Sentenza della Corte costituzionale 24 giugno 2015, n. 178

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G.U. 29 luglio 2015, n. 30

La sentenza riguarda il blocco della contrattazione e degli automatismi stipendiali per i pubblici dipendenti, disposta dal Parlamento nel 2010 per un triennio e ulteriormente prolungato nel 2013, del quale il Tribunale di Roma e il Tribunale di Ravenna, entrambi in funzione di giudice del lavoro, avevano sollevato vari profili di illegittimità costituzionale. La Corte costituzionale ha ritenuto inammissibili o infondate le questioni relative alla sospensione degli automatismi stipendiali. Ha invece dichiarato fondata la questione relativa al blocco della contrattazione, il quale – protraendosi fino a configurarsi come ‘strutturale’ – era ormai divenuto lesivo delle libertà sindacali tutelate dall’art. 39 Cost., dalla CEDU, dalla Carta sociale europea, dalla Carta dei diritti fondamentali dell’UE e dalle rilevanti Convenzioni dell’Organizzazione internazionale del lavoro.

Sentenza

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 9, commi 1, 2-bis, 17, primo periodo, e 21, ultimo periodo, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 30 luglio 2010, n. 122 e dell’art. 16, comma 1, lettere b) e c) del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 15 luglio 2011, n. 111, promossi dal Tribunale ordinario di Roma con ordinanza del 27 novembre 2013 e dal Tribunale ordinario di Ravenna con ordinanza del 1° marzo 2014, rispettivamente iscritte ai nn. 76 e 125 del registro ordinanze 2014 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 22 e 35, prima serie speciale, dell’anno 2014.

Visti gli atti di costituzione di FLP – Federazione lavoratori pubblici e funzioni pubbliche ed altra, di Nardini Graziella ed altri, nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri e della Federazione GILDA-UNAMS, della CONFEDIR – Confederazione autonoma dei dirigenti, quadri e direttivi della pubblica amministrazione e della CSE – Confederazione indipendente sindacati europei;

udito nell’udienza pubblica del 23 giugno 2015 il Giudice relatore Silvana Sciarra;

uditi gli avvocati Tommaso De Grandis per la Federazione GILDA-UNAMS, Sergio Galleano per la CONFEDIR – Confederazione autonoma dei dirigenti, quadri e direttivi della pubblica amministrazione, Michele Lioi per la CSE – Confederazione indipendente sindacati europei, Michele Lioi, Stefano Viti e Michele Mirenghi per la FLP – Federazione lavoratori pubblici e funzioni pubbliche ed altra, Pasquale Lattari per Nardini Graziella ed altri e l’avvocato dello Stato Vincenzo Rago per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1.– Il Tribunale ordinario di Roma, in funzione di giudice del lavoro, con ordinanza depositata il 27 novembre 2013 e iscritta al n. 76 del registro ordinanze 2014, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, commi 1 e 17, primo periodo, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 30 luglio 2010, n. 122, e dell’art. 16, comma 1, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 15 luglio 2011, n. 111, prospettando la violazione degli artt. 2, 3, primo comma, 35, primo comma, 36, primo comma, 39, primo comma, e 53 della Costituzione.

1.1.– Il giudice rimettente espone di dover esaminare i ricorsi presentati il 26 ottobre 2012 dalla Federazione lavoratori pubblici e funzioni pubbliche (FLP) e dalla Federazione italiana autonoma lavoratori pubblici (FIALP), in qualità di firmatarie dei contratti collettivi stipulati con l’Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (ARAN) per il personale della Presidenza del Consiglio dei ministri e del comparto ministeri e per il personale degli enti pubblici non economici.

I sindacati ricorrenti nel giudizio principale hanno chiesto di accertare il diritto a dar corso alle procedure contrattuali e negoziali, relative al triennio 2010-2012, per il personale di cui all’art. 2, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche) e di condannare l’ARAN ad avviare le trattative per il rinnovo dei contratti, deducendo, a sostegno di tali domande, l’illegittimità costituzionale della normativa che “congela” i trattamenti economici percepiti dai dipendenti e “blocca” la contrattazione collettiva «con possibilità di proroga anche per l’anno 2014».

Nel giudizio principale, si è costituito il Presidente del Consiglio dei ministri, per contestare la fondatezza del ricorso, l’ammissibilità della questione di legittimità costituzionale, per carenza del requisito dell’incidentalità, nonché per contestare la sussistenza dei dedotti profili di contrasto con i parametri costituzionali evocati.

Il giudice rimettente ha disatteso le eccezioni pregiudiziali, mosse dal Presidente del Consiglio dei ministri, e ha ritenuto che risulti soddisfatto il requisito dell’incidentalità.

L’esame della questione di legittimità costituzionale, invero, rappresenterebbe l’antecedente ineludibile per giungere all’accertamento del diritto (art. 39, primo comma, Cost.), invocato dalla parte ricorrente. Tali considerazioni confermerebbero la rilevanza della questione, poiché il diritto della parte ricorrente ad avviare la contrattazione con riferimento al periodo 2010-2012 discenderebbe dal vaglio di costituzionalità della norma in esame.

Con riguardo alla non manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale, il giudice rimettente argomenta che la sospensione della contrattazione collettiva determina una interruzione delle procedure negoziali che si propongono di garantire la proporzionalità tra il lavoro prestato e la retribuzione dovuta.

La sospensione della contrattazione sui trattamenti retributivi fino al 31 dicembre 2014 si accompagna all’impossibilità di qualsivoglia recupero, se solo si considera che, indipendentemente dalle ragioni poste a base della decretazione d’urgenza, si riscontra un prolungamento dei limiti posti all’autonomia collettiva.

Tali limiti confliggerebbero con il dettato degli artt. 35, primo comma, 36, primo comma, e 39, primo comma, Cost.

Le disposizioni censurate, inoltre, si porrebbero in contrasto con l’art. 3, primo comma, Cost., anche in relazione all’art. 2 Cost. Le misure di risanamento sarebbero, infatti, destinate a ripercuotersi sulle retribuzioni dei soli pubblici dipendenti, così violando il principio di eguaglianza tra i cittadini e il dovere di solidarietà politica, sociale ed economica di cui agli artt. 3, primo comma, e 2 Cost.

Tale dovere di solidarietà, difatti, non potrebbe non gravare sull’intera comunità.

Il giudice a quo osserva che la sospensione delle procedure contrattuali riguardanti gli incrementi retributivi, protraendosi fino al 31 dicembre 2014, con esclusione di ogni possibilità di recupero e di ogni adeguamento dell’indennità di vacanza contrattuale, interrompe la dinamica retributiva, senza presentare quei caratteri di eccezionalità e di temporaneità che la Corte costituzionale ha ritenuto imprescindibili nel vagliare analoghe misure di contenimento della spesa pubblica.

1.2.– Sono intervenute nel giudizio le organizzazioni sindacali FLP e FIALP, chiedendo l’accoglimento della questione di legittimità costituzionale e lamentando, in particolare, l’irragionevole sacrificio dell’autonomia collettiva, costituzionalmente garantita ed espressione del principio democratico e partecipativo che permea la Carta costituzionale.

I sindacati intervenuti si dolgono del fatto che il legislatore abbia inibito del tutto alle organizzazioni sindacali la libertà di modulare la contrattazione nella materia retributiva, alla luce della situazione economica generale, così da impedire la ricerca di soluzioni volte a non far gravare i sacrifici sui lavoratori più deboli.

A questa stregua, finanche i contratti collettivi dal contenuto prettamente normativo, che non incidono sulla spesa pubblica, sarebbero stati arbitrariamente preclusi.

La disciplina, destinata a penalizzare in misura esorbitante il lavoro pubblico, sarebbe discriminatoria rispetto a quella applicabile al settore privato, non coinvolto da alcuna misura di contenimento delle retribuzioni, e lo sarebbe anche rispetto a quella che concerne il personale delle Forze armate, delle Forze di polizia e del Corpo nazionale dei vigili del fuoco, che beneficerebbe di assegni una tantum nel corso del triennio di blocco degli adeguamenti retributivi.

1.3.– Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha chiesto di dichiarare l’infondatezza della questione.

Il blocco delle retribuzioni sarebbe legittimo, in quanto circoscritto ad un periodo contenuto, in concomitanza con una situazione eccezionale di emergenza economica e finanziaria, e risponderebbe all’obiettivo di rispettare l’equilibrio di bilancio (art. 81 Cost.) adottando politiche proiettate in un periodo che necessariamente travalica l’anno.

La difesa dello Stato rileva che il giudice rimettente censura la violazione dell’art. 53 Cost. soltanto nella parte dispositiva. Tale censura, oltretutto, sarebbe carente di fondamento, in quanto difetterebbero gli elementi caratteristici del prelievo tributario.

Quanto al merito della questione e all’adombrata violazione dell’art. 39, primo comma, Cost., l’Avvocatura generale dello Stato ribatte che non ha alcuna ragion d’essere una contrattazione collettiva che non possa approdare ad un risultato utile per le parti rappresentate.

La difesa dello Stato esclude che vi siano illegittime disparità di trattamento tra lavoratori privati e lavoratori alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, in considerazione delle difformità delle fattispecie comparate.

1.4.– Nel giudizio è intervenuta la Federazione GILDA-UNAMS, che asserisce di essere legittimata ad intervenire, in quanto portatrice di una posizione giuridica suscettibile di essere pregiudicata dall’esito del giudizio di legittimità costituzionale.

L’art. 64, comma 5, del d.lgs. n. 165 del 2001 offrirebbe un argomento a favore dell’ammissibilità dell’intervento, in quanto accorderebbe alle organizzazioni sindacali firmatarie dei contratti collettivi la facoltà di intervenire nel giudizio anche oltre il termine previsto dall’art. 419 del codice di procedura civile.

La Federazione, qualificandosi come firmataria dell’ultimo contratto di lavoro del 27 novembre 2007 e come organizzazione sindacale maggiormente rappresentativa del personale del comparto scuola, ha chiesto, in prima battuta, la rimessione della questione alla Corte di giustizia dell’Unione europea, ai sensi dell’art. 267, comma 3, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), in quanto la disciplina impugnata violerebbe la direttiva 11 marzo 2002, n. 2002/14/CE (Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio, che istituisce un quadro generale relativo all’informazione e alla consultazione dei lavoratori).

