta del sistema previdenziale ed il livello di debito pubblico consentito dalle istituzioni europee».

Quanto ai parametri degli artt. 3, 36 e 38 Cost., l’INPS afferma che il d.l. n. 65 del 2015 ha dato attuazione alle indicazioni fornite dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 70 del 2015, abbandonando il modello di meccanismo da questa censurato e tornando al precedente, col prevedere una tutela più generale, ancorché proporzionale all’ammontare del trattamento pensionistico.

L’Istituto sottolinea che, con l’ordinanza n. 256 del 2001, la Corte costituzionale ha ritenuto la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 59, comma 13, della legge 27 dicembre 1997, n. 449 (Misure per la stabilizzazione della finanza pubblica), che escludeva dalla perequazione automatica i trattamenti superiori a cinque volte (e non a sei volte, come nel caso della disposizione ora censurata) il minimo INPS, sottolineando come la garanzia costituzionale dell’adeguatezza e della proporzionalità del trattamento pensionistico incontri il limite delle risorse disponibili, con la conseguenza che il legislatore, anche al fine di salvaguardare la tenuta complessiva del sistema previdenziale, deve introdurre le necessarie modifiche alla legislazione di spesa, nel quadro degli equilibri di bilancio.

A tale proposito, l’INPS sottolinea che occorrerebbe anche tenere conto della crisi economica che ha interessato da diversi anni l’Italia, che ha comportato una riduzione delle risorse disponibili per coprire i costi, tra l’altro, della perequazione delle pensioni e ha imposto al legislatore di individuare le soluzioni più eque per assicurare la massima tutela possibile alle categorie più bisognose, oltre a produrre un progressivo indebolimento della domanda interna che ha condotto a un azzeramento dell’inflazione. In tale situazione, a fronte di limitate risorse disponibili, l’esclusione dalla perequazione, non più limitata a un periodo annuale o biennale come nel passato, per i pensionati con trattamenti pensionistici più elevati (superiori a sei volte il minimo INPS) «sembra un sacrificio sopportabile anche perché inserito in un momento storico di inflazione nulla o addirittura negativa», ciò che «comporta un contenimento dell’esigenza di adeguamento dei trattamenti in questione».

Ciò considerato, l’INPS ritiene che il d.l. n. 65 del 2015 abbia effettivamente dato attuazione ai principi affermati dalla sentenza n. 70 del 2015 e che le argomentazioni dei rimettenti non possano far dubitare della legittimità di tale intervento.

A quest’ultimo riguardo, l’INPS osserva che nel caso in esame è previsto un meccanismo perequativo che assicura pienamente l’indicizzazione delle pensioni con riguardo ai pensionati appartenenti alla fascia cosiddetta debole e in misura decrescente per le fasce di pensionati con un trattamento pensionistico compreso da tre a sei volte il minimo INPS.

Né sarebbe ammissibile censurare la misura dell’adeguamento previsto dal censurato art. 24, comma 25, per questi ultimi pensionati, trattandosi di materia riservata alla discrezionalità del legislatore e oggetto di necessario bilanciamento con altri interessi meritevoli di tutela, quali la tenuta del sistema previdenziale e del bilancio dello Stato, anche in relazione all’art. 81 Cost., con conseguente esclusione dell’irragionevolezza della suddetta disposizione. Dovrebbe inoltre tenersi conto del fatto che essa incide su un periodo di tempo con inflazione quasi nulla e talvolta negativa.

Sarebbero, in particolare, prive di fondamento le argomentazioni dei giudici a quibus in tema di adeguatezza e proporzionalità della pensione. Secondo l’Istituto, il rispetto di tali parametri andrebbe assicurato per il periodo di quiescenza secondo valutazioni riservate, anche con riguardo alle disponibilità finanziarie, alla discrezionalità del legislatore, purché esercitata in modo non irragionevole e arbitrario.

La garanzia dell’adeguatezza del trattamento non comporterebbe, quindi, un rigido meccanismo di perequazione, una costante rivalutazione, ma andrebbe assicurata nel quadro di una sfera di discrezionalità riservata al legislatore.

Da ciò conseguirebbe – sempre secondo l’INPS – che l’irragionevolezza della scelta operata dal legislatore andrebbe dedotta e provata tenendo conto del complesso dei valori costituzionali interessati (è citata la sentenza della Corte costituzionale n. 119 del 1991), cosicché sarebbe stato nella specie necessario dimostrare che il notevole esborso che discenderebbe, in caso di accoglimento delle sollevate questioni di legittimità costituzionale, dall’applicazione delle disposizioni precedenti, non si pone in contrasto con l’art. 81 Cost., non incide sulla tenuta del sistema previdenziale, non conduce a scostamenti del prodotto interno lordo (PIL) oltre i limiti consentiti in sede europea, contrastando l’analisi contenuta negli allegati documenti prodotti dalla Camera dei deputati.

Di ciò i rimettenti non si sarebbero fatti alcun carico, mentre da tali documenti – in particolare, dagli atti della Camera dei deputati relativi al disegno di legge n. 3134 di conversione in legge del d.l. n. 65 del 2015 – emergerebbero chiaramente le esigenze di finanza pubblica e di tenuta del sistema pensionistico poste a fondamento dell’intervento operato con il d.l. n. 65 del 2015. L’INPS riporta, in particolare, un passaggio di tali atti che rivelerebbe come «il legislatore abbia prestato attenzione all’opera di bilanciamento alle esigenze di tenuta del sistema pensionistico addirittura in proiezione futura con l’espresso richiamo alla solidarietà intergenerazionale».

Tali osservazioni varrebbero anche con riguardo alle questioni di legittimità costituzionale – prospettate in via principale o in via subordinata – dell’art. 1, comma 483, della legge n. 147 del 2013, che «non ha riconosciuto per l’anno 2014 alcun incremento perequativo per i trattamenti superiori a sei volte il minimo INPS», fermo il «dubbio da porsi in ordine all’attuale vigenza della disposizione […] a seguito dell’introduzione delle norme contenute nel DL n. 65/2015».

Né sussisterebbe alcuna lesione «dell’affidamento dei pensionati alla luce delle pregresse normative alla perequazione delle pensioni in godimento». In proposito, andrebbero «considerati i numerosi interventi normativi che nel tempo hanno sospeso i meccanismi peraltro sempre più restrittivi e dall’altro le più volte citate esigenze di bilanciamento […] in omaggio alle quali ben può il legislatore introdurre regolamentazioni più sfavorevoli che non trasmodano nell’irragionevolezza».

L’INPS sostiene che non sarebbe violato neppure l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 6 CEDU, poiché «la norma CEDU quando va a integrare il primo comma dell’art. 117 Cost., come norma interposta, è oggetto di bilanciamento, ai fini della generale integrazione delle tutele» (è richiamata la sentenza della Corte costituzionale n. 264 del 2012).

Sarebbe infondato anche il dubbio circa la violazione dell’art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU. Non solo il beneficio della perequazione è stato nel tempo limitato anche in considerazione delle varie contingenze economiche che hanno connotato gli ultimi anni ed è stato spesso sospeso, ancorché per periodi determinati, ma anche tale beneficio può essere assoggettato a una disciplina più sfavorevole per i pensionati, in omaggio alle (evidenziate) esigenze di bilanciamento con altri beni ugualmente meritevoli di tutela.

Non sussisterebbe, infine, alcuna lesione dell’art. 53 Cost., atteso che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 70 del 2015, ha già escluso che l’azzeramento della perequazione automatica costituisca una prestazione patrimoniale di natura tributaria.

L’Istituto costituito conclude esponendo le «conseguenze economiche» di un’eventuale pronuncia di accoglimento, quali risultanti dall’allegato documento di «Verifica delle quantificazioni» elaborato dalla Camera dei deputati.

26.– È intervenuto in tutti i giudizi il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni sollevate siano dichiarate inammissibili o infondate.

Anche il Presidente del consiglio dei ministri spende, nei vari giudizi, argomentazioni sostanzialmente analoghe o, comunque, complementari, adeguate a seconda dell’oggetto e dei parametri delle questioni sollevate con le singole ordinanze.

26.1.– Secondo il Presidente del Consiglio dei ministri, tutte le questioni sollevate sarebbero, anzitutto, inammissibili, poiché devono ritenersi insindacabili le scelte discrezionali del legislatore in ordine a modalità e tempi della rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici, «tenendo conto dell’eccezionalità della situazione economica internazionale, dell’esigenza prioritaria del raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica concordati in sede europea, anche garantendo l’equilibrio di bilancio dell’ente previdenziale».

Inoltre, la motivazione dell’ordinanza n. 278 del 2016 sarebbe «tanto scarna da rendere [la stessa] inammissibile per difetto di motivazione sul requisito […] della non manifesta infondatezza».

26.2.– Quanto al merito, «con riferimento al […] giudicato costituzionale», il Presidente del Consiglio dei ministri afferma che la dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma non può determinare un effetto di esproprio della potestà legislativa poiché il legislatore resta titolare del potere di disciplinare, con un nuovo atto, la stessa materia, a condizione che non si limiti «a “salvare”, o a ripristinare gli effetti prodotti da disposizioni che, in ragione della dichiarazione di illegittimità costituzionale, non sono più in grado di produrne» (è citata la sentenza della Corte costituzionale n. 169 del 2015). Nella specie, in particolare, non si sarebbe in presenza di «un nuovo atto diretto esclusivamente a prolungare nel tempo, anche in via indiretta, l’efficacia di norme che “non possono avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione”».

Con riguardo ai parametri degli artt. 3, 36 e 38 Cost., secondo il Presidente del Consiglio dei ministri, la normativa censurata avrebbe dato attuazione ai principi affermati dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 70 del 2015, assicurando un adeguato trattamento pensionistico e contemperandolo con i principi dell’equilibrio di bilancio e con gli obiettivi di finanza pubblica, nonché con la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, anche in funzione della solidarietà intergenerazionale, concentrando le risorse disponibili in favore delle classi di pensionati con trattamenti più bassi. A tale riguardo, l’Avvocatura generale dello Stato sottolinea gli effetti di riduzione sui saldi di finanza pubblica derivanti dall’art. 1, comma 1, numeri 1) e 2), del d.l. n. 65 del 2015 e il fatto che nella «Relazione al Parlamento» per l’anno 2015, resa ai sensi dell’art. 10-bis, comma 6, della legge n. 196 del 2009, il Governo aveva quantificato gli effetti sull’indebitamento che sarebbero derivati dal recupero integrale della mancata indicizzazione subita dai pensionati per il biennio 2012-2013.

