Sentenza della Corte costituzionale 23 marzo 2016, n. 90

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G.U. 27 aprile 2016, n. 17

Non contrasta con il rispetto dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali (art. 117, co.1, Cost.) in relazione all’art. 1 del primo Protocollo alla CEDU l’art. 8, co. 3, della l. della Provincia autonoma di Bolzano n. 10/1991 (come sostituito dall’art. 3, co. 3 della legge provinciale n. 4/2008). La questione di legittimità costituzionale era stata sollevata in relazione al criterio di determinazione della indennità di espropriazione. La Corte costituzionale ha evidenziato che la norma censurata, imponendo all’organo competente di tenere in adeguata considerazione le caratteristiche effettive dell’area da espropriare (e, dunque, il suo effettivo valore di mercato), non si discosta dai principi fissati dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani (sent. Scordino c. Italia, 2006; Chinnici c. Italia, 2015; e altre) e dalla giurisprudenza della stessa C. cost. (sent. n. 181/2011, n. 338/2011 e n. 187/2014). Infatti, secondo l’interpretazione della Corte europea, l’art. 1 del Protocollo non garantisce il diritto a un pieno indennizzo in tutte le circostanze, ma impone che le modalità di indennizzo previste dalla legislazione interna consentano la corresponsione “di una somma ragionevolmente correlata al valore del bene”, senza la quale “una privazione di proprietà costituisce normalmente una sproporzionata interferenza”.

Sentenza

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 8, comma 3, della legge della Provincia autonoma di Bolzano 15 aprile 1991, n. 10 (Espropriazioni per causa di pubblica utilità per tutte le materie di competenza provinciale), come sostituito dall’art. 38, comma 7, della legge della Provincia autonoma di Bolzano 10 giugno 2008, n. 4 (Modifiche di leggi provinciali in vari settori e altre disposizioni), promosso dalla Corte d’appello di Trento nel procedimento vertente tra Weingut Schloss Sigmundskron K.G. e il Comune di Bolzano ed altri, con ordinanza del 31 marzo 2015, iscritta al n. 102 del registro ordinanze 2015 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 22, prima serie speciale, dell’anno 2015.

Udito nella camera di consiglio del 23 marzo 2016 il Giudice relatore Daria de Pretis.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 31 marzo 2015 la Corte d’appello di Trento ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 8, comma 3, della legge della Provincia autonoma di Bolzano 15 aprile 1991, n. 10 (Espropriazioni per causa di pubblica utilità per tutte le materie di competenza provinciale), come sostituito dall’art. 38, comma 7, della legge della Provincia autonoma di Bolzano 10 giugno 2008, n. 4 (Modifiche di leggi provinciali in vari settori e altre disposizioni), in riferimento agli artt. 42, terzo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (d’ora in avanti «CEDU»), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848.

La questione ha origine in un giudizio di opposizione alla stima dell’indennità espropriativa, promosso dalla Weingut Schloss Sigmundskron sas davanti alla Corte d’appello di Trento, sezione distaccata di Bolzano, in relazione ad una vicenda espropriativa – riguardante un’area di 26.824 mq di proprietà della società stessa – volta alla «realizzazione da parte del Comune di Bolzano delle opere di risanamento dell’ex discarica di Castel Firmiano».

La società contestava la congruità dell’indennità di esproprio, quantificata in 178.428,50 euro, sulla base dell’asserita edificabilità dell’area. La Corte d’appello di Trento, sezione distaccata di Bolzano, con sentenza 19 maggio 2004, n. 97, accoglieva la domanda attorea e rideterminava l’indennità nella somma di 885.713,30 euro, considerando l’area edificabile per la realizzazione di strutture produttive.

Investita della controversia con ricorso del Comune di Bolzano, la Corte di cassazione, sezione prima civile, con sentenza 3 giugno 2010, n. 13461, accoglieva il ricorso, precisando che i terreni ablati «avrebbero dovuto essere qualificati come inedificabili e, conseguentemente, indennizzati per il loro esproprio, secondo il criterio previsto dal comma 3 dell’art. 8 della legge (provinciale) n. 10 del 1991», nella versione applicabile ratione temporis alla fattispecie de qua, cioè come modificato dall’art. 38, comma 7, della citata legge provinciale n. 4 del 2008.