La normativa, inoltre, contravverrebbe alla Carta sociale europea (art. 6, sul diritto di negoziazione collettiva), riveduta, con annesso, fatta a Strasburgo il 3 maggio 1996, ratificata e resa esecutiva con legge 9 febbraio 1999, n. 30, e agli artt. 27 e 28 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, che tutelano, rispettivamente, il diritto dei lavoratori all’informazione e alla consultazione nell’ambito dell’impresa e il diritto di negoziazione e di azioni collettive.

La Federazione ha chiesto l’accoglimento della questione di legittimità costituzionale, rilevando che è affidata all’autonomia collettiva, sacrificata dalle disposizioni impugnate, la garanzia del rispetto del principio di proporzionalità tra il lavoro svolto e la retribuzione e che, alla luce della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (sentenza 7 giugno 2011, Agrati e altri contro Italia), il credito del lavoratore si configura come proprietà, tutelata anche ai sensi dell’art. 1 Primo Protocollo addizionale alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848.

La norma impugnata istituirebbe, in spregio all’art. 53 Cost., un prelievo tributario e pregiudicherebbe il diritto dei lavoratori a percepire una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro svolto, violando, inoltre, i principi di affidamento, di buona fede e di eguaglianza sostanziale.

1.5.– Nel giudizio è intervenuta la Confederazione indipendente sindacati europei (CSE), insistendo per l’accoglimento della questione di legittimità costituzionale.

La CSE asserisce di vantare un interesse qualificato, inerente al rapporto sostanziale e idoneo a giustificare l’ammissibilità dell’intervento, poiché avrebbe sottoscritto, unitamente alla FLP, ricorrente nel giudizio principale, il contratto collettivo nazionale di lavoro relativo al personale della Presidenza del Consiglio dei ministri per il biennio economico 2006-2007 e il contratto collettivo, riguardante il medesimo comparto, per il biennio economico 2008-2009.

Da tale status discenderebbe l’interesse qualificato a intervenire nel giudizio di costituzionalità, poiché le disposizioni impugnate lederebbero l’esercizio delle prerogative negoziali della Confederazione.

La Confederazione in parola, quanto al merito delle questioni, ha rilevato che le norme censurate arrestano per un quadriennio la dinamica salariale e comprimono, per lo stesso considerevole arco di tempo, l’autonomia collettiva, tutelata dall’art. 39, primo comma, Cost. e dalle fonti sovranazionali.

Fra tali fonti sovranazionali, la Confederazione menziona l’art. 6 della Carta sociale europea, l’art. 28 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, l’art. 152 del TFUE, gli artt. 11, 12, 13 e 14 della Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori, adottata a Strasburgo il 9 dicembre 1989, la Convenzione n. 151 dell’Organizzazione internazionale del lavoro (OIL), relativa alla protezione del diritto di organizzazione e alle procedure per la determinazione delle condizioni di impiego nella funzione pubblica, adottata a Ginevra il 27 giugno 1978 nel corso della 64ª sessione della Conferenza generale, ratificata e resa esecutiva con legge 19 novembre 1984, n. 862.

La parte intervenuta osserva che, secondo la giurisprudenza costituzionale, la mancata attuazione dell’art. 39, secondo comma, Cost. non dovrebbe giustificare alcun impedimento alla libertà d’azione dei sindacati e al potere di stipulare contratti, seppure vincolanti soltanto per gli iscritti.

La Confederazione soggiunge che le uniche limitazioni ammesse dovrebbero essere eccezionali, transitorie, non arbitrarie, consentanee con lo scopo prefisso.

Nel caso di specie, per contro, l’intervento legislativo, discriminatorio rispetto ai lavoratori pubblici e immemore del canone di ragionevolezza, avrebbe «annichilito» la libertà sindacale.

1.6.– Nel giudizio è intervenuta anche la Confederazione autonoma dei dirigenti, quadri e direttivi della pubblica amministrazione (CONFEDIR), rivendicando, a sostegno dell’ammissibilità dell’intervento, un ruolo primario di rappresentanza delle aree dirigenziali, leso dalle norme censurate e idoneo a giustificare la partecipazione al giudizio di costituzionalità di una organizzazione, firmataria degli accordi del 1993, del 1998, del 2009 e chiamata, in particolare, a partecipare a tutti i tavoli di contrattazione relativi alle aree dirigenziali II, III, IV.

La CONFEDIR sollecita la rimessione della questione, anche d’ufficio, alla Corte di giustizia dell’Unione europea, individuando una violazione della direttiva n. 2002/14/CE sull’informazione e sulla consultazione dei lavoratori.

Essa denuncia, inoltre, la violazione degli artt. 5 e 6 della Carta sociale europea, che tutelano, rispettivamente, i diritti sindacali e il diritto di negoziazione collettiva, la violazione degli artt. 27 e 28 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che attengono al diritto dei lavoratori all’informazione e alla consultazione nell’àmbito dell’impresa e al diritto di negoziazione e di azioni collettive, il contrasto inconciliabile delle norme impugnate con la Convenzione OIL n. 87, firmata a San Francisco il 17 giugno 1948, concernente la libertà sindacale e la protezione del diritto sindacale, e con la Convenzione OIL n. 98, firmata a Ginevra l’8 giugno 1949, concernente l’applicazione dei Principi del diritto di organizzazione e di negoziazione collettiva, entrambe ratificate e rese esecutive con legge 23 marzo 1958, n. 367.

1.7.– In prossimità dell’udienza, la difesa dello Stato ha depositato una memoria illustrativa, che ribadisce le argomentazioni già svolte.

La difesa dello Stato ha imputato ai giudici rimettenti di non avere esplorato la possibilità di un’interpretazione costituzionalmente orientata, di non avere offerto argomentazioni convincenti in merito alla rilevanza, trascurando, inoltre, lo stato di emergenza, in cui le misure si collocano.

Così inquadrata, la normativa impugnata andrebbe esente dalle censure di violazione degli artt. 2 e 3, primo comma, Cost.

Essa non avrebbe natura tributaria, perseguirebbe l’obiettivo di razionalizzare e contenere la spesa pubblica, in un’ottica di programmazione di bilancio necessariamente pluriennale, e si limiterebbe a imporre un contributo equamente distribuito tra tutte le componenti dell’apparato pubblico, senza arrecare alcun vulnus al principio di proporzionalità della retribuzione al lavoro svolto.

Neppure le doglianze sulla violazione dell’art. 39, primo comma, Cost. coglierebbero nel segno, giacché la contrattazione collettiva avrebbe avuto occasione di svolgersi sia a livello nazionale, sia decentrato.

1.8.– In vista dell’udienza, hanno depositato una memoria illustrativa anche la FIALP e la FLP, replicando che le disposizioni impugnate hanno irragionevolmente limitato e perfino «annichilito», per un arco temporale di ben cinque anni, quella libertà sindacale, che proprio nella libertà di contrattazione ha la sua espressione caratteristica.

La contrattazione collettiva nel settore del lavoro pubblico, che può essere limitata in ragione di esigenze finanziarie di carattere generale e delle risorse concretamente disponibili (art. 47 del d.lgs. n. 165 del 2001), non dovrebbe essere sospesa per un periodo così lungo.

Pur in assenza di risorse finanziarie, le parti collettive potrebbero operare interventi redistributivi e perequativi, per erogare tutela nei confronti delle fasce di lavoratori a più basso reddito.

Per contro, in conseguenza delle misure impugnate, il peso del risanamento dei conti pubblici graverebbe in misura sproporzionata sulla sola categoria dei dipendenti pubblici.

2.– Con ordinanza depositata il 1° marzo 2014 e iscritta al n. 125 del registro ordinanze 2014, il Tribunale ordinario di Ravenna, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, commi 1, 2-bis, 17, primo periodo, e 21, ultimo periodo, del d.l. n. 78 del 2010 e dell’art. 16, comma 1, lettere b) e c), del d.l. n. 98 del 2011, in riferimento agli artt. 2, 3, primo comma, 35, primo comma, 36, primo comma, 39, primo comma, e 53 Cost.

2.1.– Il giudice rimettente espone di conoscere della controversia promossa da dipendenti del Ministero della giustizia, in servizio presso il Tribunale ordinario di Ravenna.

I ricorrenti hanno chiesto, previo accertamento dell’illegittimità del blocco stipendiale e contrattuale, di vedere riconosciuto il diritto all’aumento e/o all’adeguamento del trattamento retributivo, fermo al 2010, e comunque il diritto all’indennizzo e/o all’indennità per il danno patito per effetto della violazione del diritto a una retribuzione giusta e proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro prestato o perlomeno adeguata all’inflazione e/o al costo della vita.

Il lavoro – allegano i ricorrenti – si sarebbe aggravato in conseguenza della diminuzione del numero dei dipendenti dell’Ufficio per il “blocco” legislativo del turn over.

La controversia è stata incardinata dinanzi al Tribunale di Ravenna anche dalla CONFSAL-UNSA, Confederazione generale dei sindacati autonomi dei lavoratori – Unione nazionale sindacati autonomi. In qualità di sindacato maggiormente rappresentativo del comparto Ministeri e di sindacato primo per rappresentatività del Ministero della giustizia, ha chiesto, in primo luogo, l’accertamento del diritto a partecipare alle procedure contrattuali collettive e, in secondo luogo, è intervenuta in senso adesivo alle ragioni dei propri iscritti.

Il Ministero della giustizia si è costituito nel giudizio principale, deducendo l’infondatezza delle domande e delle questioni di legittimità costituzionale e sollevando eccezioni pregiudiziali d’incompetenza per territorio, di carenza di legittimazione attiva e passiva delle parti.

Il giudice rimettente ha scelto di decidere, unitamente al merito della causa, le eccezioni relative all’incompetenza per territorio, con riguardo alla posizione di D’A.C. e P.A., le eccezioni di difetto di legittimazione attiva dei ricorrenti e di legittimazione passiva del Ministero della giustizia.