L’Avvocatura generale dello Stato sottolinea poi come la giurisprudenza della Corte costituzionale abbia valorizzato da tempo, nella materia, il principio del bilanciamento complessivo degli interessi costituzionali nel quadro delle compatibilità economiche e finanziarie (è citata la sentenza n. 220 del 1988), e affermato l’insussistenza di un diritto all’aggancio costante delle pensioni alle retribuzioni (è citata l’ordinanza n. 531 del 2002).

Secondo la difesa dello Stato, in assenza di precisi parametri cui attenersi nella determinazione dei coefficienti di rivalutazione dei trattamenti pensionistici e tenuto conto di quanto affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 316 del 2010, considerata la necessità di garantire l’equilibrio di bilancio e gli obiettivi di finanza pubblica, la normativa censurata non sarebbe irragionevole e costituirebbe espressione del potere discrezionale del legislatore, anche perché l’efficacia temporale della stessa è solo biennale.

Sotto altra prospettiva, tenuto conto degli obiettivi del censurato intervento normativo, non sarebbe possibile dubitare della legittimità costituzionale dello stesso soltanto perché introduce un coefficiente di rivalutazione automatica ritenuto insufficiente a bilanciare la perdita di potere di acquisto dei trattamenti pensionistici erogati. In proposito, il Presidente del Consiglio dei ministri osserva che, nella scelta del meccanismo perequativo da utilizzare, il legislatore esercita la sua discrezionalità, considerato che, dal combinato disposto degli artt. 36 e 38 Cost., emerge esclusivamente l’obbligo di adeguamento delle pensioni al costo della vita ma non anche l’obbligo del legislatore di adottare un particolare meccanismo perequativo.

La normativa censurata garantirebbe l’equilibrio di bilancio, sia in ossequio all’art. 3 Cost., sia in adempimento del vincolo imposto dall’art. 81, quarto comma, Cost., tenuto conto che essa vale a escludere effetti finanziari onerosi, di rilevante entità, tali da compromettere gli equilibri di finanza pubblica e gli impegni assunti dall’Italia con l’Unione europea.

Né «alla norma esaminata […] può essere attribuita la funzione di introdurre surrettiziamente un prelievo fiscale».

Il Presidente del Consiglio dei ministri sostiene infine l’infondatezza anche della questione sollevata in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 6 della CEDU. Come chiarito dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 127 del 2015, dai principi della CEDU «non deriva alcun divieto assoluto di norme interpretative, suscettibili di ripercuotersi sui processi in corso». La normativa censurata, «nel contemperare la tutela previdenziale con le inderogabili esigenze di contenimento della spesa pubblica e di salvaguardia della concreta ed attuale disponibilità delle risorse finanziarie (sentenze n. 361 del 1996, n. 240 del 1994, n. 119 del 1991, che valorizzano, per il sistema pensionistico, la necessità di tale bilanciamento), non determina alcuna compressione sproporzionata dei diritti dei singoli lavoratori” (sentenza n. 127/2015 […])».

27.– In prossimità dell’udienza pubblica, le parti private costituite nei giudizi reg. ord. n. 36 e n. 243 del 2016 e n. 44 del 2017, l’interveniente nel giudizio reg. ord. n. 124 del 2016, l’INPS (in tutti i giudizi) e il Presidente del Consiglio dei ministri (pure in tutti i giudizi) hanno depositato memorie illustrative con le quali, nel ribadire le conclusioni già rassegnate, ne argomentano ulteriormente il fondamento.

28.– Il 23 ottobre 2017, giorno precedente quello dell’udienza pubblica, hanno depositato atto di intervento in tutti i giudizi il Codacons (Coordinamento di associazioni per la tutela dell’ambiente e dei diritti di utenti e consumatori) e G. P., nella qualità di «pensionato»

Considerato in diritto

1.– Con quindici ordinanze, i Tribunali ordinari di Palermo (reg. ord. n. 36 del 2016), Milano (reg. ord. n. 124 del 2016), Brescia (reg. ord. n. 188 del 2016), Napoli (reg. ord. n. 237 del 2016), Genova (reg. ord. n. 242, n. 243 e n. 244 del 2016), Torino (reg. ord. n. 278 del 2016), La Spezia (reg. ord. n. 24 e n. 25 del 2017), e Cuneo (reg. ord. n. 43, n. 44, n. 77 e n. 78 del 2017), nonché la Corte dei conti, sezione giurisdizionale regionale per l’Emilia-Romagna (reg. ord. n. 101 del 2016), hanno sottoposto a questa Corte questioni di legittimità costituzionale: a) dei commi 25 e 25-bis dell’art. 24 del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214, come sostituito (il comma 25) e inserito (il comma 25-bis), rispettivamente, dai numeri 1) e 2) del comma 1 dell’art. 1 del decreto-legge 21 maggio 2015, n. 65 (Disposizioni urgenti in materia di pensioni, di ammortizzatori sociali e di garanzie TFR), convertito, con modificazioni, dalla legge 17 luglio 2015, n. 109; b) dell’art. 1, comma 483, della legge 27 dicembre 2013, n. 147, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2014)».

1.1.– Tutti i giudici rimettenti sono investiti di ricorsi proposti, nei confronti dell’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), da uno o più pensionati, i quali chiedono l’accertamento del diritto alla rivalutazione automatica del proprio trattamento pensionistico quale spetterebbe loro sulla base della disciplina individuata – quando indicata – ora nell’art. 69, comma 1, della legge 23 dicembre 2000, n. 388, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2001)», ora nell’art. 34, comma 1, della legge 23 dicembre 1998, n. 448 (Misure di finanza pubblica per la stabilizzazione e lo sviluppo), nonché, nella quasi totalità dei casi, la condanna dell’INPS a corrispondere loro la differenza tra quanto effettivamente liquidato e quanto spetterebbe sulla base della suddetta disciplina. Le domande dei ricorrenti riguardano, nella maggior parte dei giudizi, solo la rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici relativa agli anni 2012 e 2013. Soltanto in alcuni casi (reg. ord. n. 101, n. 124, n. 188, n. 244 e n. 278 del 2016, n. 25 e n. 78 del 2017), le domande concernono anche la rivalutazione relativa ad annualità successive.

1.2.– I denunciati commi 25 e 25-bis dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011 sono stati adottati al dichiarato fine (indicato nell’alinea dell’art. 1, comma 1, del d.l. n. 65 del 2015), di «dare attuazione» – nel rispetto «del principio dell’equilibrio di bilancio e degli obiettivi di finanza pubblica, assicurando la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, anche in funzione della salvaguardia della solidarietà intergenerazionale» – ai «principi enunciati nella sentenza della Corte costituzionale n. 70 del 2015», che aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale, per violazione degli artt. 3, 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost., del testo previgente del comma 25 del d.l. n. 201 del 2011, «nella parte in cui prevede[va] che “In considerazione della contingente situazione finanziaria, la rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici, secondo il meccanismo stabilito dall’art. 34, comma 1, della legge 23 dicembre 1998, n. 448, è riconosciuta, per gli anni 2012 e 2013, esclusivamente ai trattamenti pensionistici di importo complessivo fino a tre volte il trattamento minimo INPS, nella misura del 100 per cento”».

In particolare, il comma 25 dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011, come sostituito dall’art. 1, comma 1, numero 1), del d.l. n. 65 del 2015, detta una nuova disciplina della rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici per gli anni 2012 e 2013. Nel lasciarne fermo il riconoscimento nella misura del cento per cento per i trattamenti pensionistici di importo complessivo fino a tre volte il trattamento minimo INPS (lettera a), esso esclude qualsiasi rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici complessivamente superiori a sei volte (e non più a tre volte) il trattamento minimo INPS (lettera e). Ai trattamenti pensionistici compresi tra quelli superiori a tre volte e fino a sei volte il trattamento minimo INPS – che nel testo previgente erano anch’essi esclusi dalla cosiddetta perequazione – l’attuale comma 25 la riconosce in misure percentuali decrescenti all’aumentare dell’importo complessivo del trattamento pensionistico e, in particolare, nelle misure del: 40 per cento per i trattamenti superiori a tre volte il trattamento minimo INPS e pari o inferiori a quattro volte lo stesso (lettera b); 20 per cento per i trattamenti superiori a quattro volte il trattamento minimo INPS e pari o inferiori a cinque volte lo stesso (lettera c); 10 per cento per i trattamenti superiori a cinque volte il trattamento minimo INPS e pari o inferiori a sei volte lo stesso (lettera d).

Quanto al comma 25-bis, esso stabilisce le percentuali in cui gli incrementi perequativi attribuiti dal comma 25 per gli anni 2012 e 2013 sono riconosciuti ai fini della determinazione della rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici di importo complessivo superiore a tre volte il minimo INPS negli anni 2014 e 2015 (20 per cento) e a decorrere dall’anno 2016 (50 per cento).

Mentre alcuni dei rimettenti hanno denunciato soltanto il comma 25 (reg. ord. n. 36, n. 124, n. 188 e n. 237 del 2016, n. 24 e n. 25 del 2017), altri hanno esteso le proprie censure anche al comma 25-bis (reg. ord. n. 101, n. 242, n. 243 e n. 244 del 2016, n. 43, n. 44, n. 77 e n. 78 del 2017). Nel giudizio reg. ord. n. 278 del 2016, peraltro, è denunciato soltanto il comma 25-bis.

1.2.1.– Secondo quattordici delle quindici ordinanze di rimessione, la normativa di cui ai denunciati commi 25 e/o 25-bis violerebbe, anzitutto, l’art. 136 della Costituzione, per violazione del giudicato costituzionale della sentenza n. 70 del 2015, poiché, non riconoscendo la rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici superiori a sei volte il trattamento minimo INPS (lettera e del comma 25) riprodurrebbe la disciplina dichiarata incostituzionale con la predetta sentenza (reg. ord. n. 101, n. 124, n. 188 e n. 237 del 2016, n. 24, n. 43 e n. 44 del 2017), ne neutralizzerebbe gli effetti (reg. ord. n. 242, n. 243 e n. 244 del 2016) o detterebbe una disciplina che presenta vizi analoghi a quelli da essa censurati (reg. ord. n. 278 del 2016, n. 77 e n. 78 del 2017). Inoltre, riconoscendo la rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici superiori a tre volte e pari o inferiori a sei volte il suddetto trattamento minimo soltanto nelle misure percentuali previste dalle lettere b), c) e d) del comma 25, tale normativa limiterebbe gli effetti della sentenza n. 70 del 2015 (reg. ord. n. 242, n. 243 e n. 244 del 2016, n. 25, n. 43 e n. 44 del 2017) o detterebbe una disciplina che presenta vizi analoghi a quelli da essa censurati (reg. ord. n. 124 del 2016, n. 24, n. 25, n. 77 e n. 78 del 2017).