A seguito della cassazione della citata sentenza n. 97 del 2004, con rinvio alla Corte d’appello di Trento, il Comune di Bolzano riassumeva la causa davanti ad essa, chiedendo la rideterminazione dell’indennità di esproprio in base alla disposizione indicata come applicabile dalla Corte di cassazione: secondo tale norma, «l’indennità d’espropriazione per le aree non edificabili consiste nel giusto prezzo da attribuire, entro i valori minimi e massimi stabiliti dalla Commissione di cui all’articolo 11, all’area quale terreno agricolo considerato libero da vincoli di contratti agrari, secondo il tipo di coltura in atto al momento dell’emanazione del decreto di cui all’articolo 5» (cioè del decreto che determina l’indennità di esproprio).

Il CTU nominato dalla Corte d’appello, applicando la norma provinciale appena citata, determinava l’indennità di esproprio in 200.951 euro; osservava anche che il valore venale dell’area, «nella prospettiva di una coltivazione a vigneto, considerata libera dai rifiuti», sarebbe stato di 1.008.235 euro, «dedotti i costi di risanamento», mentre, «nel caso in cui non fosse previsto il risanamento […], il valore di mercato risulterebbe di complessivi euro 353.850,00, valutando euro 6 a mq la ex discarica e […] 55,00 [euro] a mq le superfici libere e suscettibili di destinazione a vigneto, previa deduzione dei costi di trasformazione e di impianto».

La Corte d’appello, rilevando che la Corte di cassazione, nell’ambito di altra causa, aveva sollevato davanti alla Corte costituzionale la questione relativa all’art. 8, comma 3, della legge provinciale n. 10 del 1991, come sostituito dall’art. 38, comma 7, della legge provinciale n. 4 del 2008, con ordinanza del 19 marzo 2013 rimetteva la causa sul ruolo in attesa della pronuncia della Corte costituzionale.

Poiché tale giudizio di legittimità costituzionale si era concluso con una pronuncia di inammissibilità (sentenza n. 213 del 2014), la Corte d’appello, condividendo le ragioni che avevano indotto la Corte di cassazione a promuovere la questione, instaurava il presente giudizio.

1.1.– Il giudice a quo osserva che, secondo la Corte costituzionale, «la determinazione dell’indennità espropriativa non può prescindere dal valore effettivo del bene espropriato» e che, «pur non avendo il legislatore il dovere di commisurare integralmente l’indennità al valore di mercato, quest’ultimo parametro rappresenta un importante termine di riferimento ai fini della individuazione di una congrua indennità in modo “da garantire il giusto equilibrio tra l’interesse generale e gli imperativi della salvaguardia dei diritti fondamentali degli individui”». In particolare, la Corte d’appello ricorda la sentenza n. 181 del 2011, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del criterio del valore agricolo medio (previsto per le aree non edificabili), in quanto «non teneva conto delle caratteristiche specifiche del bene espropriato quali la posizione del suolo, del valore intrinseco del terreno (che non si limita alle colture in esso praticate ma consegue anche alla presenza di elementi come l’acqua, l’energia elettrica, l’esposizione) e di quant’altro può incidere sul valore venale di esso». Il giudice a quo ritiene che il criterio utilizzato dall’art. 8, comma 3, della legge provinciale n. 10 del 1991 sia «del tutto simile» al criterio del valore agricolo medio, ritenuto illegittimo in quanto «elusivo del legame che l’indennità deve avere con il valore di mercato del bene ablato», secondo la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, e non «rispondente all’esigenza di garantire un serio ristoro più volte espressa dalla giurisprudenza costituzionale».

Il giudice rimettente richiama anche la sentenza della Corte costituzionale n. 187 del 2014, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 13 della legge della Provincia autonoma di Trento 19 febbraio 1993, n. 6 (Norme sulla espropriazione per pubblica utilità), disposizione anch’essa ritenuta assimilabile a quella oggetto del presente giudizio.

In definitiva, secondo il giudice a quo, l’art. 8, comma 3, della legge della Provincia autonoma di Bolzano n. 10 del 1991, come sostituito dall’art. 38, comma 7, della legge della Provincia autonoma di Bolzano n. 4 del 2008, violerebbe gli artt. 42, terzo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU.

Quanto alla rilevanza della questione, il rimettente sottolinea la differenza che, secondo le conclusioni del CTU, sussiste tra l’indennità calcolata in base alla norma provinciale contestata (euro 200.951) e l’indennità «determinata sulla base del valore di mercato dell’area ablata che, a seconda delle modalità di calcolo seguite, può risultare pari a euro 1.008.235,00 ovvero a euro 353.850,00».

2.– Le parti del giudizio a quo non si sono costituite davanti a questa Corte costituzionale. Il Presidente della Provincia autonoma di Bolzano non è intervenuto nel giudizio.