Quanto alle domande proposte dal sindacato, volte ad ottenere la riapertura della contrattazione collettiva, il giudice rimettente si è spogliato della controversia a favore del Tribunale ordinario di Roma, in funzione di giudice del lavoro. La competenza per territorio si radicherebbe innanzi a tale giudice, in quanto a Roma ha sede il Ministero convenuto in causa.

Tale declaratoria d’incompetenza – ad avviso del giudice rimettente – non elide la rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale del blocco della contrattazione.

Il sindacato, difatti, avrebbe comunque titolo a sostenere le domande degli iscritti, che presuppongono l’accertamento dell’illegittimità costituzionale di tale blocco.

In punto di rilevanza, il giudice rimettente evidenzia che la normativa censurata preclude l’accoglimento delle domande dei ricorrenti.

Per quel che attiene alla non manifesta infondatezza, le disposizioni impugnate contrasterebbero con il principio di eguaglianza (art. 3, primo comma, Cost.), poiché si rivolgerebbero ai soli pubblici dipendenti “contrattualizzati”, senza coinvolgere altre categorie del lavoro pubblico (appartenenti al comparto scuola, forze armate, prefetti, ambasciatori, magistrati).

Tali misure confliggerebbero con l’art. 3, primo comma, Cost., anche sotto il profilo dell’irragionevolezza intrinseca, giacché sarebbero irrispettose dei caratteri di transitorietà e di eccezionalità, che la giurisprudenza costituzionale ha indicato come parametri di legittimità di provvedimenti affini.

Il giudice rimettente scorge un altro profilo d’illegittimità costituzionale nel contrasto con la gradualità dei sacrifici imposti (art. 53 Cost.) e la solidarietà (art. 2 Cost.).

La disciplina censurata, secondo questa prospettazione, penalizzerebbe i dipendenti pubblici che percepiscono gli stipendi più bassi, preservando la posizione di quelli con redditi più elevati.

Il giudice rimettente segnala, inoltre, la violazione dell’art. 36, primo comma, Cost., rilevando che il blocco contrattuale e stipendiale, protraendosi dal 2010, pregiudicherebbe il diritto a una retribuzione adeguata e proporzionata al lavoro svolto. Il pregiudizio si aggraverebbe per effetto del blocco del turn over.

Il blocco contrattuale sarebbe lesivo dei principi consacrati dagli artt. 35, primo comma, e 39, primo comma, Cost., visto che andrebbe a detrimento dell’autonomia negoziale e della libertà sindacale riservata alle parti nell’ambito della contrattazione collettiva.

Gli interventi normativi, che limitano al 2013/2014 la riapertura delle procedure contrattuali soltanto per la parte normativa, non varrebbero a mutare il quadro appena delineato.

2.2.– Nel giudizio sono intervenuti i lavoratori, ricorrenti nel giudizio a quo, e la Confederazione CONFSAL-UNSA, chiedendo l’accoglimento della questione di legittimità costituzionale, sollevata dal Tribunale ordinario di Ravenna, sotto tutti i profili evocati (violazione della libertà sindacale e dell’autonomia collettiva, tutelate dall’art. 39, primo comma, Cost., violazione degli artt. 35, primo comma, e 36, primo comma, Cost., violazione del principio di eguaglianza e di ragionevolezza).

2.3.– È intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, con una memoria corredata anche da una nota del Dipartimento della funzione pubblica, chiedendo di respingere le questioni di legittimità costituzionale proposte dal Tribunale ordinario di Ravenna, in quanto irrilevanti, inammissibili e manifestamente infondate.

L’Avvocatura generale dello Stato adombra, in via pregiudiziale, la carenza d’interesse dell’organizzazione sindacale, che non ha impugnato gli atti lesivi applicativi.

Per quel che concerne il merito delle questioni, la difesa dello Stato ribadisce che le disposizioni censurate mirano a ridurre la spesa pubblica, in adempimento degli obblighi che derivano dall’appartenenza all’Unione europea e dell’obbligo, costituzionalmente sancito, di raggiungere l’equilibrio strutturale delle entrate e delle spese del bilancio.

Sarebbe legittima, alla luce delle enunciazioni di principio della giurisprudenza costituzionale, l’introduzione di misure eccezionali, transitorie, non arbitrarie e consentanee allo scopo prefisso, volte a fissare limiti di compatibilità della contrattazione collettiva con le finanze pubbliche.

Tali misure non sarebbero irragionevoli, in quanto salvaguarderebbero l’erogazione dell’indennità di vacanza contrattuale e non assoggetterebbero al vincolo né le componenti retributive legate ad eventi straordinari della dinamica retributiva individuale, né la parte accessoria variabile.

Tali peculiarità garantirebbero il rispetto del principio di parità di trattamento, del vincolo sinallagmatico, tutelato dall’art. 36, primo comma, Cost., del diritto di azione sindacale e dell’autonomia negoziale, che non sarebbe stata affatto esclusa in radice, come dimostrerebbe l’esplicarsi della contrattazione integrativa e della contrattazione nazionale.

La difesa dello Stato revoca in dubbio il carattere pregiudizievole della mancata applicazione dell’indicatore d’inflazione IPCA (indice dei prezzi al consumo armonizzato europeo) e della conseguente applicazione, per la rivalutazione dello stipendio, del tasso d’inflazione programmata.

I dipendenti pubblici, inoltre, avrebbero percepito quote aggiuntive di salario in misura percentualmente maggiore rispetto al settore privato, erogate dalla contrattazione integrativa. Le retribuzioni di fatto del pubblico impiego beneficerebbero di una dinamica superiore al TIP (tasso di inflazione programmata) e resisterebbero all’inflazione reale registrata a consuntivo.

Non sarebbero, dunque, fondati i rilievi sulla disparità di trattamento tra il settore pubblico e il settore privato, anche perché pretermettono la specialità del rapporto di lavoro pubblico e le esigenze di perseguimento di interessi generali, coessenziali a tale ambito.

A fronte di una misura sfornita di ogni carattere tributario, non parrebbero aver pregio neppure le censure di violazione degli artt. 2 e 53 Cost.

La normativa, pertanto, ripromettendosi di neutralizzare gli effetti della crisi economica, in un’ottica di razionalizzazione e di riduzione della spesa pubblica, non presterebbe il fianco alle censure proposte.

2.4.– Nella memoria, depositata in prossimità dell’udienza, il Presidente del Consiglio dei ministri ha passato in rassegna le argomentazioni già spese nel giudizio r.o. n. 76 del 2014 (si veda supra punto 1.7. del Ritenuto in fatto).

2.5.– In vista dell’udienza, hanno depositato una memoria illustrativa anche i dipendenti del Ministero della giustizia e la CONFSAL-UNSA, confutando le tesi propugnate dalla difesa dello Stato e puntualizzando che, con la legge di stabilità per il 2015, il blocco della contrattazione economica è stato esteso fino al 31 dicembre 2015.

Le parti intervenute lamentano che la normativa abbia bilanciato in maniera irragionevole e sproporzionata i diritti sociali fondamentali (artt. 35, primo comma, 36, primo comma, e 39, primo comma, Cost.) e gli obiettivi di pareggio di bilancio e di risanamento economico (art. 81 Cost.).

La reiterazione delle misure, così come congegnata in questi anni, implicherebbe una deroga costante al meccanismo di adeguamento retributivo, pregiudizievole per i dipendenti che percepiscono una retribuzione modesta e sono costretti, in conseguenza del blocco del turn over, a un carico di lavoro superiore.

Quanto ai contratti integrativi, enumerati dalla difesa dello Stato, riguarderebbero aspetti estranei al trattamento retributivo, sottoposto, con il decorrere del tempo, a una rilevante erosione del potere d’acquisto, dovuta anche al temporaneo abbandono del meccanismo di adeguamento secondo l’indice IPCA, che registra dati costantemente superiori al tasso d’inflazione programmata.

3.– All’udienza pubblica, le parti costituite nel giudizio e il Presidente del Consiglio dei ministri hanno insistito per l’accoglimento delle conclusioni formulate nelle difese scritte.

Considerato in diritto

1.– Il Tribunale ordinario di Roma, in funzione di giudice del lavoro, dubita della legittimità costituzionale dell’art. 9, commi 1 e 17, primo periodo, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 30 luglio 2010, n. 122, e dell’art. 16, comma 1, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 15 luglio 2011, n. 111, in riferimento agli artt. 2, 3, primo comma, 35, primo comma, 36, primo comma, 39, primo comma, e 53 Cost.

La normativa impugnata, che determina per i lavoratori di cui all’art. 2, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche) una prolungata sospensione delle procedure negoziali e dell’ordinaria dinamica retributiva, si porrebbe in contrasto con i principi di eguaglianza, di tutela del lavoro, di proporzionalità della retribuzione al lavoro svolto, di libertà di contrattazione collettiva.

Le limitazioni, imposte dal legislatore per il periodo 2010-2014, introdurrebbero una disciplina irragionevole e sproporzionata, discriminando, per un periodo tutt’altro che transitorio ed eccezionale, i lavoratori pubblici rispetto ai lavoratori del settore privato.

2.– Il Tribunale ordinario di Ravenna, in funzione di giudice del lavoro, sospetta di illegittimità costituzionale l’art. 9, commi 1, 2-bis, 17, primo periodo, e 21, ultimo periodo, del d.l. n. 78 del 2010, e l’art. 16, comma 1, lettere b) e c), del d.l. n. 98 del 2011, in riferimento agli artt. 2, 3, primo comma, 35, primo comma, 36, primo comma, 39, primo comma, e 53 Cost.

Il giudice rimettente assume che il “congelamento” delle retribuzioni dei pubblici dipendenti rientranti nel regime della contrattazione collettiva, prolungatosi per il periodo 2010-2014, senza alcuna possibilità di recupero, riveli molteplici profili di contrasto con la Carta costituzionale.

Tale disciplina, destinata ad applicarsi per un periodo apprezzabile, comprometterebbe irreparabilmente lo svolgersi della contrattazione collettiva e il diritto dei lavoratori pubblici, sottoposti ad un carico di lavoro sempre più gravoso, a percepire una retribuzione proporzionata al lavoro svolto.