1.2.2.– Ad avviso della sola Corte dei conti, sezione giurisdizionale regionale per l’Emilia-Romagna (reg. ord. n. 101 del 2016), i denunciati commi 25 (in specie, la lettera e) e 25-bis dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011, violerebbero anche gli artt. 2, 3, 23 e 53 Cost., poiché la «misura di azzeramento della rivalutazione automatica per gli anni 2012-2013, 2014-2015 e dal 2016, relativa ai trattamenti pensionistici complessivamente superiori a sei volte il trattamento minimo INPS» configurerebbe una prestazione patrimoniale di natura tributaria «lesiva del principio dell’universalità dell’imposizione a parità di capacità contributiva, in quanto posta a carico di una sola categoria di contribuenti».

1.2.3.– Tutti i rimettenti – con la sola esclusione del Tribunale di Torino (reg. ord. n. 278 del 2016) – lamentano che i denunciati commi 25 e 25-bis violerebbero gli artt. 3, 36 e 38 Cost., poiché presenterebbero gli stessi profili di contrasto con tali parametri ascritti dalla sentenza n. 70 del 2015 a carico del previgente comma 25 dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011.

Secondo i giudici a quibus, anche i denunciati commi 25 e 25-bis violerebbero i principi di eguaglianza e di ragionevolezza (di cui all’art. 3 Cost.), nonché di adeguatezza e di proporzionalità dei trattamenti di quiescenza (di cui, rispettivamente, all’art. 38, secondo comma, e all’art. 36, primo comma, Cost.). A tale riguardo, i rimettenti sottolineano che, negando la rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici superiori a sei volte il trattamento minimo INPS (lettera e del comma 25) o prevedendola in percentuali limitate per i trattamenti pensionistici compresi tra quelli superiori a tre volte il predetto trattamento minimo e quelli fino a sei volte lo stesso (lettere b, c e d dello stesso comma), i denunciati commi 25 e 25-bis, similmente al previgente comma 25 dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011, incidono su trattamenti previdenziali complessivi modesti (reg. ord. n. 36 del 2016, n. 24, n. 25, n. 43, n. 44, n. 77 e n. 78 del 2017); non prevedono alcuna forma di recupero (reg. ord. n. 36 del 2016); producono effetti negativi anche sulla perequazione per gli anni successivi (reg. ord. n. 36, n. 242, n. 243 e n. 244 del 2016, n. 24, n. 25, n. 43, n. 44, n. 77 e n. 78 del 2017); non fanno emergere le ragioni per cui, nel bilanciamento da essi operato, le esigenze finanziarie di risparmio di spesa siano risultate prevalenti sul sacrificato interesse dei pensionati alla conservazione del potere di acquisto dei propri trattamenti pensionistici (reg. ord. n. 101, n. 124, n. 188, n. 237, n. 242, n. 243 e n. 244 del 2016, n. 24, n. 25, n. 43, n. 44, n. 77 e n. 78 del 2017). Inoltre, diversamente dall’art. 1, comma 19, della legge 24 dicembre 2007, n. 247 (Norme di attuazione del Protocollo del 23 luglio 2007 su previdenza, lavoro e competitività per favorire l’equità e la crescita sostenibili, nonché ulteriori norme in materia di lavoro e previdenza sociale) – che la sentenza di questa Corte n. 316 del 2010, richiamata dalla sentenza n. 70 del 2015, aveva ritenuto non in contrasto con gli artt. 3, 36 e 38, secondo comma, Cost. – i commi oggetto della censure odierne negano la rivalutazione automatica ai trattamenti superiori a sei volte anziché a otto volte il trattamento minimo INPS (reg. ord. n. 101, n. 188, n. 237, n. 242, n. 243 e n. 244 del 2016, n. 24 del 2017); incidono su un biennio, anziché su un solo anno (reg. ord. n. 101, n. 124, n. 188, n. 237, n. 242, n. 243 e n. 244 del 2016, n. 24, n. 25, n. 43, n. 44, n. 77 e n. 78 del 2017); non indicano uno specifico scopo solidaristico interno al sistema previdenziale (reg. ord. n. 101, n. 242, n. 243, n. 244 del 2016). I commi denunciati, infine, là dove riconoscono la rivalutazione automatica, lo fanno in percentuale assai esigua e inferiore a quella prevista sia per gli anni precedenti (dall’art. 69, comma 1, della legge n. 388 del 2000) sia per quelli successivi (dall’art. 1, comma 483, della legge n. 147 del 2013) (reg. ord. n. 25 del 2017).

1.2.4.– Ad avviso della Corte dei conti, sezione giurisdizionale regionale per l’Emilia-Romagna (reg. ord. n. 101 del 2016) e del Tribunale ordinario di Cuneo (reg. ord. n. 44 del 2017), la lettera e) del comma 25 e, rispettivamente, le lettere b), c), d), e) del comma 25 e il comma 25-bis dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011 violerebbero anche l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848. Dettando una disciplina retroattiva della rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici per gli anni 2012 e 2013 che riproduce quella dichiarata incostituzionale con la sentenza n. 70 del 2015 (reg. ord. n. 101 del 2016) o che, comunque, è diversa da quella applicabile in seguito a tale sentenza (disciplina che è individuata dal Tribunale di Cuneo nell’art. 69, comma 1, della legge n. 388 del 2000), tali disposizioni violerebbero il diritto a un processo equo, garantito dal richiamato parametro convenzionale.

Secondo la sezione regionale della Corte dei conti, il denunciato comma 25, lettera e), violerebbe anche, per le stesse ragioni, i principi del legittimo affidamento e della certezza del diritto, di cui all’art. 3 Cost.

1.2.5.– Sempre ad avviso della Corte dei conti (reg. ord. n. 101 del 2016), la lettera e) del comma 25 e il comma 25-bis dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2001 violerebbero l’art. 117, primo comma, Cost., anche in relazione all’art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU – firmato a Parigi il 20 marzo 1952, ratificato e reso esecutivo con la legge n. 848 del 1955 – che riconosce a ogni persona il «diritto al rispetto dei suoi beni», perché, privando, in modo permanente, i pensionati titolari di trattamenti complessivamente superiori a sei volte il trattamento minimo INPS del «“bene” [della] “perequazione automatica”», che «spetta [loro] alla luce della sentenza n. 70 del 2015, […] non sembra avere disciplinato detto “bene” […] nel rispetto del requisito dell’equo bilanciamento alla luce del principio per cui ogni ingerenza su un “bene” della persona debba essere ragionevolmente proporzionata al fine perseguito, […] con conseguente incisione individuale eccessiva dei diritti di detti pensionati».

1.3.– Quanto al comma 483 dell’art. 1 della legge n. 147 del 2013, esso – come modificato dall’art. 1, comma 286, della legge 28 dicembre 2015, n. 208, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2016)» – disciplina la misura della rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici per il quinquennio 2014-2018, riconoscendola nelle percentuali, decrescenti all’aumentare dell’importo complessivo del trattamento pensionistico, del: 100 per cento per i trattamenti pensionistici di importo complessivo fino a tre volte il trattamento minimo INPS (lettera a); 95 per cento per i trattamenti complessivamente superiori a tre volte il trattamento minimo INPS e pari o inferiori a quattro volte lo stesso (lettera b); 75 per cento per i trattamenti complessivamente superiori a quattro volte il trattamento minimo INPS e pari o inferiori a cinque volte lo stesso (lettera c); 50 per cento per i trattamenti complessivamente superiori a cinque volte il trattamento minimo INPS e pari o inferiori a sei volte lo stesso (lettera d); 40 per cento per l’anno 2014 e 45 per cento per ciascuno degli anni 2015, 2016, 2017 e 2018 per i trattamenti pensionistici complessivamente superiori a sei volte il trattamento minimo INPS, con la specificazione che, «per il solo anno 2014, [la rivalutazione automatica] non è riconosciuta con riferimento alle fasce di importo superiori a sei volte il trattamento minimo INPS».

Tale comma 483 è censurato, in via principale, dal solo Tribunale di Brescia (reg. ord. n. 188 del 2016), secondo cui, in particolare, la lettera e) dello stesso, col riconoscere la rivalutazione automatica, per l’anno 2014, dei trattamenti pensionistici superiori a sei volte il minimo INPS solo nella misura del 40 per cento e con l’esclusione delle fasce di importo superiori a sei volte il predetto trattamento minimo, violerebbe il principio di adeguatezza dei trattamenti pensionistici, di cui all’art. 38, secondo comma, Cost., impedendone la conservazione del valore nel tempo, e il «principio di proporzionalità tra pensione […] e retribuzione goduta durante l’attività lavorativa», di cui all’art. 36, primo comma, Cost., nonché i principi derivanti dall’applicazione congiunta degli artt. 3, 36 e 38 Cost., in quanto, «violando il principio di proporzionalità tra pensione e retribuzione e quello di adeguatezza della prestazione previdenziale, altera il principio di eguaglianza e ragionevolezza, causando una irrazionale discriminazione in danno della categoria dei pensionati».

1.4.– Infine, quattro delle quindici ordinanze di rimessione hanno sollevato anche questioni in via subordinata, nel caso in cui fossero ritenute non fondate quelle da esse prospettate in via principale.

1.4.1.– Il Tribunale ordinario di Milano (reg. ord. n. 124 del 2016), nel caso in cui fossero ritenute non fondate quelle da esso sollevate nei confronti dell’art. 24, comma 25, lettere b), c), d) ed e), del d.l. n. 201 del 2011, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale del «DL 65» – e, quindi, delle suddette disposizioni del comma 25, come sostituito dall’art. 1, comma 1, numero 1), del d.l. n. 65 del 2015 – congiuntamente all’art. 1, comma 483, lettera e), della legge n. 147 del 2013. Secondo il rimettente, tali disposizioni violerebbero gli artt. 3, 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost., in quanto, per i trattamenti pensionistici superiori a sei volte il trattamento minimo INPS, sarebbe previsto «il blocco della rivalutazione […] addirittura [per] un triennio (2012, 2013 e 2014)», nella «totale assenza di alcuna ponderazione […] del sacrificio richiesto ai pensionati con [il] trattamento più elevato rispetto alle proprie esigenze di bilancio», atteso che «il legislatore del 2015, nel proprio intervento retroattivo a seguito della sentenza di incostituzionalità, non ha minimamente preso in considerazione la gravosità del proprio intervento avendo anche riguardo a quanto già disposto con la legge di stabilità per l’anno 2014».