Considerato in diritto

1.– La Corte d’appello di Trento dubita della legittimità costituzionale dell’art. 8, comma 3, della legge della Provincia autonoma di Bolzano 15 aprile 1991, n. 10 (Espropriazioni per causa di pubblica utilità per tutte le materie di competenza provinciale), come sostituito dall’art. 38, comma 7, della legge della Provincia autonoma di Bolzano 10 giugno 2008, n. 4 (Modifiche di leggi provinciali in vari settori e altre disposizioni), in riferimento agli artt. 42, terzo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (d’ora in avanti «CEDU»), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848.

La questione ha origine in un giudizio di opposizione alla stima dell’indennità espropriativa, promosso dalla Weingut Schloss Sigmundskron sas davanti alla Corte d’appello di Trento, sezione distaccata di Bolzano, in relazione ad una vicenda espropriativa – riguardante un’area di 26.824 mq di proprietà della società stessa – volta alla «realizzazione da parte del Comune di Bolzano delle opere di risanamento dell’ex discarica di Castel Firmiano». Tale giudizio, a seguito della cassazione con rinvio della sentenza della Corte d’appello di Trento, sezione distaccata di Bolzano, veniva riassunto davanti alla Corte d’appello di Trento, tenuta a rideterminare l’indennità in base alla disposizione dichiarata applicabile dalla Corte di cassazione, cioè all’art. 8, comma 3, della legge provinciale n. 10 del 1991, come sostituito dall’art. 38, comma 7, della legge provinciale n. 4 del 2008, secondo il quale «l’indennità d’espropriazione per le aree non edificabili consiste nel giusto prezzo da attribuire, entro i valori minimi e massimi stabiliti dalla Commissione di cui all’articolo 11, all’area quale terreno agricolo considerato libero da vincoli di contratti agrari, secondo il tipo di coltura in atto al momento dell’emanazione del decreto di cui all’articolo 5» (cioè del decreto che determina l’indennità di esproprio).

Il giudice rimettente dubita della conformità di tale norma ai parametri sopra indicati in quanto contemplerebbe un criterio di determinazione dell’indennità di esproprio, per le aree non edificabili, «del tutto simile» a quello del valore agricolo medio, utilizzato da due disposizioni legislative già censurate da questa Corte: l’art. 5-bis, comma 4, del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 8 agosto 1992, n. 359, in combinato disposto con l’art. 16, commi quinto e sesto, della legge 22 ottobre 1971, n. 865 (Programmi e coordinamento dell’edilizia residenziale pubblica; norme sulla espropriazione per pubblica utilità; modifiche ed integrazioni alle leggi 17 agosto 1942, n. 1150; 18 aprile 1962, n. 167; 29 settembre 1964, n. 847; ed autorizzazione di spesa per interventi straordinari nel settore dell’edilizia residenziale, agevolata e convenzionata), e l’art. 13 della legge della Provincia autonoma di Trento 19 febbraio 1993, n. 6 (Norme sulla espropriazione per pubblica utilità), dichiarati costituzionalmente illegittimi, rispettivamente, con le sentenze n. 181 del 2011 e n. 187 del 2014.

Dunque, l’art. 8, comma 3, della legge provinciale n. 10 del 1991 violerebbe gli artt. 42, terzo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU, in quanto il criterio di determinazione dell’indennità espropriativa da esso previsto prescinderebbe dal valore effettivo del bene espropriato e non terrebbe conto delle sue caratteristiche specifiche; in altre parole, tale criterio sarebbe «elusivo del legame che l’indennità deve avere con il valore di mercato del bene ablato», secondo la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, e non «rispondente all’esigenza di garantire un serio ristoro più volte espressa dalla giurisprudenza costituzionale».

2.– In via preliminare, occorre precisare che la norma censurata dal giudice rimettente è ancora vigente ma non si trova, attualmente, nell’art. 8, comma 3, della legge provinciale n. 10 del 1991, bensì nell’art. 7-quater della medesima legge, a seguito delle modifiche recate ad essa dalla legge provinciale 13 novembre 2009, n. 9 (Norme in materia di espropriazione ed altre disposizioni): la disposizione oggetto del presente giudizio, dunque, è rimasta inalterata nel suo contenuto, ma ne è mutata la collocazione. Avuto riguardo alla disposizione applicabile nel giudizio a quo, lo scrutinio di questa Corte verterà sul citato art. 8, comma 3.