Le norme impugnate, che trascendono i limiti della transitorietà e dell’eccezionalità tracciati dalla giurisprudenza costituzionale per gli interventi di contenimento della spesa, introdurrebbero un prelievo tributario a carico dei pubblici dipendenti, in spregio all’universale dovere di solidarietà economica (art. 2 Cost.) e al principio di gradualità dei sacrifici imposti (art. 53 Cost.).

La disciplina in esame discriminerebbe i lavoratori pubblici rispetto ai lavoratori privati e introdurrebbe disparità di trattamento arbitrarie anche tra le varie categorie di dipendenti pubblici.

3.– Alle censure dei giudici rimettenti la difesa dello Stato ha contrapposto l’eccezionalità dell’intervento normativo, che, in armonia con le esigenze costituzionalmente imposte di salvaguardia della stabilità di bilancio, si articola comunque in un periodo di tempo circoscritto e impone un sacrificio ragionevole all’autonomia collettiva e ai diritti tutelati dall’art. 36, primo comma, Cost., senza introdurre alcun prelievo tributario e senza ingenerare discriminazioni di sorta con altre categorie di lavoratori.

4.– I due giudizi, in ragione dell’omogeneità delle questioni e dell’intima connessione delle censure, devono essere riuniti e decisi con un’unica sentenza.

5.– In via preliminare, dev’essere confermata l’ordinanza letta nel corso dell’udienza pubblica e qui allegata, che ha dichiarato ammissibile l’intervento della Confederazione indipendente sindacati europei (CSE) e inammissibili gli interventi spiegati dalla Federazione GILDA-UNAMS e dalla Confederazione autonoma dei dirigenti, quadri e direttivi della pubblica amministrazione (CONFEDIR), nel giudizio iscritto al n. 76 del registro ordinanze 2014.

6.– La normativa impugnata, nei termini esposti dai giudici rimettenti, concerne le previsioni del d.l. n. 78 del 2010 e del d.l. n. 98 del 2011, nella parte in cui sacrificano la libertà di accedere alla contrattazione collettiva e circondano di limiti rigorosi l’incremento delle retribuzioni nel lavoro pubblico.

Il d.l. n. 78 del 2010 stabilisce che non si dia luogo, senza possibilità di recupero, «alle procedure contrattuali e negoziali relative al triennio 2010-2012 del personale di cui all’articolo 2, comma 2 […] del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni» e salvaguarda l’erogazione dell’indennità di vacanza contrattuale «nelle misure previste a decorrere dall’anno 2010 in applicazione dell’articolo 2, comma 35, della legge 22 dicembre 2008, n. 203» (art. 9, comma 17).

Alla sospensione delle «procedure contrattuali e negoziali» si associa la previsione del “congelamento” dei trattamenti retributivi, che, per gli anni 2011, 2012, 2013, non possono superare, neppure nelle componenti accessorie, «il trattamento ordinariamente spettante per l’anno 2010» (art. 9, comma 1).

Anche il trattamento accessorio del personale, ivi compreso quello di livello dirigenziale, e il trattamento retributivo delle progressioni di carriera soggiacciono a limitazioni drastiche, che sono fatte segno delle specifiche censure del Tribunale ordinario di Ravenna.

Quanto al trattamento accessorio del personale, l’art. 9, comma 2-bis, del d.l. n. 78 del 2010 sancisce che «non può superare il corrispondente importo dell’anno 2010 ed è, comunque, automaticamente ridotto in misura proporzionale alla riduzione del personale in servizio».

L’art. 9, comma 21, del d.l. n. 78 del 2010 attribuisce alle progressioni di carriera, per gli anni 2011, 2012, 2013, una valenza esclusivamente giuridica.

A prolungare gli effetti di tali misure di contenimento della spesa, interviene il d.l. n. 98 del 2011, che persegue l’obiettivo di assicurare il consolidamento delle misure di razionalizzazione e contenimento della spesa in materia di pubblico impiego adottate nell’ambito della manovra di finanza pubblica per gli anni 2011-2013, indicando ulteriori risparmi in termini di indebitamento netto che si spingono fino al 2016 (art. 16, comma 1).

In tale ottica, il legislatore ha demandato a uno o più regolamenti, da emanare ai sensi dell’art. 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400 (Disciplina dell’attività di Governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri), previa proposta dei Ministri per la pubblica amministrazione e l’innovazione e dell’economia e delle finanze, la previsione della «proroga fino al 31 dicembre 2014 delle vigenti disposizioni che limitano la crescita dei trattamenti economici anche accessori del personale delle pubbliche amministrazioni previste dalle disposizioni medesime» (art. 16, comma 1, lettera b), e «la fissazione delle modalità di calcolo relative all’erogazione dell’indennità di vacanza contrattuale per gli anni 2015-2017» (art. 16, comma 1, lettera c).

Il d.P.R. 4 settembre 2013, n. 122 (Regolamento in materia di proroga del blocco della contrattazione e degli automatismi stipendiali per i pubblici dipendenti, a norma dell’articolo 16, commi 1, 2 e 3, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111) si colloca nel solco di tali indicazioni normative.

L’art. 1, comma 1, lettera a), proroga sino al 31 dicembre 2014 le disposizioni di cui all’art. 9, commi 1, 2-bis e 21 del d.l. n. 78 del 2010, in tema di trattamenti economici individuali, di trattamenti accessori, di progressioni di carriera. L’art. 1, comma 1, lettera c), precisa che «si dà luogo, alle procedure contrattuali e negoziali ricadenti negli anni 2013-2014 del personale dipendente dalle amministrazioni pubbliche così come individuate ai sensi dell’articolo 1, comma 2, della legge 31 dicembre 2009, n. 196, e successive modificazioni, per la sola parte normativa e senza possibilità di recupero per la parte economica».

Quanto all’indennità di vacanza contrattuale, l’art. 1, comma 1, lettera d), esclude che, per il periodo 2013-2014, siano dovuti incrementi. Per la tornata 2015-2017, l’indennità è dovuta «secondo le modalità ed i parametri individuati dai protocolli e dalla normativa vigenti».

Le previsioni regolamentari sono state trasfuse in una fonte di rango legislativo (legge 27 dicembre 2013, n. 147, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2014»), con riguardo all’indennità di vacanza contrattuale per il periodo 2015-2017 (art. 1, comma 452), alla sospensione delle procedure negoziali inerenti alla parte economica per il periodo 2013-2014 (art. 1, comma 453), all’ammontare dei trattamenti accessori (art. 1, comma 456). Per effetto dell’art. 1, comma 254, della legge 23 dicembre 2014, n. 190 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge di stabilità 2015), la sospensione delle procedure negoziali è destinata a protrarsi, per la parte economica, fino al 31 dicembre 2015.

A tale sospensione non fa riscontro alcun incremento dell’indennità di vacanza contrattuale, ancorata, fino al 2018, ai valori del 31 dicembre 2013 (art. 1, comma 255, della legge n. 190 del 2014).

7.– Le questioni di legittimità costituzionale devono essere esaminate alla stregua del quadro normativo appena delineato, caratterizzato da disposizioni susseguitesi nel tempo, legate da un evidente nesso di continuità, al fine di perseguire un dichiarato obiettivo di contenimento della spesa.

7.1.– La difesa dello Stato formula alcune eccezioni preliminari.

Quanto al paventato difetto di incidentalità, si deve rilevare che entrambi i giudizi non si esauriscono nell’accertamento dell’illegittimità costituzionale della normativa censurata.

Nel giudizio pendente dinanzi al Tribunale ordinario di Roma, le organizzazioni sindacali, oltre all’accertamento del diritto di accedere alla contrattazione collettiva, hanno chiesto la condanna dell’ARAN ad avviare le trattative. Nel contenzioso ravennate il giudice è investito delle questioni concernenti le pretese retributive dei lavoratori ricorrenti, nonché delle domande di natura indennitaria e risarcitoria.

Da tali considerazioni si evince che il petitum del giudizio principale, in ambedue i casi, ha una maggiore latitudine rispetto all’oggetto della questione di legittimità costituzionale e involge un tema di indagine più complesso, che impone ai giudici rimettenti, dopo la soluzione del dubbio di costituzionalità, di orientare su aspetti diversi il dibattito processuale. Nei giudizi a quibus, pertanto, non è dato discernere quella perfetta sovrapponibilità del petitum del giudizio principale rispetto all’oggetto del giudizio di legittimità costituzionale (sentenza n. 84 del 2006), che snatura il carattere incidentale del giudizio.

7.2.– La difesa dello Stato, nel giudizio iscritto al n. 125 del registro ordinanze 2014, adombra una carenza d’interesse delle organizzazioni sindacali ricorrenti, desumendola dalla mancata impugnazione degli atti lesivi, chiamati a dare applicazione alle norme censurate.

Tale rilievo non può essere condiviso.

È palese l’interesse delle organizzazioni ricorrenti a reclamare l’effettiva tutela di prerogative costituzionali, ad esse riconoscibili, che si ritiene siano messe a repentaglio dalle norme impugnate.

7.3.– Nelle memorie integrative, depositate il 29 maggio 2015, la difesa dello Stato lamenta che i giudici rimettenti abbiano omesso di esplorare la praticabilità di un’interpretazione conforme al dettato costituzionale e di offrire una motivazione esaustiva sulla rilevanza della questione.

Le ordinanze di rimessione superano, anche da tale angolo visuale, il vaglio di ammissibilità, sollecitato a questa Corte. Le censure di illegittimità costituzionale si appuntano contro una normativa con un significato letterale e sistematico inequivocabile, che non offre alcun appiglio ad una interpretazione alternativa, rispettosa dei principi della Carta fondamentale.

8.– Le ordinanze di rimessione, nondimeno, non appaiono scevre da lacune, che ridondano sul piano dell’inammissibilità di alcune delle questioni proposte.

8.1.– Presentano, anzitutto, profili di inammissibilità le censure riguardanti l’indennità di vacanza contrattuale.

I giudici rimettenti, nell’impugnare l’art. 16, comma 1, lettera c), del d.l. n. 98 del 2011, non spiegano per quale ragione sia rilevante ratione temporis, alla luce delle domande proposte dalle parti sindacali e dai lavoratori, una normativa che riguarda specificamente le modalità di calcolo relative all’erogazione dell’indennità di vacanza contrattuale per gli anni 2015-2017.