1.4.2.– Sempre in via subordinata, il Tribunale ordinario di Genova (reg. ord. n. 242, n. 243 e n. 244 del 2016) ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 24, commi 25 (nel caso dei giudizi reg. ord. n. 242 e n. 244 del 2016, limitatamente alla lettera b) e 25-bis del d.l. n. 201 del 2011, «in collegamento» con l’art. 1, comma 483, lettere d) ed e), della legge n. 147 del 2013, per violazione degli artt. 3, 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost., in quanto la «combinazione» di tali disposizioni comporterebbe «l’azzeramento della rivalutazione annuale delle pensioni d’importo sei volte superiore al trattamento minimo per un triennio ed un’applicazione successiva del meccanismo perequativo in misura inferiore alla metà per un ulteriore triennio», effetti di cui «non si è preoccupato il legislatore del 2015, omettendo di coordinare le diverse disposizioni», sicché, considerato che «la soglia del sestuplo del trattamento minimo INPS» include pensioni di valore ben più modesto rispetto a quelle che, secondo la sentenza della Corte costituzionale n. 316 del 2010, sono dotate di margini di resistenza all’inflazione, «il sacrificio che deriverebbe dall’applicazione combinata del doppio meccanismo risulterebbe sproporzionato e, di conseguenza, irragionevole».

2.– Poiché le questioni hanno a oggetto, per la gran parte, le stesse disposizioni, e queste sono censurate in riferimento a parametri e con argomentazioni in larga misura coincidenti, i giudizi devono essere riuniti, per essere congiuntamente trattati e decisi.

3.– Deve essere confermata la dichiarazione di inammissibilità degli interventi spiegati, nel giudizio reg. ord. n. 124 del 2016, dal Sindacato autonomo dipendenti INAIL in pensione e dall’Associazione sindacale nazionale pensionati dipendenti INPS, per le ragioni esposte nell’ordinanza letta nel corso dell’udienza pubblica e allegata alla presente sentenza.

Devono inoltre essere dichiarati inammissibili perché tardivi – in quanto effettuati con un atto depositato soltanto il 23 ottobre 2017, ben oltre il termine di venti giorni dalla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale degli atti introduttivi dei giudizi previsto dall’art. 4, comma 4, delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale – gli interventi, in tutti i giudizi, del Codacons (Coordinamento di associazioni per la tutela dell’ambiente e dei diritti di utenti e consumatori) e di G. P., nella qualità di «pensionato» (ex plurimis: sentenza n. 35 del 2017 e ordinanza letta all’udienza del 24 gennaio 2017, allegata a tale sentenza; sentenza n. 187 del 2016 e ordinanza letta all’udienza del 17 maggio 2016, allegata a tale sentenza).

4.– Va preliminarmente rilevato che alcune delle parti private costituite hanno dedotto la violazione di parametri ulteriori rispetto a quelli indicati nelle ordinanze di rimessione.

In particolare, G. C., costituito nel giudizio reg. ord. n. 36 del 2016, ha dedotto la violazione dell’art. 136 Cost., mentre S. P., R. S., V. V., F. M. e F. B., costituti nel giudizio reg. ord. n. 24 del 2017, sul presupposto della natura tributaria della misura censurata, hanno dedotto la violazione degli artt. 3, 23 e 53 Cost., parametri, tutti, non evocati nelle rispettive ordinanze di rimessione (la seconda delle quali aveva anzi dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale prospettata dai ricorrenti in riferimento agli artt. 3, 23 e 53 Cost.).

Le suddette censure si traducono entrambe in questioni non sollevate dai giudici a quibus e sono, pertanto, inammissibili. Infatti, in base alla costante giurisprudenza di questa Corte, «l’oggetto del giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale è limitato alle disposizioni e ai parametri indicati nelle ordinanze di rimessione; non possono, pertanto, essere presi in considerazione, oltre i limiti in queste fissati, ulteriori questioni o profili di costituzionalità dedotti dalle parti, sia eccepiti, ma non fatti propri dal giudice a quo, sia volti ad ampliare o modificare successivamente il contenuto delle stesse ordinanze (ex plurimis, sentenze n. 96 del 2016; n. 231 e n. 83 del 2015)» (sentenza n. 29 del 2017; nello stesso senso, sentenza n. 214 del 2016).

5.– Devono ora essere esaminate le eccezioni di inammissibilità delle questioni sollevate in via principale dai rimettenti prospettate dall’INPS e dal Presidente del Consiglio dei ministri.

5.1.– L’INPS ha eccepito l’inammissibilità delle questioni sollevate con l’ordinanza n. 101 del 2016, con riguardo alla «rilevanza» delle stesse, sotto tre profili. In particolare, ad avviso dell’Istituto, il giudice rimettente avrebbe affermato «di non aver percepito con sufficiente nettezza l’esigenza di bilanciamento del sacrificio imposto a talune categorie di pensionati con le necessità di bilancio e di tenuta del sistema» sulla sola base dell’esame delle disposizioni censurate, senza neppure menzionare gli atti parlamentari e i documenti di «Verifica delle quantificazioni» che le accompagnano, con un «approccio alla lettura della norma […] errato e [che] conduce ad apprezzamenti sommari e superficiali». Detto giudice si sarebbe limitato «a una mera enunciazione dei principi consacrati negli artt. 36 e 38 della Costituzione, […] senza procedere alla loro interpretazione alla luce della giurisprudenza della Consulta e senza considerare gli altri di uguale rango ai fini del necessario bilanciamento, con particolare riferimento alla previsione dell’art. 81 della Carta», il che «non è sufficiente […] a fondare un giudizio di non manifesta infondatezza della questione di illegittimità costituzionale di una norma». Avrebbe trascurato inoltre di calare i condivisibili principi enunciati nel particolare attuale momento storico in cui «l’inflazione è pari a zero o addirittura negativa» e, per tale ragione, omette di precisare l’entità di un danno che risulta sostanzialmente assai limitato e comunque sopportabile per le categorie di pensionati colpiti dall’intervento. Quest’ultimo profilo di inammissibilità è prospettato dall’INPS anche con riguardo alle questioni di legittimità costituzionale sollevate con le ordinanze n. 188, n. 237, n. 242, n. 243 e n. 244 del 2016, n. 24, n. 43, n. 44, n. 77 e n. 78 del 2017.

Tali eccezioni non sono fondate.

Esse riguardano non tanto la rilevanza quanto la non manifesta infondatezza delle questioni – rilievo che, per il secondo profilo, è confermato anche dalla circostanza che l’INPS, pur definendola un’eccezione «quanto alla rilevanza», lamenta poi che ciò che afferma il rimettente «non è sufficiente […] a fondare un giudizio di non manifesta infondatezza della questione» – e, col richiamare la necessità che il bilanciamento di cui le disposizioni denunciate sono espressione venga valutato anche alla luce di quanto emerge dagli atti parlamentari, tenendo conto di tutti i contrapposti interessi, della giurisprudenza costituzionale e dell’attuale contesto storico, risultano sostanzialmente rivolte a fornire argomenti contrari a quelli posti dai rimettenti a fondamento delle proprie censure, sicché non ostano all’ammissibilità di queste ma devono essere più propriamente rimesse all’esame del merito.

5.2.– Secondo il Presidente del Consiglio dei ministri, tutte le questioni sollevate sarebbero inammissibili «nella misura in cui devono ritenersi insindacabili le scelte discrezionali del legislatore in ordine alla modalità e ai tempi della rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici; laddove, come nel caso di specie, tale intervento sia necessitato dal dare attuazione ai principi enunciati nella […] sentenza n. 70/16 [recte: n. 70/15], tenendo conto dell’eccezionalità della situazione economica internazionale, dell’esigenza prioritaria del raggiungimento degli obiettivi di finanza pubblica concordati in sede europea, anche garantendo l’equilibrio di bilancio dell’ente previdenziale».

L’eccezione non è fondata.

In proposito, è sufficiente osservare che la discrezionalità spettante al legislatore nella scelta dei meccanismi diretti ad assicurare nel tempo l’adeguatezza dei trattamenti pensionistici trova pur sempre un limite nel «criterio di ragionevolezza». Quest’ultimo, «così come delineato dalla giurisprudenza citata [della Corte costituzionale] in relazione ai principi contenuti negli artt. 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost., circoscrive la discrezionalità del legislatore e vincola le sue scelte all’adozione di soluzioni coerenti con i parametri costituzionali» (sentenza n. 70 del 2015).

Ne consegue che la sussistenza della discrezionalità legislativa invocata dalla difesa del Presidente del Consiglio dei ministri non esclude la necessità di verificare nel merito le scelte di volta in volta operate dal legislatore riguardo ai meccanismi di rivalutazione dei trattamenti pensionistici, quale che sia il contesto giuridico e di fatto nel quale esse si inseriscono, contesto del quale questa Corte, nel compiere tale verifica, non potrà, ovviamente, non tenere conto.

5.3.– Secondo il Presidente del Consiglio dei ministri, la motivazione dell’ordinanza n. 278 del 2016 sarebbe «tanto scarna da rendere [la stessa] inammissibile per difetto di motivazione sul requisito […] della non manifesta infondatezza».

Anche questa eccezione non è fondata.

La motivazione dell’ordinanza n. 278 del 2016, ancorché succinta, consente di comprendere la ragione della doglianza del rimettente, il quale ritiene che il denunciato comma 25-bis prevedrebbe il «blocc[o della] rivalutazione delle pensioni» superiori a sei volte il trattamento minimo INPS «per gli anni 2014 e seguenti», con il conseguente contrasto con il giudicato della sentenza n. 70 del 2015 – secondo cui, sempre con le parole del rimettente, «il blocco del meccanismo perequativo deve essere necessariamente contenuto nel tempo» – e la violazione dell’art. 136 Cost.

Da ciò l’infondatezza dell’eccezione prospettata dal Presidente del Consiglio dei ministri.