3.– La questione di legittimità costituzionale non è fondata.

L’art. 8, comma 3, della legge provinciale n. 10 del 1991 si differenzia dalle disposizioni legislative dichiarate costituzionalmente illegittime dalle sentenze n. 181 del 2011 e n. 187 del 2014. In queste pronunce, è stato censurato il carattere astratto del criterio di determinazione dell’indennità, corrispondente ad un «valore agricolo medio» definito ogni anno in base a due elementi: la zona agraria e il tipo di coltura. L’automaticità e l’astrattezza del meccanismo di quantificazione previsto da quelle norme conducevano a determinare un’indennità che non teneva conto delle caratteristiche specifiche del terreno e che, dunque, poteva essere priva di un ragionevole legame con il valore di mercato.

La norma contestata dalla Corte d’appello di Trento prevede, invece, un’indennità che «consiste nel giusto prezzo» da individuare «entro i valori minimi e massimi» stabiliti dalla commissione provinciale estimatrice. L’espressione «giusto prezzo» trova i propri precedenti nel «giusto prezzo» previsto all’art. 39 della legge 25 giugno 1865, n. 2359 (Espropriazioni per causa di utilità pubblica) e nella «giusta indennità» di cui all’art. 834 del codice civile, ed evoca l’idea di un corrispettivo commisurato al valore effettivo del bene espropriato; dunque, essa conferisce all’organo competente alla determinazione dell’indennità un margine di apprezzamento, che va esercitato avendo come riferimento le caratteristiche effettive del bene espropriando. Lo stesso criterio del «giusto prezzo», già presente nell’art. 12 della legge della Provincia autonoma di Bolzano 20 agosto 1972, n. 15 (Legge di riforma dell’edilizia abitativa), del resto, fu attuato in sede amministrativa con la deliberazione della Giunta provinciale 12 agosto 1975, n. 4074, che indicava valori assai articolati a seconda delle distinte qualità dei terreni, al fine di arrivare alla determinazione del «prezzo agricolo di mercato».

Anche al di là del significato intrinseco dell’espressione «giusto prezzo» – e della stessa necessità di una sua interpretazione conforme ai principi sanciti da questa Corte e dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (sentenze di questa Corte n. 181 del 2011 e n. 355 del 1985 e della Corte di cassazione, sezione prima civile, 6 settembre 2004, n. 17958, e 1° luglio 2004, n. 12033), sui quali si tornerà in seguito – il riferimento alle caratteristiche effettive del bene nella quantificazione dell’indennità si desume con chiarezza dall’analisi sistematica della legge provinciale n. 10 del 1991, e segnatamente dai suoi artt. 7-bis e 11. L’art. 7-bis (nel testo vigente a seguito della legge provinciale n. 4 del 2008, applicabile nel giudizio a quo) prevede che, «salvi gli specifici criteri previsti dalla legge, l’indennità di espropriazione è determinata sulla base delle caratteristiche del bene al momento dell’emanazione del decreto di cui all’articolo 5 […]».

Il comma 4 dell’art. 11 della legge provinciale n. 10 del 1991, a sua volta, stabilisce che «la commissione provinciale, entro il 31 dicembre di ogni anno, provvede per l’anno successivo alla ripartizione del territorio provinciale in zone agricole omogenee, ed alla determinazione dei valori agricoli minimi e massimi per ciascuna coltura in relazione alle singole zone agrarie, seguendo i criteri stabiliti dalla Giunta provinciale con proprio regolamento» (che, al momento, non è stato adottato).

Così come, dunque, in base al citato art. 7-bis la considerazione delle caratteristiche effettive dello specifico terreno da espropriare si impone all’organo competente a determinare l’indennità, allo stesso modo le possibili diverse caratteristiche delle aree devono essere considerate dalla commissione provinciale estimatrice prevista al citato art. 11, nel momento in cui individua i «valori agricoli minimi e massimi» entro i quali l’indennità stessa dovrà essere determinata. Infatti, poiché i valori agricoli variano tra un minimo e un massimo per aree situate nella stessa zona e oggetto della stessa coltura, ciò significa che la commissione dovrà dare rilievo a elementi diversi dal tipo di coltura, cioè alle altre caratteristiche del terreno. Essendo poi, l’organo amministrativo competente, tenuto a determinare l’indennità sulla base dei valori fissati dalla commissione, il modo in cui tali valori sono strutturati (quale risulta sulla base del citato art. 11, comma 4) concorre a dimostrare la differenza tra il criterio utilizzato dalla disposizione oggetto del presente giudizio rispetto a quello contenuto nelle disposizioni richiamate dal giudice a quo e censurate dalle sentenze n. 181 del 2011 e n. 187 del 2014, e segnatamente il fatto che la prima, a differenza delle seconde, impone di tenere conto delle concrete e differenziate caratteristiche dello specifico bene espropriando.