Le ordinanze non chiariscono, inoltre, il profilo attinente alla non manifesta infondatezza, incentrato sulla violazione dell’art. 36, primo comma, Cost.

I giudici a quibus, nell’esaminare la disciplina che concerne la determinazione dell’indennità di vacanza contrattuale e l’esclusione degli incrementi di questa voce fino al 2017 (e poi, nella pendenza della lite, fino al 2018), non enunciano le ragioni del contrasto della normativa con il canone della proporzionalità della retribuzione (art. 36, primo comma, Cost.).

Secondo l’insegnamento costante di questa Corte, la conformità della retribuzione ai requisiti di proporzionalità e sufficienza indicati dall’art. 36, primo comma, Cost. deve essere valutata in relazione alla retribuzione nel suo complesso, non già alle singole componenti di essa (fra le tante, sentenze n. 366 del 2006 e n. 164 del 1994).

Le ordinanze non si soffermano su tale valutazione complessiva.

8.2.– Con riguardo alla dedotta violazione dell’art. 35, primo comma, Cost., le ordinanze di rimessione non offrono, a sostegno dei dubbi di costituzionalità, argomentazioni autonome, che valgano ad affrancare il richiamo al precetto costituzionale dalla sua funzione ancillare rispetto alle censure fondate sugli artt. 36, primo comma, e 39, primo comma, Cost.

8.3.– Sono inammissibili anche le questioni proposte dal Tribunale ordinario di Roma in riferimento all’art. 53 Cost.

Su tale profilo, l’ordinanza di rimessione è parca di riferimenti circostanziati e – come la difesa dello Stato non ha mancato di eccepire – si limita a menzionare nel dispositivo il parametro costituzionale, omettendo di fornire un’argomentazione esaustiva sulle ragioni del contrasto con le norme invocate.

9.– Così delimitato l’ambito del giudizio, occorre esaminare le censure che postulano l’illegittimità radicale dei provvedimenti legislativi restrittivi della dinamica contrattuale e salariale nel lavoro pubblico, senza annettere alcun rilievo al fattore della durata di tali misure.

9.1.– Il Tribunale ordinario di Ravenna ritiene di argomentare tale illegittimità sulla scorta del richiamo all’art. 53 Cost. e configura, per il caso di specie, un prelievo tributario a tutti gli effetti. Il giudice rimettente raccorda il principio di “gradualità dei sacrifici imposti”, di progressività dell’imposizione e di capacità contributiva (art. 53 Cost.) al più generale dovere di solidarietà, prescritto dall’art. 2 Cost. esclude che il provvedimento si sostanzi in un prelievo tributario.

Le censure, così articolate, muovono dall’erroneo presupposto interpretativo che il meccanismo di “blocco” si sostanzi, in ultima analisi, nell’imposizione di un tributo.

Le caratteristiche delle misure impugnate, che si traducono in un mero risparmio di spesa e non si atteggiano come decurtazione definitiva del patrimonio del soggetto passivo e come atto autoritativo di carattere ablatorio, diretto a reperire risorse per l’erario, divergono dagli elementi distintivi del prelievo tributario (fra le tante, sentenza n. 70 del 2015, punto 4. del Considerato in diritto).

Gli elementi indefettibili della prestazione tributaria, enucleati dalla costante giurisprudenza di questa Corte, si identificano, per un verso, nella presenza di una disciplina legale, finalizzata in via prevalente a provocare una decurtazione patrimoniale del soggetto passivo, svincolata da ogni modificazione del rapporto sinallagmatico. Per altro verso, a definire la natura tributaria concorre l’elemento teleologico.

In particolare, le risorse derivanti dal prelievo e connesse a un presupposto economicamente rilevante, idoneo a porsi come indice della capacità contributiva, devono essere destinate a «sovvenire le pubbliche spese» (sentenza n. 310 del 2013, punto 11. del Considerato in diritto). Caduta la premessa che si tratti di un tributo, anche le censure di violazione dell’art. 53 Cost. perdono consistenza.

9.2.– Altre censure sono accomunate dal riferimento all’art. 3, primo comma, Cost., evocato dal Tribunale ordinario di Roma anche in rapporto ai doveri di solidarietà di cui all’art. 2 Cost., e additano, in prima istanza, un’ingiustificata disparità di trattamento tra il lavoro pubblico e il lavoro privato.

Il Tribunale ordinario di Ravenna, dal canto suo, evidenzia altre sperequazioni con riferimento a diversi pubblici dipendenti, lungo il discrimine che corre, da un lato, tra il lavoro pubblico assoggettato a una disciplina contrattuale e, dall’altro, il lavoro pubblico escluso da tale disciplina. Disparità di trattamento sarebbero anche ravvisabili tra i diversi comparti del lavoro pubblico regolato dalla fonte contrattuale.

Neppure tali censure sono fondate.

La disciplina impugnata, che non lascia indenne il personale della carriera diplomatica (sentenza n. 304 del 2013) menzionato come termine di paragone dal giudice ravennate, persegue l’obiettivo di un risparmio di spesa, che «opera riguardo a tutto il comparto del pubblico impiego, in una dimensione solidaristica – sia pure con le differenziazioni rese necessarie dai diversi statuti professionali delle categorie che vi appartengono» (sentenza n. 310 del 2013, punto 13.5. del Considerato in diritto).

I giudici rimettenti non tengono conto della diversità degli statuti professionali delle categorie appartenenti al lavoro pubblico e comparano fattispecie dissimili, che non possono fungere da utile termine di raffronto.

Il lavoro pubblico e il lavoro privato non possono essere in tutto e per tutto assimilati (sentenze n. 120 del 2012 e n. 146 del 2008) e le differenze, pur attenuate, permangono anche in séguito all’estensione della contrattazione collettiva a una vasta area del lavoro prestato alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni.

La medesima eterogeneità dei termini posti a raffronto connota l’area del lavoro pubblico contrattualizzato e l’area del lavoro pubblico estraneo alla regolamentazione contrattuale. Tale eterogeneità preclude ogni plausibile valutazione comparativa sul versante dell’art. 3, primo comma, Cost. e risalta ancor più netta in ragione dell’irriducibile specificità di taluni settori (forze armate, personale della magistratura), non governati dalla logica del contratto e indicati dal giudice ravennate come tertia comparationis. Si valorizza in tal modo una funzione solidaristica delle misure adottate, strettamente collegata all’eccezionalità della situazione economica generale, in piena armonia con il dettato dell’art. 2 Cost.

Con riguardo al trattamento differenziato riservato al personale della scuola, il Tribunale ordinario di Ravenna non offre ragguagli di sorta in merito alle peculiarità di tale disciplina e all’irragionevolezza intrinseca delle differenze che intercorrono tra il genus del lavoro pubblico, disciplinato dal contratto, e la species del comparto della scuola che, pur nella comune matrice negoziale della disciplina del rapporto, serba intatta la sua particolarità.

10.– Sgombrato il campo dalle censure che presuppongono l’indiscriminata illegittimità della sospensione delle procedure negoziali, l’analisi non può che riguardare ciascun provvedimento legislativo, ricostruendone la ratio e le finalità, allo scopo di saggiarne la compatibilità con i parametri costituzionali richiamati.

10.1.– In tal modo si è mossa la giurisprudenza di questa Corte, sin dalle pronunce sulla legittimità costituzionale dell’art. 7, comma 3, del decreto-legge 19 settembre 1992, n. 384 (Misure urgenti in materia di previdenza, di sanità e di pubblico impiego, nonché disposizioni fiscali), convertito, con modificazioni, nella legge 14 novembre 1992, n. 438 (sentenza n. 245 del 1997, ordinanza n. 299 del 1999).

Nella disamina di una normativa che, per l’anno 1993, disconosceva ogni incremento retributivo, questa Corte ha mostrato di ponderare le finalità particolari, che ispiravano quei provvedimenti di contenimento della spesa. Le misure a quel tempo adottate non trasmodavano in una disciplina arbitraria, proprio perché circoscritte entro un anno (sentenza n. 245 del 1997, punto 3. del Considerato in diritto).

10.2.– Quanto ai vincoli legali all’autonomia collettiva, volti a garantire la «compatibilità con obiettivi generali di politica economica», questa Corte ne ha riconosciuto la legittimità, giustificando in «situazioni eccezionali» ed eminentemente transitorie, allorché sia in gioco la «salvaguardia di superiori interessi generali», la compressione della libertà tutelata dall’art. 39, primo comma, Cost. (sentenza n. 124 del 1991, punto 6. del Considerato in diritto).

Anche tali rilievi sottendono una valutazione particolare, condotta caso per caso, e non si accordano con la tesi che sia per ciò stesso illegittima ogni misura che precluda, per un arco di tempo comunque definito, gli incrementi salariali e arresti lo svolgimento delle procedure negoziali.

10.3.– Tale valutazione si incentra sul contemperamento dei diritti, tutelati dagli artt. 36, primo comma, e 39, primo comma, Cost., con «l’interesse collettivo al contenimento della spesa pubblica», che deve essere adeguatamente ponderato «in un contesto di progressivo deterioramento degli equilibri della finanza pubblica» (sentenza n. 361 del 1996, punto 3. del Considerato in diritto).

Si tratta di misure oggi più stringenti, in seguito all’introduzione nella Carta fondamentale dell’obbligo di pareggio di bilancio (art. 81, primo comma, Cost., come sostituito dall’art. 1 della legge costituzionale 20 aprile 2012, n. 1, recante «Introduzione del principio del pareggio di bilancio nella Carta costituzionale»).

Il sistema della contrattazione collettiva nel lavoro pubblico, inteso nella sua interezza, contempla la pianificazione degli oneri connessi al suo svolgersi nel tempo, secondo un modello dinamico, «in coerenza con i parametri previsti dagli strumenti di programmazione e di bilancio di cui all’articolo 1-bis della legge 5 agosto 1978, n. 468, e successive modificazioni e integrazioni» (art. 48, comma 1, del d.lgs. n. 165 del 2001).

