G.U. 5 giugno 2013, n. 23
E’ fondata la questione di legittimità costituzionale relativa all’art. 15, co. 1, lett. c, l. n. 96/2010 (Legge comunitaria 2009) sostitutivo dell’art. 11, co. 5, della l. n. 88/2009 (Legge comunitaria 2008). La l. n. 96/2010 introduceva una norma di interpretazione autentica che, in attesa dell’emanazione dei decreti legislativi previsti dalla l. n. 447/1995 (Legge quadro sull’inquinamento acustico), stabiliva la sospensione della disciplina relativa ai requisiti acustici passivi degli edifici nei rapporti tra privati e, in particolare, nei rapporti tra costruttori-venditori e acquirenti di alloggi. La norma censurata è in contrasto con il divieto di retroattività della legge sancito dall’art. 11 delle Disposizioni sulla legge in generale e dall’art. 25 Cost. La retroattività della disposizione impugnata non trova peraltro giustificazione nella tutela di “principi, diritti e beni di rilievo costituzionale” che costituiscono “motivi imperativi di interesse generale ai sensi della CEDU”, secondo la giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani. In violazione dell’art. 3 Cost. ciò determina una ingiustificata disparità di trattamento tra acquirenti di immobili.
Sentenza
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 15, comma 1, lettera c), della legge 4 giugno 2010, n. 96 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità Europee. Legge comunitaria 2009), sostitutivo dell’art. 11, comma 5, della legge 7 luglio 2009, n. 88 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità Europee. Legge comunitaria 2008), promosso dal Tribunale di Busto Arsizio nel procedimento vertente tra Roveda Stefano ed altre e la Immobiliare Vittoria s.r.l. ed altri, con ordinanza del 15 febbraio 2012, iscritta al n. 109 del registro ordinanze 2012 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 23, prima serie speciale, dell’anno 2012.
Visto l’atto di costituzione della Immobiliare Vittoria s.r.l.;
udito nell’udienza pubblica del 10 aprile 2013 il Presidente Franco Gallo in luogo e con l’assenso del Giudice relatore Sergio Mattarella.
Ritenuto in fatto
1.— Con ordinanza del 15 febbraio 2012, pervenuta alla cancelleria di questa Corte il 22 giugno 2012 (reg. ord. n. 109 del 2012), il Tribunale di Busto Arsizio ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 101, 102 e 104 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 15, comma 1, lettera c), della legge 4 giugno 2010, n. 96 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità Europee. Legge comunitaria 2009), in quanto prevede che l’articolo 11, comma 5, della legge 7 luglio 2009, n. 88 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità Europee. Legge comunitaria 2008) sia sostituito dalla norma di interpretazione autentica che recita: «In attesa dell’emanazione dei decreti legislativi di cui al comma 1, l’articolo 3, comma 1, lettera e), della legge 26 ottobre 1995, n. 447, si interpreta nel senso che la disciplina relativa ai requisiti acustici passivi degli edifici e dei loro componenti non trova applicazione nei rapporti tra privati e, in particolare, nei rapporti tra costruttori-venditori e acquirenti di alloggi, fermi gli effetti derivanti da pronunce giudiziali passate in giudicato e la corretta esecuzione dei lavori a regola d’arte asseverata da un tecnico abilitato».
2.— Il giudice remittente premette che la fattispecie al suo esame concerne la domanda risarcitoria proposta ai sensi dell’art. 1669 cod. civ. dall’acquirente di un immobile nei confronti del venditore-costruttore e dell’appaltatore, per il mancato rispetto dei requisiti acustici passivi degli edifici fissati dal d.P.C.M. 5 dicembre 1997 (Determinazione dei requisiti acustici passivi degli edifici). In particolare, lo stesso giudice rileva che dalla lettura delle conclusioni del ricorso ex art. 702 bis cod. proc. civ. introduttivo del giudizio, si evince chiaramente che a fondamento della domanda i ricorrenti hanno inteso porre non già, genericamente, la violazione delle regole dell’arte nella costruzione degli edifici da parte del venditore-costruttore e dell’appaltatore, bensì, più specificamente, la violazione dei requisiti acustici passivi previsti dalla vigente normativa acustica e, segnatamente, dal richiamato d.P.C.M. 5 dicembre 1997.
Tale decreto, emanato in ottemperanza a quanto disposto dall’art. 3, comma 1, lettera e), della legge 26 ottobre 1995, n. 447 (Legge quadro sull’inquinamento acustico), determina i requisiti acustici passivi e quelli delle sorgenti sonore interne agli edifici, al fine di ridurre l’esposizione umana al rumore, e prescrive i limiti espressi in decibel che gli edifici costruiti dopo la sua entrata in vigore devono rispettare.