Alla luce di queste considerazioni, si può ritenere che l’art. 8, comma 3, della legge provinciale n. 10 del 1991, là dove stabilisce che «l’indennità d’espropriazione per le aree non edificabili consiste nel giusto prezzo da attribuire […] all’area […] secondo il tipo di coltura in atto al momento dell’emanazione del decreto di cui all’articolo 5», sia formulato in modo impreciso, giacché, in realtà, dalla lettura sistematica della normativa in cui la disposizione si inserisce emerge che il «tipo di coltura» è solo uno dei caratteri del terreno che devono essere presi in considerazione nella determinazione dell’indennità e che ad esso se ne devono ritenere aggiunti altri, che incidono specificamente sul valore intrinseco del bene, quali, ad esempio, la sua specifica posizione o la sua esposizione.

4.– Quanto fin qui esposto dimostra l’infondatezza dell’assunto posto a base dell’ordinanza di rimessione (la corrispondenza tra l’art. 8, comma 3, della legge provinciale n. 10 del 1991 e le disposizioni legislative dichiarate costituzionalmente illegittime dalle sentenze n. 181 del 2011 e n. 187 del 2014) e delle conseguenze che ne vengono tratte (che la norma censurata prescriva un criterio automatico e astratto di determinazione dell’indennità di esproprio delle aree non edificabili), e conduce a negare la difformità tra il criterio di determinazione dell’indennità utilizzato dal citato art. 8, comma 3, e i parametri costituzionali invocati dal giudice rimettente.

Questa Corte ha più volte precisato che «l’indennizzo assicurato all’espropriato dall’art. 42, terzo comma, Cost., se non deve costituire una integrale riparazione per la perdita subita – in quanto occorre coordinare il diritto del privato con l’interesse generale che l’espropriazione mira a realizzare – non può essere, tuttavia, fissato in una misura irrisoria o meramente simbolica, ma deve rappresentare un serio ristoro» (ex multis, sentenza n. 181 del 2011, ribadita dalla sentenza n. 187 del 2014), sulla base del «valore del bene in relazione alle sue caratteristiche essenziali, fatte palesi dalla potenziale utilizzazione economica di esso, secondo legge» (sentenza n. 5 del 1980). Esclusa, dunque, la necessaria coincidenza tra valore di mercato e indennità espropriativa, resta fermo che «il punto di riferimento per determinare l’indennità di espropriazione deve essere il valore di mercato (o venale) del bene ablato» (sentenza n. 348 del 2007; si vedano anche le sentenze n. 216 del 1990 e n. 231 del 1984), in modo da assicurare un ristoro economico che abbia un «ragionevole legame» con tale valore (sentenza n. 338 del 2011).

Analoghi principi sono stati fissati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, nell’interpretazione dell’art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU, che garantisce a ogni persona fisica e giuridica la protezione della proprietà. Secondo la Corte europea, la citata previsione convenzionale, pur non garantendo il diritto a un pieno indennizzo in tutte le circostanze – «poiché legittimi obiettivi di “pubblica utilità” possono esigere un rimborso inferiore al pieno valore venale» (da ultimo, sentenza 14 aprile 2015, Chinnici contro Italia) –, impone che le modalità di indennizzo previste dalla legislazione interna consentano la corresponsione «di una somma ragionevolmente correlata al valore del bene», senza la quale «una privazione di proprietà costituisce normalmente una sproporzionata interferenza» (Grande Camera, sentenza 29 marzo 2006, Scordino contro Italia, poi ribadita, ad esempio, dalle sentenze Chinnici contro Italia, citata, 6 novembre 2014, Azzopardi contro Malta e 23 settembre 2014, Valle Pierimpié società agricola s.p.a. contro Italia).