11.– Ciò posto, l’analisi deve muovere dalle disposizioni dell’art. 9 del d.l. n. 78 del 2010, che reca l’eloquente rubrica «Contenimento delle spese in materia di impiego pubblico» e, in ossequio a tale linea programmatica, preclude ogni incremento dei trattamenti economici complessivi dei singoli dipendenti per gli anni 2011, 2012, 2013 (comma 1), ogni efficacia economica delle progressioni di carriera (comma 21), e – per il periodo che dal 1° gennaio 2011 giunge fino al 31 dicembre 2013 – vieta ogni incremento dell’ammontare complessivo delle risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del personale (comma 2-bis).

La scelta di adottare disposizioni restrittive culmina nella sospensione dello svolgimento delle procedure “contrattuali e negoziali” per il triennio 2010-2012 (comma 17).

12.– Le disposizioni in esame sfuggono alle censure dei giudici rimettenti.

12.1.– Con l’assetto normativo delineato dall’art. 9 del d.l. n. 78 del 2010, questa Corte ha già avuto occasione di confrontarsi (sentenze n. 219 del 2014 e n. 310 del 2013).

Seppure sotto angolazioni specifiche, le sentenze citate hanno respinto le censure di illegittimità costituzionale delle misure contenute nel d.l. n. 78 del 2010, sulla base di un percorso argomentativo che instrada alla soluzione delle questioni di legittimità costituzionale qui considerate.

Si è precisato, in quell’occasione, che le prospettive necessariamente pluriennali del ciclo di bilancio non consentono analogie con situazioni risalenti in cui le manovre economiche si ponevano obiettivi temporalmente delimitati. A tale riguardo, questa Corte ha valorizzato «la recente riforma dell’art. 81 Cost., a cui ha dato attuazione la legge 24 dicembre 2012, n. 243 (Disposizioni per l’attuazione del principio del pareggio di bilancio ai sensi dell’articolo 81, sesto comma, della Costituzione), con l’introduzione, tra l’altro, di regole sulla spesa, e dell’art. 97, primo comma, Cost., rispettivamente ad opera degli artt. 1 e 2 della legge costituzionale 20 aprile 2012, n. 1 (Introduzione del principio del pareggio di bilancio nella Carta costituzionale), ma ancor prima il nuovo primo comma dell’art. 119 Cost.» (sentenza n. 310 del 2013, punto 13.4. del Considerato in diritto).

Anche la direttiva 8 novembre 2011, n. 2011/85/UE (Direttiva del Consiglio relativa ai requisiti per i quadri di bilancio degli Stati membri) corrobora la necessità di considerare le politiche di bilancio in una dimensione pluriennale, puntualizzando che «la maggior parte delle misure finanziarie hanno implicazioni sul bilancio che vanno oltre il ciclo di bilancio annuale» e che «una prospettiva annuale non costituisce pertanto una base adeguata per politiche di bilancio solide» (considerando n. 20).

Alla stregua di tali rilievi, questa Corte ha riconosciuto la ragionevolezza di un sistema di misure dotate di una proiezione strutturale, che esclude in radice ogni possibilità di recupero delle procedure negoziali per il periodo di riferimento (sentenza n. 189 del 2012, punto 4.1. del Considerato in diritto).

La natura pluriennale delle politiche di bilancio, espressamente considerata nei precedenti citati, è speculare alla durata triennale delle tornate contrattuali, nei termini consacrati nell’ “Intesa per l’applicazione dell’Accordo quadro sulla riforma degli assetti contrattuali del 22 gennaio 2009 ai comparti contrattuali del settore pubblico”, siglata a Roma il 30 aprile 2009 dai ministri competenti e da alcune organizzazioni sindacali (si veda, in particolare, art. 2, lettera a).

Si prefigura, in tal modo, sia per la parte normativa, sia per quella economica, una spiccata dimensione programmatica della contrattazione collettiva. A conferma di una natura dinamica, tipica dei meccanismi di rinnovo dei contratti collettivi, si possono osservare le interrelazioni degli stessi con la manovra triennale di finanza pubblica, secondo le cadenze scandite dall’art. 11, comma 1, della legge 31 dicembre 2009, n. 196 (Legge di contabilità e finanza pubblica) e secondo i criteri indicati dall’art. 17, comma 7 della stessa legge.

Spetta alla legge di stabilità indicare, per ciascuno degli anni compresi nel bilancio pluriennale, l’importo complessivo massimo destinato al rinnovo dei contratti del pubblico impiego (art. 11, comma 3, lettera g, della legge n. 196 del 2009, ai sensi dell’art. 48, comma 1, del d.lgs. n. 165 del 2001).

12.2.– La legittimità delle misure ricordate, oltre che nella prospettiva programmatica ora esposta, risiede nella ragionevolezza che ne ispira le linee direttrici.

Si tratta, invero, di provvedimenti che, pur diversamente modulati, si applicano all’intero comparto pubblico e impongono limiti e restrizioni generali, in una dimensione che questa Corte ha connotato in senso solidaristico (sentenza n. 310 del 2013, punto 13.5. del Considerato in diritto, già citato).

La ragionevolezza delle misure varate discende anche dalla particolare gravità della situazione economica e finanziaria, concomitante con l’intervento normativo.

Tali dati contingenti sono confermati sia dalle fonti ufficiali (Rapporto semestrale ARAN sulle retribuzioni dei pubblici dipendenti, giugno 2010), sia dai lavori preparatori. Il dibattito che, al Senato, scandisce l’iter parlamentare della conversione in legge del decreto polarizza l’attenzione sulla «particolare gravità della situazione economica e finanziaria internazionale» e sulle «ripercussioni sull’economia nazionale» (seduta della Quinta Commissione del Senato – Commissione Bilancio – del 16 giugno 2010).

Dal canto suo, la magistratura contabile avvalora l’urgenza di intervenire con misure di contenimento delle retribuzioni (Corte dei conti, sezioni riunite in sede di controllo, rapporto 2012 sul coordinamento della finanza pubblica, e Corte dei conti, sezioni riunite in sede di controllo, rapporto 2011 sul coordinamento della finanza pubblica).

La ragionevolezza dell’intero impianto normativo si coglie anche nell’incidenza delle misure su una dinamica retributiva pubblica, che si attestava «su valori più sostenuti di quanto registrato nei settori privati dell’economia» (si veda il citato Rapporto semestrale ARAN, giugno 2010). Nella seduta della Quinta Commissione del Senato (Commissione Bilancio), tenutasi il 16 giugno 2010, si è sottolineato che nell’ultimo decennio le retribuzioni dei dipendenti pubblici hanno visto «un incremento di fatto sensibilmente superiore per la pubblica amministrazione rispetto a quello degli altri due comparti» dell’industria e dei servizi di mercato. Tale dato collima con quanto è stato segnalato dalla Corte dei conti, sezioni riunite di controllo, nel rapporto 2012 sul coordinamento della finanza pubblica.

Il carattere generale delle misure varate dal d.l. n. 78 del 2010, inserite in un disegno organico improntato a una dimensione programmatica, scandita su un periodo triennale, risponde all’esigenza di governare una voce rilevante della spesa pubblica, che aveva registrato una crescita incontrollata, sopravanzando l’incremento delle retribuzioni del settore privato.

Sono dunque da disattendere le censure di violazione degli artt. 36, primo comma, e 39, primo comma, Cost., in quanto il sacrificio del diritto alla retribuzione commisurata al lavoro svolto e del diritto di accedere alla contrattazione collettiva non è, nel quadro ora delineato, né irragionevole né sproporzionato.

13.– Quanto alle disposizioni introdotte dall’art. 16, comma 1, lettera b), del d.l. n. 98 del 2011, che demandavano a un regolamento la possibilità di prorogare fino al 31 dicembre 2014 le vigenti disposizioni che limitano la crescita dei trattamenti economici anche accessori del personale delle pubbliche amministrazioni, si deve rilevare che il sindacato di costituzionalità non può tralasciare le norme della legge di stabilità per il 2014, che hanno recuperato al rango primario la normativa di matrice regolamentare (d.P.R. n. 122 del 2013), inizialmente intervenuta a specificare e a completare il contenuto precettivo delle norme di legge (sentenza n. 1104 del 1988, punto 6. del Considerato in diritto). In particolare, le previsioni di tale legge riguardano la sospensione delle procedure negoziali inerenti alla parte economica per il periodo 2013-2014 (art. 1, comma 453, della legge n. 147 del 2013) e la limitazione dell’ammontare dei trattamenti accessori (art. 1, comma 456, della legge n. 147 del 2013).

Intercorre, dunque, un nesso inscindibile tra le disposizioni del d.l. n. 98 del 2011, specificamente impugnate, e le disposizioni della legge di stabilità per il 2014 (sentenze n. 186 del 2013 e n. 310 del 2010).

14.– In primo luogo, si devono esaminare le censure relative all’estensione fino al 31 dicembre 2014 delle disposizioni mirate a bloccare l’incremento dei trattamenti economici complessivi dei singoli dipendenti e dell’ammontare complessivo delle risorse destinate ai trattamenti accessori e gli effetti economici delle progressioni di carriera (art. 1, comma 1, lettera a, del d.P.R. n. 122 del 2013), estensione di cui si deduce anzitutto il contrasto con l’art. 36, primo comma, Cost.

Sotto tale profilo, le censure formulate con riguardo all’estensione delle misure restrittive oltre i confini temporali originariamente tracciati non si dimostrano fondate, al pari di quelle che riguardavano le originarie disposizioni del d.l. n. 78 del 2010.

14.1.– Entrambi i giudici rimettenti paventano i riflessi del prolungato blocco della dinamica negoziale sulla proporzionalità della retribuzione al lavoro prestato.

Il giudice ravennate, in particolare, correla la violazione del citato canone di proporzionalità al mancato adeguamento delle retribuzioni al costo della vita e al fatto che le retribuzioni non rispecchino il livello di professionalità acquisito dai lavoratori e la maggiore gravosità del lavoro prestato, dovuta al blocco del turn over.

Neppure tali rilievi persuadono circa la fondatezza dei dubbi di costituzionalità.

Si deve ribadire, in linea di principio, che l’emergenza economica, pur potendo giustificare la stasi della contrattazione collettiva, non può avvalorare un irragionevole protrarsi del “blocco” delle retribuzioni. Si finirebbe, in tal modo, per oscurare il criterio di proporzionalità della retribuzione, riferito alla quantità e alla qualità del lavoro svolto (sentenza n. 124 del 1991, punto 6. del Considerato in diritto).