6.– Nel passare al merito, devono essere anzitutto scrutinate le questioni aventi a oggetto i commi 25 e 25-bis dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011, verso cui soprattutto si dirigono le censure dei rimettenti.

6.1. – La censura di violazione dell’art. 136 Cost., secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, «riveste carattere di priorità logica rispetto alle altre», proprio perché «attiene all’esercizio stesso del potere legislativo, che sarebbe inibito dal precetto costituzionale di cui si assume la violazione» (sentenze n. 2 del 2015, n. 245 del 2012 e n. 350 del 2010).

La stessa censura deve pertanto essere esaminata per prima, al fine di valutare se la disciplina denunciata costituisca una riproposizione della stessa volontà normativa già ritenuta lesiva della Costituzione (ex plurimis, sentenza n. 5 del 2017).

La questione sollevata non è fondata.

Nell’intento dichiarato di dare attuazione alla sentenza di questa Corte n. 70 del 2015, il legislatore ha operato un nuovo bilanciamento dei valori e degli interessi costituzionali coinvolti nella materia.

L’art. 1, comma 1, numero 1), del d.l. n. 65 del 2015 ha, infatti, introdotto una nuova disciplina della perequazione automatica dei trattamenti pensionistici relativa agli anni 2012 e 2013, diversa da quella dichiarata costituzionalmente illegittima con la sentenza n. 70 del 2015, poiché riconosce la perequazione, in misura percentuale decrescente, anche ai trattamenti pensionistici – in precedenza esclusi dalla stessa – compresi tra quelli superiori a tre volte il trattamento minimo INPS e quelli fino a sei volte lo stesso trattamento.

Inoltre, il denunciato comma 25-bis, inserito dall’art. 1, comma 1, numero 2), del d.l. n. 65 del 2015, regola il cosiddetto “trascinamento”, ossia il computo degli incrementi perequativi, reintrodotti dal comma 25 per gli anni 2012 e 2013, ai fini della determinazione della base di calcolo per la rivalutazione automatica per gli anni successivi.

Non vi è dunque una «mera riproduzione» (sentenze n. 73 del 2013 e n. 245 del 2012) della normativa dichiarata incostituzionale, né la realizzazione, «“anche se indirettamente”, [di] esiti corrispondenti» (sentenze n. 5 del 2017, n. 73 del 2013, n. 245 del 2012, n. 922 del 1988, n. 223 del 1983, n. 88 del 1966).

Le disposizioni denunciate presentano, al contrario, «significative novità normative» rispetto al precedente regime (sentenza n. 262 del 2009).

Né è corretto sostenere – come fanno alcuni dei rimettenti – che la violazione del giudicato costituzionale deriverebbe dal fatto che parte del risultato normativo di tali disposizioni corrisponde a quello del comma 25 dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011 dichiarato incostituzionale con la sentenza n. 70 del 2015 (come accade, in particolare, con riguardo alla disciplina della rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici superiori a sei volte il trattamento minimo INPS). La disciplina dettata dal legislatore, infatti, deve essere considerata nella sua interezza, perché costituisce un complessivo – ancorché temporaneo – nuovo disegno della perequazione dei trattamenti pensionistici. Ciò che rileva, dunque, ai fini dello scrutinio della violazione del giudicato costituzionale, è «il complesso delle norme che si succedono nel tempo» (sentenza n. 262 del 2009; nello stesso senso, sentenza n. 87 del 2017).

L’art. 1, comma 1, del d.l. n. 65 del 2015 rappresenta l’espressione di una scelta rispetto alla quale l’intervento di questa Corte non ha potuto «determinare, a svantaggio del legislatore, effetti corrispondenti a quelli di un “esproprio” della potestà legislativa sul punto» (sentenza n. 169 del 2015).

La sentenza n. 70 del 2015 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale, «nei termini esposti», del primo periodo del previgente comma 25 dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011, in ragione del fatto che, con tale disposizione, il legislatore aveva fatto cattivo uso della discrezionalità a esso spettante (punto 8 del Considerato in diritto), poiché nel bilanciare l’interesse dei pensionati alla conservazione del potere d’acquisto dei propri trattamenti pensionistici con le esigenze finanziarie dello Stato, pure meritevoli di tutela, aveva irragionevolmente sacrificato il primo, «in particolar modo, [quello dei] titolari di trattamenti previdenziali modesti», in nome di esigenze finanziarie neppure illustrate (punto 10 del Considerato in diritto).

Tale sentenza demandava al legislatore un intervento che, emendando questi vizi, operasse un nuovo bilanciamento dei valori e degli interessi costituzionali coinvolti, nel rispetto dei «limiti di ragionevolezza e proporzionalità», senza che alcuno di essi risultasse «irragionevolmente sacrificato».

L’art. 1, comma 1, del d.l. n. 65 del 2015 – dichiaratamente adottato «Al fine di dare attuazione ai principi enunciati nella sentenza […] n. 70 del 2015» – ha introdotto una nuova non irragionevole modulazione del meccanismo che sorregge la perequazione, la cui portata è stata ridefinita compatibilmente con le risorse disponibili.

Va ancora osservato che la nuova disciplina, nell’accogliere la sollecitazione di questa Corte, non poteva nel caso in questione che produrre effetti retroattivi, purché circoscritti – come in effetti è stato – all’arco temporale relativo agli anni 2012 e 2013 cui faceva riferimento la disposizione annullata.

Un tale effetto retroattivo è dunque coerente con la finalità di una misura legislativa che, in attuazione della sentenza di questa Corte, si prefiggeva di sostituire – per il biennio 2012-2013 – la disciplina della perequazione, secondo diverse modalità, espressive di un nuovo bilanciamento degli interessi costituzionali coinvolti, rispettoso dei «limiti di ragionevolezza e proporzionalità» (per un intervento legislativo retroattivo conseguente a una declaratoria di illegittimità costituzionale, sentenza n. 87 del 2017).

6.2.– Collegata a quanto si è detto circa la peculiare finalità attuativa del giudicato costituzionale, che è propria delle disposizioni denunciate, e la connessa portata retroattiva delle stesse, è la trattazione delle questioni sollevate in riferimento all’art. 3 Cost., in relazione ai principi del legittimo affidamento e della certezza del diritto, e all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione al diritto a un equo processo garantito dall’art. 6, paragrafo 1, della CEDU.

Tali questioni – basate su argomentazioni sostanzialmente comuni e dunque da esaminare congiuntamente – non sono fondate.

6.2.1.– Deve escludersi che, in capo ai titolari di trattamenti pensionistici, si fosse determinato un affidamento nell’applicazione della disciplina immediatamente risultante dalla sentenza n. 70 del 2015. Quest’ultima rendeva prevedibile un intervento del legislatore che, nell’esercizio della sua discrezionalità, disciplinasse nuovamente la perequazione relativa agli anni 2012 e 2013 sulla base di un bilanciamento di tutti gli interessi costituzionali coinvolti, in particolare di quelli della finanza pubblica.

Né un affidamento avrebbe potuto determinarsi, data l’immediatezza dell’intervento operato dal legislatore, tenuto conto che il d.l. n. 65 del 2015 è entrato in vigore il 21 maggio 2015, a distanza di soli ventuno giorni dal deposito, il 30 aprile 2015, della sentenza n. 70 del 2015. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, una situazione giuridica, per dar luogo a un affidamento, deve risultare, oltre che «sorta in un contesto giuridico sostanziale atto a far sorgere nel destinatario una ragionevole fiducia nel suo mantenimento», anche «protratta per un periodo sufficientemente lungo» (sentenza n. 56 del 2015).

6.2.2.– La finalità attuativa della sentenza di questa Corte n. 70 del 2015 propria dell’intervento operato con l’art. 1, comma 1, del d.l. n. 65 del 2015, unitamente alle altre circostanze in cui esso si inserisce, escludono che i denunciati commi 25 e 25-bis – rispettivamente sostituito e inserito dall’art. 1, comma 1 – siano in contrasto con l’art. 6, paragrafo 1, della CEDU.

La Corte EDU ha precisato che tale articolo «non può […] essere interpretato nel senso di impedire ogni ingerenza dei pubblici poteri in un procedimento giudiziario pendente del quale sono parti» (sentenze 27 maggio 2004, OGIS-Institut Stanislas, OGEC Saint Pie X e Blanche de Castille e altri contro Francia e 23 ottobre 1997, National and Provincial Building Society, the Leeds Permanent Building Society and the Yorkshire Building Society contro Regno Unito).

In particolare, nelle citate sentenze, la Corte di Strasburgo ha asserito che, al fine di valutare se un intervento normativo retroattivo idoneo a incidere sull’esito di procedimenti in corso integri una violazione del principio della parità delle armi, occorre «tenere conto di tutte le circostanze della causa» e «delle ragioni che lo Stato […] ha avanzato per giustificare l’intervento» (sentenze citate sui casi OGIS-Institut Stanislas, OGEC Saint Pie X e Blanche de Castille e altri contro Francia e National and Provincial Building Society, the Leeds Permanent Building Society and the Yorkshire Building Society contro Regno Unito ).

Le circostanze e le ragioni dell’intervento operato con l’art. 1, comma 1, del d.l. n. 65 del 2015 portano a escludere che esso, ancorché incida sull’esito di procedimenti in corso, violi l’art. 6, paragrafo 1, della CEDU. Infatti, lo scopo di tale intervento non era quello di incidere sull’esito di processi di cui lo Stato era parte, ma quello, espressamente dichiarato, di «dare attuazione ai principi enunciati dalla sentenza della Corte costituzionale n. 70 del 2015», operando, con riguardo a tutti i trattamenti pensionistici, un nuovo bilanciamento tra l’interesse dei pensionati e le esigenze finanziarie dello Stato. Oltre a eliminare le possibili incertezze in ordine alla disciplina applicabile in seguito a tale sentenza, l’intervento si proponeva di rimediare ai vizi di irragionevolezza e sproporzione della disposizione dichiarata incostituzionale.

6.3.– Anche la questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale regionale per l’Emilia-Romagna, in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU, non è fondata.

Ricorrono, infatti, le condizioni che, secondo la giurisprudenza della Corte EDU, rendono un’ingerenza nel diritto al rispetto dei propri beni – nella specie, il credito relativo alla perequazione automatica per gli anni 2012 e 2013 che sarebbe spettata a seguito della sentenza n. 70 del 2015 – compatibile con l’invocato parametro interposto (in proposito, da ultimo, Grande Camera, sentenze 13 dicembre 2016, Bélané Nagy contro Ungheria e 5 settembre 2017, Fábián contro Ungheria, entrambe in tema di diritti a prestazioni sociali).