2.1.— Inoltre, il giudice remittente osserva che nella materia è intervenuta, dapprima, la direttiva 2002/49/CE, relativa alla determinazione e alla gestione del rumore ambientale, recepita con il decreto legislativo 19 agosto 2005, n. 194 (Attuazione della direttiva 2002/49/CE relativa alla determinazione e alla gestione del rumore ambientale), e, dopo la scadenza della delega prevista dall’art. 14 della legge 31 ottobre 2003, n. 306 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee. Legge comunitaria 2003), l’art. 11 della legge 7 luglio 2009, n. 88 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee. Legge comunitaria 2008), ha previsto una nuova delega al Governo, per integrare nell’ordinamento la direttiva citata e per assicurare l’omogeneità delle normative di settore mediante l’emanazione di uno o più decreti legislativi.
In riferimento ai requisiti acustici passivi degli edifici previsti dal d.P.C.M. 5 dicembre 1997, l’articolo 11, comma 5, della legge n. 88 del 2009, recante la delega al Governo per il riordino e la disciplina in materia di inquinamento acustico, prevedeva che «in attesa del riordino della materia, la disciplina relativa ai requisiti acustici passivi degli edifici e dei loro componenti di cui all’articolo 3, comma 1, lettera e), della legge 26 ottobre 1995, n. 447, non trova applicazione nei rapporti tra privati e, in particolare, nei rapporti tra costruttori-venditori e acquirenti di alloggi sorti successivamente alla data di entrata in vigore della presente legge». Successivamente, è intervenuta la norma impugnata.
2.2.— Ad avviso del giudice remittente, da quanto esposto emerge la rilevanza della questione sollevata, dal momento che la controversia «verte sulla responsabilità ex art. 1669 cod. civ. del venditore-costruttore e dell’appaltatore per violazione del d.P.C.M. 5 dicembre 1997», che la norma censurata ed entrata in vigore in pendenza di giudizio ha reso inapplicabile alla fattispecie in esame. Pertanto, secondo lo stesso giudice, la sua applicazione comporta che il mancato rispetto dei valori di isolamento acustico di cui al d.P.C.M. richiamato «non può costituire fonte di responsabilità per il venditore-costruttore nei confronti dell’acquirente, andando pertanto a incidere su tutte le situazioni pregresse confluite nei contratti di vendita degli immobili (come, appunto, quella in esame), tranne i casi in cui sia già intervenuta una sentenza definitiva che riconosca detta responsabilità e fatta salva comunque l’esecuzione a regola d’arte dei lavori».
3.— Passando ad esporre un primo profilo di illegittimità costituzionale, il giudice a quo afferma che il contenuto della «norma interpretata» è chiaro e non necessita di interpretazione, non ha dato adito a contrasti giurisprudenziali, e nessun dubbio è mai stato sollevato circa l’applicabilità del d.P.C.M. 5 dicembre 1997 ai rapporti tra privati acquirenti e costruttori di alloggi. In tal senso, si osserva che l’art. 11, comma 5 della legge n. 88 del 2009 – nella versione antecedente alla modifica apportata dalla norma impugnata – dichiarava pacificamente applicabile lo stesso decreto ai rapporti tra privati sorti antecedentemente alla sua entrata in vigore. Pertanto, la norma impugnata ha carattere innovativo, non assumendo alcun rilievo l’autoqualificazione di norma interpretativa.
In riferimento alla natura delle norme di interpretazione autentica, il giudice remittente richiama alcune pronunce della Corte costituzionale, tra le quali la sentenza n. 155 del 1990, che ha escluso il carattere interpretativo nel caso di una norma «che anziché chiarire il significato di una disciplina precedente ovvero privilegiarne una fra le più possibili interpretazioni, venga ad innovarne i1 contenuto». Inoltre, nell’ordinanza si ricorda che la Corte ha affermato che le norme interpretative debbono in ogni caso sottostare ai principi costituzionali, come ricordati dalla sentenza n. 525 del 2000, che ha statuito che «l’efficacia retroattiva della legge di interpretazione autentica è soggetta, tra gli altri, al limite del rispetto del principio dell’affidamento dei consociati nella certezza dell’ordinamento giuridico, principio che trova applicazione anche in materia processuale e che nel caso di specie deve ritenersi violato in conseguenza della non prevedibilità della soluzione interpretativa adottata dal legislatore, rispetto a quelle affermatesi nella prassi». Anche recentemente, la sentenza n. 234 del 2007 ha enunciato il principio per cui «nel rispetto del limite segnato dall’art. 25 Cost., il legislatore può emanare sia disposizioni di interpretazione autentica, che determinano – chiarendola – la portata precettiva della norma interpretata, fissandola in un contenuto plausibilmente già espresso della stessa, sia norme innovative con efficacia retroattiva, purché la retroattività trovi adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza e non contrasti con altri valori e interessi costituzionalmente protetti».