Tale criterio è strettamente correlato anche alla valorizzazione del merito, affidata alla contrattazione collettiva, ed è destinato a proiettarsi positivamente nell’orbita del buon andamento della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.).

Nondimeno, il giudizio sulla conformità al parametro dell’art. 36 Cost. non può essere svolto in relazione a singoli istituti, né limitatamente a periodi brevi, poiché si deve valutare l’insieme delle voci che compongono il trattamento complessivo del lavoratore in un arco temporale di una qualche significativa ampiezza, alla luce del canone della onnicomprensività (sentenza n. 154 del 2014). Con tale valutazione complessiva l’ordinanza non si confronta.

Nel considerare – alla stregua della giurisprudenza di questa Corte – un siffatto arco temporale, si deve notare, anzitutto, che le disposizioni censurate hanno cessato di operare a decorrere dal 1° gennaio 2015.

La legge di stabilità per il 2015 non ne ha prorogato l’efficacia, in quanto ha dettato disposizioni che riguardano unicamente l’estensione fino al 31 dicembre 2015 del “blocco” della contrattazione economica (art. 1, comma 254, della legge n. 190 del 2014) ed escludono gli incrementi dell’indennità di vacanza contrattuale (art. 1, comma 255, della medesima legge n. 190 del 2014). Emerge dunque con chiarezza l’orizzonte delimitato entro cui si collocano le misure restrittive citate.

Tra i fattori rilevanti, da valutare in un arco temporale più ampio, si deve annoverare, in secondo luogo, la pregressa dinamica delle retribuzioni nel lavoro pubblico, che, attestandosi su valori più elevati di quelli riscontrati in altri settori, ha poi richiesto misure di contenimento della spesa pubblica.

A questo riguardo, l’ordinanza di rimessione del Tribunale ordinario di Ravenna non offre una dimostrazione puntuale del «macroscopico ed irragionevole scostamento», che, secondo la giurisprudenza di questa Corte (sentenza n. 126 del 2000, punto 5. del Considerato in diritto), in difetto di un principio cogente di costante allineamento delle retribuzioni, denota il contrasto della legge con il precetto dell’art. 36, primo comma, Cost.

L’argomento suggestivo del “blocco” del turn over, legato alla specificità del settore della giustizia e della realtà locale, analizzata nella predetta ordinanza di rimessione, non vale a dar conto della violazione dei precetti costituzionali denunciata in capo a una normativa destinata ad applicarsi – nella sua valenza generale ed astratta – a una platea più vasta di dipendenti del settore pubblico.

Peraltro, dall’incremento delle pendenze da trattare, congiunto con l’assottigliarsi del numero dei dipendenti, non si può inferire, per ciò stesso, un aumento del carico di lavoro, che renda radicalmente sproporzionata la retribuzione percepita.

Un’inferenza come quella ipotizzata potrebbe essere accreditata di un qualche fondamento empirico, soltanto se le metodologie di lavoro e i moduli organizzativi permanessero inalterati, senza riverberarsi sul lavoro degli uffici, e se il disbrigo degli affari avvenisse secondo le medesime scansioni temporali, imponendo conseguentemente ai dipendenti un carico di lavoro più gravoso.

Nel caso di specie, pertanto, alla stregua di una valutazione necessariamente proiettata su un periodo più ampio e del carattere non decisivo degli elementi addotti a fondamento delle censure, non risulta dimostrato l’irragionevole sacrificio del principio di proporzionalità della retribuzione.

14.2.– L’infondatezza delle censure incentrate sull’art. 36, primo comma, Cost. ha come corollario l’infondatezza di eventuali pretese risarcitorie o indennitarie.

15.– Sono, invece, fondate, nei termini di cui si dirà, le censure mosse, al regime di sospensione per la parte economica delle procedure contrattuali e negoziali in riferimento all’art. 39, primo comma, Cost. Esse si incentrano sul protrarsi del “blocco” negoziale, così prolungato nel tempo da rendere evidente la violazione della libertà sindacale

15.1.– Le norme impugnate dai giudici rimettenti e le norme sopravvenute della legge di stabilità per il 2015 si susseguono senza soluzione di continuità, proprio perché accomunate da analoga direzione finalistica.

Tale scansione temporale preclude, in relazione all’art. 39, primo comma, Cost., ogni considerazione atomistica del “blocco” della contrattazione economica per il periodo 2013-2014, avulso dalla successiva proroga. Il “blocco”, così come emerge dalle disposizioni che, nel loro stesso concatenarsi, ne definiscono la durata complessiva, non può che essere colto in una prospettiva unitaria.

Ciò risulta anche dalla formulazione letterale dell’art. 1, comma 254, della legge n. 190 del 2014, che estende fino al 2015 il “blocco” ed è quindi destinato a incidere sui giudizi in corso.

15.2.– La disamina unitaria delle misure di “blocco” della contrattazione collettiva le colloca in un orizzonte meno angusto e contingente, per porne in luce l’incidenza, tutt’altro che episodica, sui valori costituzionali coinvolti.

La valutazione di tali profili problematici emerge anche dal dibattito parlamentare, che ha preceduto l’emanazione del regolamento governativo (Commissioni riunite I, Affari costituzionali, della Presidenza del Consiglio e Interni, e XI, Lavoro pubblico e privato, della Camera dei deputati, parere reso il 19 giugno 2013).

Inoltre, l’entrata in vigore delle disposizioni della legge di stabilità per il 2015 tende a rendere strutturali le misure introdotte per effetto del d.P.R. n. 122 del 2013 e della legge n. 147 del 2013.

Il fatto che tali misure fossero destinate a perpetuarsi nel tempo si evince dall’art. 1, comma 255, della legge n. 190 del 2014, che, fino al 2018, cristallizza l’ammontare dell’indennità di vacanza contrattuale ai valori del 31 dicembre 2013.

Il carattere strutturale delle misure e la conseguente violazione dell’autonomia negoziale non possono essere esclusi, sol perché, per la tornata 2013-2014, è stata salvaguardata la libertà di svolgere le procedure negoziali riguardanti la parte normativa (art. 1, comma 1, lettera c, del d.P.R. n. 122 del 2013).

La contrattazione deve potersi esprimere nella sua pienezza su ogni aspetto riguardante la determinazione delle condizioni di lavoro, che attengono immancabilmente anche alla parte qualificante dei profili economici.

Non appaiono decisivi, per escludere il contrasto con l’art. 39, primo comma, Cost., i molteplici contratti enumerati dalla difesa dello Stato, che non attestano alcun superamento della sospensione delle procedure negoziali per la parte squisitamente economica del rapporto di lavoro e per gli aspetti più caratteristici di tale ambito.

L’estensione fino al 2015 delle misure che inibiscono la contrattazione economica e che, già per il 2013-2014, erano state definite eccezionali, svela, al contrario, un assetto durevole di proroghe. In ragione di una vocazione che mira a rendere strutturale il regime del “blocco”, si fa sempre più evidente che lo stesso si pone di per sé in contrasto con il principio di libertà sindacale sancito dall’art. 39, primo comma, Cost.

16.– La libertà sindacale è tutelata dall’art. 39, primo comma, Cost., nella sua duplice valenza individuale e collettiva, e ha il suo necessario complemento nell’autonomia negoziale (ex plurimis, sentenze n. 697 del 1988, punto 3. del Considerato in diritto, e n. 34 del 1985, punto 4. del Considerato in diritto).

Numerose fonti internazionali soccorrono nella definizione del nesso funzionale che lega un diritto a esercizio collettivo, quale è la contrattazione, con la libertà sindacale. Pertanto, l’interpretazione della fonte costituzionale nazionale si collega sincronicamente con l’evoluzione delle fonti sovranazionali e da queste trae ulteriore coerenza.

Tra tali fonti spiccano la Convenzione dell’Organizzazione internazionale del lavoro (OIL) n. 87, firmata a San Francisco il 17 giugno 1948, concernente la libertà sindacale e la protezione del diritto sindacale, la Convenzione OIL n. 98, firmata a Ginevra l’8 giugno 1949, concernente l’applicazione dei Principi del diritto di organizzazione e di negoziazione collettiva, entrambe ratificate e rese esecutive con legge 23 marzo 1958, n. 367, e, con specifico riguardo al lavoro pubblico, la Convenzione OIL n. 151, relativa alla protezione del diritto di organizzazione e alle procedure per la determinazione delle condizioni di impiego nella funzione pubblica, adottata a Ginevra il 27 giugno 1978 nel corso della 64ª sessione della Conferenza generale, ratificata e resa esecutiva con legge 19 novembre 1984, n. 862.

Un rapporto di mutua implicazione tra libertà sindacale e contrattazione collettiva traspare dall’evoluzione della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo sulla libertà sindacale, che interpreta estensivamente l’art. 11 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 (Grande Camera, sentenza 12 novembre 2008, Demir e Baykara contro Turchia, riguardante il diritto di stipulare contratti collettivi nel lavoro pubblico).

Si deve inoltre citare l’art. 6 della Carta sociale europea, riveduta, con annesso, fatta a Strasburgo il 3 maggio 1996, ratificata e resa esecutiva con legge 9 febbraio 1999, n. 30, che affianca all’esercizio collettivo del diritto di contrattazione la procedura dei reclami collettivi, disciplinata dal Protocollo addizionale alla Carta del 1995.

Il «diritto di negoziare e di concludere contratti collettivi» è riconosciuto anche dall’art. 28 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, che ha ora «lo stesso valore giuridico dei trattati», in forza dell’art. 6, comma 1, del Trattato sull’Unione europea (TUE), come modificato dal Trattato di Lisbona, firmato il 13 dicembre 2007, ratificato e reso esecutivo con legge 2 agosto 2008 n. 130, ed entrato in vigore il 1° dicembre 2009.

Infine, in un quadro inteso a riconoscere e a promuovere il ruolo delle parti sociali, a favorire il dialogo tra le stesse, nel rispetto della loro autonomia, si deve ricordare l’art. 152, comma 1, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), norma introdotta con il Trattato di Lisbona.