L’art. 8, comma 3, della legge provinciale n. 10 del 1991, in virtù del suo contenuto e del collegamento sistematico con gli artt. 7-bis e 11, comma 4, della medesima legge (nel testo modificato dalla legge provinciale n. 4 del 2008, applicabile nel giudizio a quo), impone all’organo competente a determinare l’indennità di esproprio di tenere in adeguata considerazione, nella sua quantificazione, le caratteristiche effettive dell’area da espropriare e, dunque, il suo effettivo valore di mercato. La norma oggetto del presente giudizio, dunque, non disattende i criteri fissati da questa Corte e dalla Corte europea dei diritti dell’uomo e non può essere contestata invocando, come fa il giudice rimettente, la sentenza di questa Corte n. 181 del 2011. Al contrario, tale pronuncia avvalora semmai un esito di infondatezza della presente questione, in quanto in essa questa Corte, mentre ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della normativa censurata e, in via consequenziale, dell’art. 40, commi 2 e 3, del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità), poiché anche tali disposizioni utilizzavano il criterio del «valore agricolo medio» per la determinazione dell’indennità di esproprio delle aree non edificabili, ha deciso di non estendere la declaratoria all’art. 40, comma 1, che «concerne l’esproprio di un’area non edificabile ma coltivata […] e stabilisce che l’indennità definitiva è determinata in base al criterio del valore agricolo», proprio in considerazione del fatto che «la mancata previsione del valore agricolo medio e il riferimento alle colture effettivamente praticate sul fondo consentono una interpretazione della norma costituzionalmente orientata, peraltro demandata ai giudici ordinari» (sentenza n. 181 del 2011).

Queste conclusioni non escludono che, a seconda del contenuto concreto delle tabelle recanti i «valori minimi e massimi», l’organo amministrativo (da esse vincolato) possa trovarsi nella situazione di dover determinare un’indennità di esproprio che si discosti, in misura maggiore o minore, dal valore di mercato dell’area e che, in ipotesi, potrebbe non garantire un «serio ristoro» all’espropriato. Questa eventualità, tuttavia, non è da imputare a un vizio di costituzionalità della legge che definisce il meccanismo di quantificazione dell’indennità, ma, nell’ipotesi, a vizi nella formazione delle tabelle da parte della commissione, vizi che potrebbero essere sindacati nel giudizio di opposizione alla stima, ai fini di un’eventuale disapplicazione dell’atto amministrativo di approvazione delle tabelle che ne risultasse inficiato (sentenze n. 261 del 1997, n. 1165 e n. 530 del 1988; inoltre sentenze della Corte di cassazione, prima sezione civile, 28 luglio 2010, n. 17679; sezioni unite civili, 28 ottobre 2009, n. 22753; prima sezione civile, 18 maggio 2005, n. 10424).

Si può osservare, al riguardo, che la precedente disciplina legislativa della Provincia autonoma di Bolzano (art. 12, primo comma, della citata legge provinciale n. 15 del 1972, come sostituito dall’art. 5 della legge provinciale 22 maggio 1978, n. 23, recante «Modifiche alla legge provinciale 20 agosto 1972, n. 15, e successive modifiche, sulla riforma dell’edilizia abitativa ed all’ordinamento urbanistico provinciale»), corrispondente a quella oggetto del presente giudizio, era stata sottoposta all’esame di questa Corte in quanto le tabelle recanti i valori minimi e massimi erano considerate vincolanti anche per il giudice. La Corte censurò tale carattere vincolante delle tabelle, osservando che «il giudice, […] se costretto a non discostarsi dai parametri fissati dall’organo della pubblica amministrazione, ove questi non corrispondano a quel concetto di “serio ristoro” elaborato dalla giurisprudenza di questa Corte, sarebbe impossibilitato a ripristinare la legittimità di quei valori, lasciando così senza riparo l’offesa al principio di cui al terzo comma dell’art. 42 Cost.» (sentenza n. 530 del 1988). Dalla pronuncia risulta che, per riparare alla violazione, la quantificazione di un indennizzo equivalente a un «serio ristoro» deve poter essere garantita anche nel caso in cui le tabelle fissate dalla commissione non lo consentano, mediante la loro disapplicazione da parte del giudice.

In conclusione, l’art. 8, comma 3, della legge provinciale n. 10 del 1991 non si pone in contrasto con gli artt. 42, terzo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU.

per questi motivi

La Corte Costituzionale

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 8, comma 3, della legge della Provincia autonoma di Bolzano 15 aprile 1991, n. 10 (Espropriazioni per causa di pubblica utilità per tutte le materie di competenza provinciale), come sostituito dall’art. 38, comma 7, della legge della Provincia autonoma di Bolzano 10 giugno 2008, n. 4 (Modifiche di leggi provinciali in vari settori e altre disposizioni), sollevata, in riferimento agli artt. 42, terzo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 1 del Protocollo addizionale alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848, dalla Corte d’appello di Trento, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 marzo 2016.