L’espresso collegamento delle disposizioni denunciate all’attuazione della sentenza di questa Corte n. 70 del 2015 consente di ritenere certamente sussistente il perseguimento di «un interesse pubblico (o generale)», condizione per cui la Corte EDU riconosce alle autorità nazionali un ampio margine di apprezzamento (sentenza sul caso Bélané Nagy, paragrafo 113).

Anche il requisito della proporzionalità, su cui paiono incentrarsi le censure del rimettente, è sussistente. Diversamente dall’impostazione seguita dal giudice a quo, l’entità dell’onere in capo ai pensionati deve essere valutata tenendo conto del trattamento complessivo a essi spettante, non riguardo alla sola perequazione automatica, sottratta per intero ai pensionati titolari di trattamenti superiori a sei volte il minimo INPS, per gli anni 2012 e 2013. Ciò che rileva nella giurisprudenza della Corte EDU (oltre alle citate sentenze sui casi Fábián e Bélané Nagy, si vedano anche le sentenze 15 aprile 2014, Stefanetti e altri contro Italia, e 31 maggio 2011, Maggio e altri contro Italia), è «la sostanza del diritto alla pensione», l’esistenza, o l’assenza di un «onere esorbitante» in capo all’interessato (sentenza sul caso Bélané Nagy, rispettivamente, paragrafi 118 e 126), in definitiva, la valutazione se vi sia o non vi sia il sacrificio del diritto fondamentale alla pensione.

Alla luce di tale orientamento, si deve ritenere che il blocco della perequazione per due soli anni e il conseguente “trascinamento” dello stesso agli anni successivi non costituiscono un sacrificio sproporzionato rispetto alle esigenze, di interesse generale, perseguite dai denunciati commi 25 e 25-bis. Tali disposizioni incidono su una limitata percentuale dell’importo complessivo del trattamento pensionistico, non sulla disponibilità dei mezzi di sussistenza da parte di pensionati titolari di trattamenti medio-alti. Sull’entità delle perdite di prestazione e dei mezzi di sussistenza quali fattori per valutare se le autorità nazionali abbiano superato i limiti del proprio margine di apprezzamento, si è del resto espressa la Corte di Strasburgo (sentenza sul caso Fábián, rispettivamente, paragrafi 74-75 e 78-82).

6.4.– Non fondata è la censura, anch’essa prospettata dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale regionale per l’Emilia-Romagna, di violazione degli artt. 2, 3, 23 e 53 Cost., in relazione all’asserita natura tributaria dell’azzeramento della rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici superiori a sei volte il trattamento minimo INPS previsto dai denunciati commi 25, lettera e), e 25-bis dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011.

Con le sentenze n. 173 del 2016 e n. 70 del 2015, questa Corte ha già escluso che le misure di blocco della rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici abbiano natura tributaria.

Pur consapevole di tale statuizione, il rimettente afferma che le misure adottate dal legislatore in seguito alla sentenza n. 70 del 2015 «ripropongono il dubbio circa la introduzione […] di una prestazione patrimoniale di natura tributaria», atteso che esse, oltre a non modificare un rapporto di tipo sinallagmatico, procurano una definitiva decurtazione patrimoniale a carico del soggetto passivo, dato l’effetto di “trascinamento” che le caratterizza, e sono destinate a sovvenire pubbliche spese (come sarebbe confermato dal fatto che, ai sensi dell’art. 17, comma 1, lettera b) della legge 31 dicembre 2009, n. 196, recante «Legge di contabilità e finanza pubblica», la copertura finanziaria delle leggi che comportino nuovi o maggiori oneri, ovvero minori entrate, può essere determinata anche «mediante riduzione di precedenti autorizzazioni legislative di spesa»).

Queste argomentazioni non sono tuttavia tali da indurre questa Corte a modificare l’orientamento espresso con le due sentenze menzionate.

In proposito, è sufficiente osservare che l’effetto di “trascinamento” proprio delle censurate misure di blocco della perequazione non ne muta la natura di misure di mero risparmio di spesa e non di decurtazione del patrimonio del soggetto passivo.

Deve quindi essere ribadita la natura non tributaria delle misure di blocco della perequazione e, in particolare, di quelle previste dai denunciati commi 25, lettera e), e 25-bis, con la conseguente non fondatezza della questione sollevata, che tale natura, viceversa, presuppone.

6.5.– Non è fondata la censura secondo cui i denunciati commi 25 e 25-bis dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011 violerebbero i principi di eguaglianza e di ragionevolezza (di cui all’art. 3 Cost.) nonché di adeguatezza e di proporzionalità dei trattamenti di quiescenza (di cui, rispettivamente, all’art. 38, secondo comma, e all’art. 36, primo comma, Cost.), perché presenterebbero gli stessi profili di contrasto ravvisati dalla sentenza n. 70 del 2015 in capo al previgente comma 25 dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011.

6.5.1.– La rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici costituisce uno strumento tecnico teso a salvaguardare le pensioni dall’erosione del potere di acquisto causata dall’inflazione, anche dopo il collocamento a riposo (sentenza n. 70 del 2015, punto 8 del Considerato in diritto, che cita, in proposito, la sentenza n. 26 del 1980). Essa si prefigge di assicurare il rispetto nel tempo dei principi di adeguatezza e di proporzionalità dei trattamenti di quiescenza (ex plurimis, sentenze n. 70 del 2015 e n. 208 del 2014).

Questa Corte ha scrutinato i «valori personali inerenti alla tutela previdenziale», ancorati al «principio di solidarietà (sotteso all’art. 38 Cost.) coordinato col principio di razionalità-equità (art. 3 Cost.)», tenuto conto del contenimento della spesa e chiarendo che deve essere comunque salvaguardata la garanzia di un reddito che non comprima le «esigenze di vita cui era precedentemente commisurata la prestazione previdenziale» (sentenza n. 240 del 1994).

Essa ha ritenuto raggiungibile un tale obiettivo «per il tramite e nella misura» dell’art. 38, secondo comma, Cost. (sentenza n. 156 del 1991), il che comporta «solo indirettamente» (sentenza n. 361 del 1996) un aggancio all’art. 36, primo comma, Cost., anche al fine di dare un più concreto contenuto al parametro della adeguatezza.

Su questo solido terreno è chiamata a esercitarsi la discrezionalità del legislatore, bilanciando, secondo criteri non irragionevoli, i valori e gli interessi costituzionali coinvolti. Da un lato vi è l’interesse dei pensionati a preservare il potere di acquisto dei propri trattamenti previdenziali, dall’altro vi sono le esigenze finanziarie e di equilibrio di bilancio dello Stato (ex plurimis, sentenze n. 70 del 2015, n. 316 del 2010, n. 30 del 2004; ordinanze n. 383 del 2004, n. 531 del 2002, n. 256 del 2001). In questo bilanciamento, il legislatore non può «eludere il limite della ragionevolezza» (sentenza n. 70 del 2015).

Ed è tale limite che questa Corte, nella sentenza n. 70 del 2015, ha ritenuto valicato dal previgente comma 25 dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011, che aveva sacrificato l’interesse dei pensionati, «in particolar modo di quelli titolari di trattamenti previdenziali modesti», a vedere salvaguardato il proprio potere di acquisto in nome di contrapposte esigenze finanziarie di risparmio di spesa «non illustrate in dettaglio».

Il principio di ragionevolezza rappresenta il cardine intorno a cui devono ruotare le scelte del legislatore nella materia pensionistica e assurge, per questa sua centralità, a principio di sistema. Per assicurare una coerente applicazione di tale principio-cardine negli interventi legislativi che si prefiggono risparmi di spesa, questi ultimi devono essere accuratamente motivati, il che significa sostenuti da valutazioni della situazione finanziaria basate su dati oggettivi (sentenza n. 70 del 2015, punto 10 del Considerato in diritto). Le relazioni tecniche, illustrative degli interventi legislativi che nella materia previdenziale si prefiggono risparmi di spesa, così come ogni altra documentazione inerente le manovre finanziarie, rappresentano dunque uno strumento per la verifica delle scelte del legislatore (art. 17, commi 3 e 7, della legge 31 dicembre 2009, n. 196, recante «Legge di contabilità e finanza pubblica», e più in generale art. 18 della legge 24 dicembre 2012, n. 243, recante «Disposizioni per l’attuazione del principio del pareggio di bilancio ai sensi dell’articolo 81, sesto comma, della Costituzione»).

6.5.2. Contrariamente a quanto sostenuto da ben quattordici delle quindici ordinanze di rimessione (reg. ord. n. 36, n. 101, n. 124, n. 188, n. 237, n. 242, n. 243 e n. 244 del 2016, n. 24, n. 25, n. 43, n. 44, n. 77 e n. 78 del 2017), i denunciati commi 25 e 25-bis sono il frutto di scelte non irragionevoli del legislatore.

Lo scopo dell’intervento è di «dare attuazione ai principi enunciati nella sentenza della Corte costituzionale n. 70 del 2015, nel rispetto del principio dell’equilibrio di bilancio e degli obiettivi di finanza pubblica, assicurando la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, anche in funzione della salvaguardia della solidarietà intergenerazionale» (alinea dell’art. 1, comma 1, del d.l. n. 65 del 2015). Le disposizioni citate trovano dettagliata illustrazione nella «Relazione», nella «Relazione tecnica» e nella «Verifica delle quantificazioni» relative al disegno di legge di conversione di tale decreto (A.C. n. 3134). In tali atti parlamentari sono riferiti i dati contabili che confermano l’impostazione seguita dal legislatore, nel quadro delle regole nazionali e europee.

Alla luce di tali elementi, deve ritenersi che, diversamente dalla disciplina oggetto della sentenza n. 70 del 2015, dal disegno complessivo dei denunciati commi 25 e 25-bis emergono con evidenza le esigenze finanziarie di cui il legislatore ha tenuto conto nell’esercizio della sua discrezionalità. Nell’attuazione dei principi di adeguatezza e di proporzionalità dei trattamenti pensionistici tali esigenze sono preservate attraverso un sacrificio parziale e temporaneo dell’interesse dei pensionati a tutelare il potere di acquisto dei propri trattamenti.