17.– Il reiterato protrarsi della sospensione delle procedure di contrattazione economica altera la dinamica negoziale in un settore che al contratto collettivo assegna un ruolo centrale (sentenza n. 309 del 1997, punti 2.2.2., 2.2.3. e 2.2.4. del Considerato in diritto). Nei limiti tracciati dalle disposizioni imperative della legge (art. 2, commi 2, secondo periodo, e 3-bis del d.lgs. n. 165 del 2001), il contratto collettivo si atteggia come imprescindibile fonte, che disciplina anche il trattamento economico (art. 2, comma 3, del d.lgs. n. 165 del 2001), nelle sue componenti fondamentali ed accessorie (art. 45, comma 1, del d.lgs. n. 165 del 2001), e «i diritti e gli obblighi direttamente pertinenti al rapporto di lavoro, nonché le materie relative alle relazioni sindacali» (art. 40, comma 1, primo periodo, del d.lgs. n. 165 del 2001).

In una costante dialettica con la legge, chiamata nel volgere degli anni a disciplinare aspetti sempre più puntuali (art. 40, comma 1, secondo e terzo periodo, del d.lgs. n. 165 del 2001), il contratto collettivo contempera in maniera efficace e trasparente gli interessi contrapposti delle parti e concorre a dare concreta attuazione al principio di proporzionalità della retribuzione, ponendosi, per un verso, come strumento di garanzia della parità di trattamento dei lavoratori (art. 45, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001) e, per altro verso, come fattore propulsivo della produttività e del merito (art. 45, comma 3, del d.lgs. 165 del 2001).

Il contratto collettivo che disciplina il lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni si ispira, proprio per queste peculiari caratteristiche che ne garantiscono l’efficacia soggettiva generalizzata, ai doveri di solidarietà fondati sull’art. 2 Cost.

Tali elementi danno conto sia delle molteplici funzioni che, nel lavoro pubblico, la contrattazione collettiva riveste, coinvolgendo una complessa trama di valori costituzionali (artt. 2, 3, 36, 39 e 97 Cost.), in un quadro di tutele che si è visto essere presidiato anche da numerose fonti sovranazionali, sia delle disarmonie e delle criticità, che una protratta sospensione della dinamica negoziale rischia di produrre.

Se i periodi di sospensione delle procedure “negoziali e contrattuali” non possono essere ancorati al rigido termine di un anno, individuato dalla giurisprudenza di questa Corte in relazione a misure diverse e a un diverso contesto di emergenza (sentenza n. 245 del 1997, ordinanza n. 299 del 1999), è parimenti innegabile che tali periodi debbano essere comunque definiti e non possano essere protratti ad libitum.

Su tale linea converge anche la Corte europea dei diritti dell’uomo, che ha sottolineato l’esigenza di «un “giusto equilibrio” tra le esigenze di interesse generale della comunità e i requisiti di protezione dei diritti fondamentali dell’individuo» e ha salvaguardato le misure adottate dal legislatore portoghese – in tema di riduzione dei trattamenti pensionistici – sulla scorta dell’elemento chiave del limite temporale che le contraddistingue (Seconda sezione, sentenza 8 ottobre 2013, António Augusto da Conceiçao Mateus e Lino Jesus Santos Januário contro Portogallo, punti 23 e seguenti del Considerato in diritto).

Il carattere ormai sistematico di tale sospensione sconfina, dunque, in un bilanciamento irragionevole tra libertà sindacale (art. 39, primo comma, Cost.), indissolubilmente connessa con altri valori di rilievo costituzionale e già vincolata da limiti normativi e da controlli contabili penetranti (artt. 47 e 48 del d.lgs. n. 165 del 2001), ed esigenze di razionale distribuzione delle risorse e controllo della spesa, all’interno di una coerente programmazione finanziaria (art. 81, primo comma, Cost.).

Il sacrificio del diritto fondamentale tutelato dall’art. 39 Cost., proprio per questo, non è più tollerabile.

Solo ora si è palesata appieno la natura strutturale della sospensione della contrattazione e può, pertanto, considerarsi verificata la sopravvenuta illegittimità costituzionale, che spiega i suoi effetti a séguito della pubblicazione di questa sentenza.

18.– Rimossi, per il futuro, i limiti che si frappongono allo svolgimento delle procedure negoziali riguardanti la parte economica, sarà compito del legislatore dare nuovo impulso all’ordinaria dialettica contrattuale, scegliendo i modi e le forme che meglio ne rispecchino la natura, disgiunta da ogni vincolo di risultato.

Il carattere essenzialmente dinamico e procedurale della contrattazione collettiva non può che essere ridefinito dal legislatore, nel rispetto dei vincoli di spesa, lasciando impregiudicati, per il periodo già trascorso, gli effetti economici derivanti dalla disciplina esaminata.

per questi motivi

La Corte Costituzionale

riuniti i giudizi,

1) dichiara l’illegittimità costituzionale sopravvenuta, a decorrere dal giorno successivo alla pubblicazione di questa sentenza nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica e nei termini indicati in motivazione, del regime di sospensione della contrattazione collettiva, risultante da: art. 16, comma 1, lettera b), del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 15 luglio 2011, n. 111, come specificato dall’art. 1, comma 1, lettera c), primo periodo, del d.P.R. 4 settembre 2013, n. 122 (Regolamento in materia di proroga del blocco della contrattazione e degli automatismi stipendiali per i pubblici dipendenti, a norma dell’articolo 16, commi 1, 2 e 3, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111); art. 1, comma 453, della legge 27 dicembre 2013, n. 147 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2014) e art. 1, comma 254, della legge 23 dicembre 2014, n. 190 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2015);

2) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 16, comma 1, lettera c), del d.l. n. 98 del 2011, come specificato dall’art. 1, comma 1, lettera d), del d.P.R. n. 122 del 2013, e dall’art. 1, comma 452, della legge n. 147 del 2013, promosse, in riferimento all’art. 36, primo comma, della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Roma, in funzione di giudice del lavoro, e dal Tribunale ordinario di Ravenna, in funzione di giudice del lavoro, con le ordinanze di rimessione indicate in epigrafe;

3) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 9, commi 1 e 17, primo periodo, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 30 luglio 2010, n. 122, e dell’art. 16, comma 1, lettera b), del d.l. n. 98 del 2011, come specificato dall’art. 1, comma 1, lettera a), primo periodo, del d.P.R. n. 122 del 2013, con riguardo alla limitazione dei trattamenti economici complessivi dei singoli dipendenti, e dall’art. 1, comma 1, lettera c), primo periodo, del d.P.R. n. 122 del 2013 e dall’art. 1, comma 453, della legge n. 147 del 2013, con riguardo alla sospensione delle procedure contrattuali e negoziali per la parte economica per il periodo 2013-2014, sollevate, in riferimento agli artt. 35, primo comma, e 53, primo e secondo comma, della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Roma, in funzione di giudice del lavoro, con l’ordinanza di rimessione indicata in epigrafe;

4) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 9, commi 1, 2-bis, 17, primo periodo, e 21, ultimo periodo, del d.l. n. 78 del 2010, e 16, comma 1, lettera b), del d.l. n. 98 del 2011, come specificato dall’art. 1, comma 1, lettera a), primo periodo, del d.P.R. n. 122 del 2013, con riguardo alla limitazione dei trattamenti economici complessivi dei singoli dipendenti, del trattamento accessorio, degli effetti economici delle progressioni di carriera, dall’art. 1, comma 456, della legge n. 147 del 2013, con riguardo alla limitazione dei trattamenti accessori, dall’art. 1, comma 1, lettera c), primo periodo, del d.P.R. n. 122 del 2013 e dall’art. 1, comma 453, della legge n. 147 del 2013, con riguardo alla sospensione delle procedure contrattuali e negoziali per la parte economica per il periodo 2013-2014, promosse, in riferimento all’art. 35, primo comma, della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Ravenna, in funzione di giudice del lavoro, con l’ordinanza di rimessione indicata in epigrafe;

5) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 9, commi 1 e 17, primo periodo, del d.l. n. 78 del 2010, sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, primo comma, 36, primo comma, e 39, primo comma, della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Roma, in funzione di giudice del lavoro, con l’ordinanza di rimessione indicata in epigrafe;

6) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 16, comma 1, lettera b), del d.l. n. 98 del 2011, come specificato dall’art. 1, comma 1, lettera a), primo periodo, del d.P.R. n. 122 del 2013, con riguardo alla limitazione dei trattamenti economici complessivi dei singoli dipendenti, dall’art. 1, comma 1, lettera c), primo periodo, del d.P.R. n. 122 del 2013, e dall’art. 1, comma 453, della legge n. 147 del 2013, con riguardo alla sospensione delle procedure contrattuali e negoziali per la parte economica per il periodo 2013-2014, sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, primo comma, e 36, primo comma, della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Roma, in funzione di giudice del lavoro, con l’ordinanza di rimessione indicata in epigrafe;

7) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 9, commi 1, 2-bis, 17, primo periodo, e 21, ultimo periodo, del d.l. n. 78 del 2010, promosse, in riferimento agli artt. 2, 3, primo comma, 36, primo comma, 39, primo comma, e 53, primo e secondo comma, della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Ravenna, in funzione di giudice del lavoro, con l’ordinanza di rimessione indicata in epigrafe;

8) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 16, comma 1, lettera b), del d.l. n. 98 del 2011, come specificato dall’art. 1, comma 1, lettera a), primo periodo, del d.P.R. n. 122 del 2013, con riguardo alla limitazione dei trattamenti economici complessivi dei singoli dipendenti, del trattamento accessorio, degli effetti economici delle progressioni di carriera, dall’art. 1, comma 456, della legge n. 147 del 2013, con riguardo alla limitazione dei trattamenti accessori, dall’art. 1, comma 1, lettera c), primo periodo, del d.P.R. n. 122 del 2013, e dall’art. 1, comma 453, della legge n. 147 del 2013, con riguardo alla sospensione delle procedure contrattuali e negoziali per la parte economica per il periodo 2013-2014, promosse, in riferimento agli artt. 2, 3, primo comma, 36, primo comma, e 53, primo e secondo comma, della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Ravenna, in funzione di giudice del lavoro, con l’ordinanza di rimessione indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 giugno 2015.