L’osservanza di tali principi trova conferma nella scelta non irragionevole di riconoscere la perequazione in misure percentuali decrescenti all’aumentare dell’importo complessivo del trattamento pensionistico, sino a escluderla per i trattamenti superiori a sei volte il minimo INPS. Il legislatore ha dunque destinato le limitate risorse finanziarie disponibili in via prioritaria alle categorie di pensionati con i trattamenti pensionistici più bassi.

Nel valutare la compatibilità delle misure di adeguamento delle pensioni con i vincoli posti dalla finanza pubblica, questa Corte ha sostenuto che manovre correttive attuate dal Parlamento ben possono escludere da tale adeguamento le pensioni «di importo più elevato» (ordinanza n. 256 del 2001). Nel replicare, in più occasioni, una tale scelta, che privilegia i trattamenti pensionistici di modesto importo, il legislatore soddisfa un canone di non irragionevolezza che trova riscontro nei maggiori margini di resistenza delle pensioni di importo più alto rispetto agli effetti dell’inflazione. La stessa scelta è confermata con le disposizioni censurate.

6.5.3.– Non si può ritenere che i denunciati commi 25 e 25-bis violino il principio di adeguatezza dei trattamenti pensionistici, di cui all’art. 38, secondo comma, Cost., che impone che ai lavoratori siano garantiti «mezzi adeguati alle […] esigenze di vita» in situazioni che, come la vecchiaia, richiedono tutela.

6.5.3.1.– Come si è visto, la lettera e) del denunciato comma 25 prevede l’azzeramento, per gli anni 2012 e 2013, della rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici superiori a sei volte il minimo INPS. Ai sensi del comma 25-bis – censurato da alcuni dei rimettenti – l’azzeramento, bloccando anche la base di calcolo per computare la perequazione di tali trattamenti per gli anni successivi, produce effetti negativi per i pensionati.

Queste misure, tuttavia, non si ripercuotono sui trattamenti pensionistici superiori a sei volte il minimo INPS in modo tale da colpirne l’adeguatezza.

Dal principio enunciato dall’art. 38, secondo comma, Cost., infatti, «non può farsi discendere, come conseguenza costituzionalmente necessitata, quella dell’adeguamento con cadenza annuale di tutti i trattamenti pensionistici» (sentenza n. 316 del 2010).

Si deve anche osservare che il blocco della perequazione stabilito per due anni dai denunciati commi 25, lettera e), e 25-bis, diversamente da quello (di pari durata) previsto dal previgente comma 25 del d.l. n. 201 del 2011, non incide su trattamenti previdenziali «modesti» – elemento cui questa Corte, nel dichiarare l’illegittimità costituzionale di quest’ultima disposizione, aveva attribuito specifico rilievo – ma soltanto su trattamenti pensionistici di importo medio-alto, quali sono da considerare quelli di importo complessivo superiore a sei volte il trattamento minimo INPS (sentenza n. 70 del 2015).

Tali trattamenti, proprio per la loro maggiore entità, presentano margini di resistenza all’erosione del potere d’acquisto causata dall’inflazione, peraltro di livello piuttosto contenuto negli anni 2011 e 2012, come si evince dalla già citata «Relazione tecnica».

Si deve dunque escludere che il blocco della rivalutazione automatica dei trattamenti superiori a sei volte il minimo INPS, previsto, per gli anni 2012 e 2013, dai denunciati commi 25, lettera e), e 25-bis, possa pregiudicare l’adeguatezza degli stessi, considerati nel loro complesso, a soddisfare le esigenze di vita.

Né tale valutazione è inficiata dal fatto – su cui insistono alcuni dei rimettenti – che il censurato blocco della perequazione non prevede alcuna forma di recupero e produce i propri effetti, negativi per i pensionati, anche sulla perequazione per gli anni successivi. La mancanza di forme di recupero e l’effetto di cosiddetto “trascinamento” costituiscono, infatti – in difetto di specifiche disposizioni di segno contrario –conseguenze delle misure di blocco della perequazione delle pensioni, come questa Corte ha sottolineato nella sentenza n. 70 del 2015 (punto 9 del Considerato in diritto).

6.5.3.2.– Come si è anticipato, le lettere b), c) e d) del denunciato comma 25 riconoscono la rivalutazione automatica, per gli anni 2012 e 2013, per i trattamenti pensionistici compresi tra quelli superiori a tre volte e fino a sei volte il trattamento minimo INPS, in misura decrescente all’aumentare dei trattamenti. Ai sensi del comma 25-bis – pure censurato da alcuni dei rimettenti – tale rivalutazione automatica relativa agli anni 2012 e 2013 è riconosciuta, ai fini del computo della base di calcolo per quantificare la perequazione negli anni successivi, nelle misure del: 20 per cento negli anni 2014 e 2015; 50 per cento a decorrere dall’anno 2016.

Neanche in questo caso la disciplina censurata può ritenersi tale da minare l’adeguatezza alle esigenze di vita dei trattamenti pensionistici compresi tra quelli superiori a tre volte e fino a sei volte il minimo INPS.

Il riconoscimento della perequazione in misura progressivamente decrescente al crescere dell’importo complessivo di tali trattamenti (introdotto dalle lettere b, c e d del denunciato comma 25) si differenzia dal precedente blocco della perequazione (dettato dal previgente comma 25). Siffatti «criteri di progressività» sono stati ritenuti da questa Corte «parametrati sui valori costituzionali della proporzionalità e dell’adeguatezza dei trattamenti di quiescenza» (sentenze n. 173 del 2016 e n. 70 del 2015, entrambe con riferimento al comma 483 dell’art. 1 della legge n. 147 del 2013). Essi, infatti, assicurano ai trattamenti pensionistici una salvaguardia dall’erosione del potere d’acquisto che aumenta gradualmente al diminuire, con la riduzione del loro importo, anche della loro capacità di resistenza alla stessa erosione.

Ribadita la discrezionalità che spetta al legislatore nel bilanciare l’interesse dei pensionati alla difesa del potere d’acquisto dei propri trattamenti con le esigenze finanziarie dello Stato, le misure percentualmente decrescenti della perequazione riconosciuta, per gli anni 2012 e 2013, a trattamenti pensionistici medi (quali devono considerarsi, per quanto detto, quelli superiori a cinque volte e pari o inferiori a sei volte il minimo INPS) o, ancorché modesti, tuttavia pur sempre superiori a tre e a quattro volte il trattamento che costituisce il «nucleo essenziale» della tutela previdenziale (sentenza n. 173 del 2016), non sono irragionevoli. Esse, infatti, non sono tali da poter concretamente pregiudicare l’adeguatezza dei trattamenti, considerati nel loro complesso, a soddisfare le esigenze di vita.

Né a diversa valutazione può condurre il mero fatto che, a norma del denunciato comma 25-bis, gli incrementi perequativi attribuiti per gli anni 2012 e 2013 siano riconosciuti, ai fini della determinazione delle basi di calcolo per il computo della perequazione a decorrere dal 2014, nelle limitate percentuali indicate dallo stesso comma.

6.5.4.– Deve altresì escludersi che i denunciati commi 25 e 25-bis violino il principio di proporzionalità dei trattamenti pensionistici alla quantità e qualità del lavoro prestato, di cui all’art. 36, primo comma, Cost.

Nell’applicare il principio di proporzionalità ai trattamenti di quiescenza – considerati, come si è detto, nella loro funzione sostitutiva del cessato reddito di lavoro – questa Corte ha precisato che ciò non comporta «un’automatica ed integrale coincidenza tra il livello delle pensioni e l’ultima retribuzione, poiché è riservata al legislatore una sfera di discrezionalità per l’attuazione» anche di tale principio (sentenza n. 70 del 2015, punto 8 del Considerato in diritto).

Più di recente essa ha rimarcato che la garanzia dell’art. 38 Cost. è «agganciata anche all’art. 36 Cost., ma non in modo indefettibile e strettamente proporzionale» (sentenza n. 173 del 2016). Pertanto, la determinazione del trattamento pensionistico e del suo adeguamento tiene conto anche dell’impegno individuale nella quantità e qualità del lavoro svolto nella vita attiva.

Considerato l’orientamento espresso da questa Corte, le argomentazioni sin qui spese, con riferimento al principio di adeguatezza di cui all’art. 38, secondo comma, Cost., muovono nella direzione della non irragionevolezza del bilanciamento operato dai denunciati commi 25 e 25-bis tra l’interesse dei pensionati e le esigenze finanziarie dello Stato. Inoltre, tali disposizioni rispettano il principio di proporzionalità dei trattamenti di quiescenza alla quantità e qualità del lavoro prestato.

In conclusione, nella costante interazione fra i principi costituzionali racchiusi negli articoli 3, 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost., si devono rinvenire i limiti alle misure di contenimento della spesa che, in mutevoli contesti economici, hanno inciso sui trattamenti pensionistici. L’individuazione di un equilibrio fra i valori coinvolti determina la non irragionevolezza delle disposizioni censurate.

6.5.5.– La sentenza n. 70 del 2015, nel richiamare la sentenza n. 316 del 2010, ne ha evidenziato le argomentazioni che conducevano a escludere il contrasto dell’art. 1, comma 19, della legge n. 247 del 2007 – che aveva previsto il blocco, per l’anno 2008, della perequazione dei trattamenti pensionistici superiori a otto volte il minimo INPS – con i principi di ragionevolezza e di adeguatezza e proporzionalità delle prestazioni previdenziali, anche in considerazione della durata solo annuale di tale blocco, della sua incidenza su pensioni «di importo piuttosto elevato» e della sua «chiara finalità solidaristica». Diversamente da quanto affermano alcuni dei rimettenti, la sentenza n. 70 del 2015 non ha interpretato tali caratteristiche quali condizioni indefettibili di costituzionalità delle misure di blocco (o di limitazione) della rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici, poiché ciascuna di esse non può che essere scrutinata nella sua singolarità e in relazione al quadro storico in cui si inserisce.

7.– Va ora esaminata la questione di legittimità costituzionale, sollevata dal Tribunale di Brescia (reg. ord. n. 188 del 2016), dell’art. 1, comma 483, lettera e), della legge n. 147 del 2013, nella parte in cui disciplina la rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici superiori a sei volte il minimo INPS per l’anno 2014.

Tale questione non è fondata.

Con la sentenza n. 173 del 2016, questa Corte ha già dichiarato l’infondatezza di una questione di legittimità costituzionale dell’intero comma 483 dell’art. 1 della legge n. 147 del 2013, sollevata dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Calabria, in riferimento ai medesimi parametri costituzionali e con riguardo a profili e argomenti sostanzialmente analoghi a quelli prospettati dal Tribunale di Brescia. Ancorché «la limitazione della rivalutazione monetaria dei trattamenti pensionistici, per il biennio 2012-2013, di cui al citato art. 24, comma 25, del d.l. n. 201 del 2011 [sia] stata dichiarata costituzionalmente illegittima con sentenza di questa Corte n. 70 del 2015», si è evidenziato che «questa stessa sentenza (al punto 7 del Considerato in diritto) ha sottolineato come da quella norma (fonte di un “blocco integrale” della rivalutazione per le pensioni di importo superiore a tre volte il minimo) si “differenzi” (non condividendone, quindi, le ragioni di incostituzionalità) l’art. 1, comma 483, della legge 147 del 2013, che, viceversa, “ha previsto, per il triennio 2014-2016, una rimodulazione nell’applicazione della percentuale di perequazione automatica sul complesso dei trattamenti pensionistici, secondo il meccanismo di cui all’art. 34, comma 1, della legge n. 448 del 1998, con l’azzeramento per le sole fasce di importo superiore a sei volte il trattamento minimo INPS e per il solo anno 2014”, ispirandosi “a criteri di progressività, parametrati sui valori costituzionali della proporzionalità e della adeguatezza dei trattamenti di quiescenza”».

Poiché – come si è detto – il rimettente non ha prospettato profili o argomentazioni diversi rispetto a quelli già sottoposti a questa Corte con la citata ordinanza della Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Calabria, che possano indurre a una differente pronuncia sulla sollevata questione di legittimità costituzionale, questa deve essere dichiarata non fondata.

8.– Devono ora essere esaminate le questioni di legittimità costituzionale sollevate da alcuni dei rimettenti in via subordinata.

8.1.– La questione promossa dal Tribunale ordinario di Milano (reg. ord. n. 124 del 2016) nei confronti del comma 25, lettere b), c), d) ed e), dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011, congiuntamente all’art. 1, comma 483, lettera e), della legge n. 147 del 2013, non è fondata.

In primo luogo, appare erroneo il presupposto interpretativo da cui il rimettente muove nel sollevarla. Infatti – contrariamente a quanto dallo stesso affermato – la denunciata combinazione di più disposizioni non prevede, per i trattamenti pensionistici superiori a sei volte il minimo INPS, il blocco della perequazione «addirittura [per] un triennio (2012, 2013 e 2014)», ma soltanto per il 2012 e 2013, mentre, per il 2014, la lettera e) del comma 483 dell’art. 1 della legge n. 147 del 2013, non dispone il blocco della perequazione ma la riconosce nella misura del 40 per cento per la fascia di importo non superiore a sei volte il suddetto trattamento minimo.

In secondo luogo, l’affermazione del rimettente secondo cui «il legislatore del 2015 […] non ha minimamente preso in considerazione la gravosità del proprio intervento avendo anche riguardo a quanto già disposto con la legge di stabilità per l’anno 2014», oltre che meramente assertiva e del tutto indimostrata, trascura di considerare che il d.l. n. 65 del 2015, nel bilanciare l’interesse dei pensionati con le esigenze della finanza pubblica, ha inevitabilmente avuto riguardo a quanto già previsto dall’art. 1, comma 483, lettera e), della legge n. 147 del 2013, che incide, in generale, sul quadro della finanza pubblica. Inoltre, e più specificamente, la valutazione degli effetti, su tale quadro, del suddetto d.l. n. 65 del 2015 – in particolare, del “nuovo” comma 25-bis – dipendeva completamente dalla misura della rivalutazione automatica prevista dal comma 483.

Da ciò la non fondatezza della questione sollevata, in via subordinata, dal Tribunale di Milano.

8.2.– Restano da esaminare le (identiche) questioni di legittimità costituzionale promosse, in via subordinata, con tre ordinanze (reg. ord. n. 242, n. 243 e n. 244 del 2016), dal Tribunale di Genova nei confronti dei commi 25 e 25-bis dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011, «in collegamento» con l’art. 1, comma 483, lettere d) ed e), della legge n. 147 del 2013.

8.2.1.– Preliminarmente, l’INPS ha eccepito l’inammissibilità, per difetto di rilevanza, di quelle sollevate con le ordinanze n. 242 e n. 244 del 2016, deducendo che le censure prospettate concernono esclusivamente la disciplina dei trattamenti pensionistici superiori a sei volte il trattamento minimo INPS, mentre i giudizi a quibus sono stati promossi da pensionati con un trattamento compreso tra tre e sei volte tale minimo.

L’eccezione è fondata.

Come correttamente rilevato dall’INPS, la censura in esame riguarda la disciplina della rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici superiori a sei volte il trattamento minimo INPS, mentre nei giudizi principali nell’ambito dei quali sono state emanate le ordinanze n. 242 e n. 244 del 2016 nessuno dei pensionati ricorrenti era titolare di un trattamento pensionistico superiore a sei volte il trattamento minimo INPS. Ne consegue che l’eventuale accoglimento della questione sulla disciplina della rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici superiori a sei volte il trattamento minimo INPS non avrebbe alcuna influenza sui suddetti giudizi a quibus. Da ciò l’irrilevanza della questione in tali giudizi.

8.2.2.– La questione è invece rilevante nel giudizio nel cui ambito è stata emanata l’ordinanza n. 243 del 2016 – in cui uno dei due pensionati ricorrenti è titolare di un trattamento pensionistico superiore a sei volte il trattamento minimo INPS – e deve, perciò, essere scrutinata nel merito.

Essa non è fondata.

Infatti, similmente a quanto si è osservato (al punto 8.1.) con riguardo alla questione promossa in via subordinata dal Tribunale di Milano (reg. ord. n. 124 del 2016), è erroneo il presupposto interpretativo da cui muove il rimettente, atteso che – contrariamente a quanto da lui affermato – la normativa denunciata non prevede, per i trattamenti pensionistici superiori a sei volte il minimo INPS, il blocco della perequazione «per un triennio» ma soltanto per il 2012 e 2013. Inoltre l’affermazione del rimettente secondo cui «il legislatore del 2015, [ha] ome[sso] di coordinare le diverse disposizioni», oltre che meramente assertiva e del tutto indimostrata, trascura di considerare che il d.l. n. 65 del 2015, nel bilanciare l’interesse dei pensionati con le esigenze della finanza pubblica, ha inevitabilmente avuto riguardo a quanto già previsto dall’art. 1, comma 483, lettera e), della legge n. 147 del 2013.

Infine, deve essere considerata l’ulteriore – e conclusiva – asserzione del rimettente, secondo cui «il sacrificio che deriverebbe dall’applicazione combinata del doppio meccanismo risulterebbe sproporzionato e, di conseguenza, irragionevole» in quanto i trattamenti pensionistici superiori a sei volte il trattamento minimo INPS includono pensioni di valore ben più modesto di quelle, superiori a otto volte il predetto minimo, che la sentenza n. 316 del 2010 ha ritenuto dotate di margini di resistenza all’inflazione. Affermare che le pensioni superiori a otto volte il trattamento minimo INPS «presentano margini di resistenza all’erosione determinata dal fenomeno inflattivo» non implica che pensioni anche inferiori a detto importo non possano presentare margini, ancorché più ridotti, di resistenza all’inflazione. Il giudice a quo trasforma, in tal modo, una delle ragioni per cui la sentenza n. 316 del 2010 ha ritenuto che la misura prevista dell’art. 1, comma 19, della legge n. 247 del 2007, fosse conforme ai canoni di ragionevolezza, adeguatezza e proporzionalità dei trattamenti pensionistici, in una condizione indefettibile di legittimità costituzionale delle misure di blocco della perequazione (vedi il punto 6.5.5.).

per questi motivi

La Corte Costituzionale

riuniti i giudizi,

1) dichiara inammissibili gli interventi, in tutti i giudizi, del Codacons (Coordinamento di associazioni per la tutela dell’ambiente e dei diritti di utenti e consumatori) e di G. P., nella qualità di «pensionato»;

2) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dei commi 25 e 25-bis dell’art. 24 del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214 – come sostituito (il comma 25) e inserito (il comma 25-bis), rispettivamente, dai numeri 1) e 2) del comma 1 dell’art. 1 del decreto-legge 21 maggio 2015, n. 65 (Disposizioni urgenti in materia di pensioni, di ammortizzatori sociali e di garanzie TFR), convertito, con modificazioni, dalla legge 17 luglio 2015, n. 109 – sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 23, 36, 38, 53, 117, primo comma – quest’ultimo in relazione all’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e all’art. 1 del Protocollo addizionale alla stessa – e 136 della Costituzione, dai Tribunali ordinari di Palermo, Milano, Brescia, Napoli, Genova, Torino, La Spezia, e Cuneo, nonché dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale regionale per l’Emilia-Romagna, con le ordinanze indicate in epigrafe;

3) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 483, lettera e), della legge 27 dicembre 2013, n. 147, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2014)», come modificato dall’art. 1, comma 286, della legge 28 dicembre 2015, n. 208, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2016)», sollevate, in riferimento agli artt. 3, 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost., dal Tribunale ordinario di Brescia, con l’ordinanza indicata in epigrafe;

4) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale del comma 25 dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011, come sostituito dall’art. 1, comma 1, numero 1), del d.l. n. 65 del 2015, in combinazione con l’art. 1, comma 483, della legge n. 147 del 2013, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost., dal Tribunale ordinario di Milano, con l’ordinanza indicata in epigrafe;

5) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dei commi 25 e 25-bis dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011 – come sostituito (il comma 25) e inserito (il comma 25-bis), rispettivamente, dai numeri 1) e 2) del comma 1 dell’art. 1 del d.l. n. 65 del 2015 – «in collegamento» con l’art. 1, comma 483, lettere d) ed e), della legge n. 147 del 2013, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost., dal Tribunale ordinario di Genova, con l’ordinanza iscritta al n. 243 del registro ordinanze 2016;

6) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dei commi 25 e 25-bis dell’art. 24 del d.l. n. 201 del 2011 – come sostituito (il comma 25) e inserito (il comma 25-bis), rispettivamente, dai numeri 1) e 2) del comma 1 dell’art. 1 del d.l. n. 65 del 2015 – «in collegamento» con l’art. 1, comma 483, lettere d) ed e), della legge n. 147 del 2013, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost., dal Tribunale ordinario di Genova, con le ordinanze iscritte al n. 242 e al n. 244 del registro ordinanze 2016.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 25 ottobre 2017.