Il giudice a quo ribadisce che il contenuto «falsamente interpretativo», ma effettivamente innovativo della norma impugnata, oltre a incorrere in un vizio di eccesso di potere legislativo «conseguente all’uso deviato dello strumento dell’interpretazione autentica», viola gli artt. 3 e 24 Cost., oltre al principio di irretroattività della legge. Infine, il giudice riassume nel modo seguente le censure, affermando che la disposizione impugnata:
a) viola l’art. 3 della Costituzione, in quanto è suscettibile di produrre una ingiustificata disparità di trattamento tra coloro che hanno già conseguito, in via pattizia o giudiziaria, un risarcimento a fronte dell’acquisto di un immobile acusticamente viziato e coloro che, pur trovandosi nella stessa situazione, non possano, invece, più conseguirlo;
b) risulta affetta da eccesso di potere legislativo, non essendo fondata su di una adeguata causa giustificativa, risultando comunque priva di natura interpretativa e, «pur non abrogando il d.P.C.M. 5 dicembre 1997 nei rapporti pubblicistici (…) nello stesso tempo lo disapplica ai rapporti tra privati, con la conseguenza di non salvaguardare i diritti del cittadino che acquista l’unità abitativa e che è il vero destinatario degli effetti (…) che il d.P.C.M. 5 dicembre 1997 persegue»;
c) si presenta lesiva di vari principi di rilievo costituzionale, quali la tutela dell’affidamento legittimamente sorto nei soggetti interessati, la tutela della certezza dei rapporti giuridici e della coerenza dell’ordinamento giuridico;
d) viola l’art. 24 della Costituzione, in quanto limita irragionevolmente il diritto di difesa, non permettendo la relativa azione dei proprietari degli immobili compravenduti nei confronti dei soggetti responsabili della non corretta esecuzione delle opere;
e) lede le funzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario dagli artt. 101, 102, 104 Cost., dal momento che «la Corte Costituzionale ha ripetutamente affermato il principio secondo cui il legislatore vulnera le funzioni giurisdizionali quando la legge sia intenzionalmente diretta ad incidere su concrete fattispecie sub iudice», ribadito nelle sentenze n. 397 e n. 6 del 1994, n. 429, n. 424, n. 283 e n. 39 del 1993, n. 440 del 1992, n. 429 del 1991.
4.— Nel giudizio davanti alla Corte ha spiegato intervento l’Immobiliare Vittoria s.r.l., parte resistente nel giudizio a quo, per chiedere che la questione sollevata sia dichiarata inammissibile per difetto di rilevanza.
La parte costituita espone che il giudizio a quo è stato introdotto con ricorso ex art. 702 bis c.p.c., sul ritenuto presupposto che lo svolgimento del precedente procedimento di accertamento tecnico preventivo legittimasse la scelta a favore del rito a cognizione sommaria.
L’interveniente afferma che il procedimento di accertamento preventivo espletato definisce ed esaurisce l’oggetto del contenzioso come petitum e causa petendi. Nel relativo ricorso, i ricorrenti hanno esplicitato che l’unità immobiliare è stata a loro venduta dall’Immobiliare Vittoria s.r.l., ma è stata costruita da altro soggetto, la Della Valle e Lavelli s.n.c., ed affermano che l’unità immobiliare in questione non rispetterebbe uno dei parametri previsti dal d.P.C.M. 5 dicembre 1997, concernente l’isolamento da facciata di alcuni vani dell’unità immobiliare, ma riconoscono che rispetta tutti gli altri parametri, relativi ai rumori da calpestio e da servizi a funzionamento continuo e discontinuo.
In tale quadro, nell’atto di costituzione si osserva che il procuratore dell’attore nell’accertamento tecnico preventivo si è avvalso dell’unica delega rilasciatagli in calce all’atto, e da tale constatazione si ricava che sono riferibili alla parte sia la confessione della costruzione dell’unità immobiliare da parte della Della Valle e Lavelli s.n.c., e non dalla Immobiliare Vittoria s.r.l., sia la confessione del rispetto di tutti i parametri tranne quello dell’isolamento da facciata.
Pertanto il procuratore, in carenza di nuova delega, non poteva introdurre nel giudizio di cognizione il contenzioso su altri parametri, dal momento che i suoi mandanti nel procedimento di accertamento tecnico preventivo avevano confessato che detti parametri erano stati rispettati, e, sotto diverso profilo, l’ampliamento dell’oggetto del giudizio ad altri parametri era precluso allo stesso procuratore, in quanto provvisto dell’unica delega rilasciatagli per 1’accertamento tecnico preventivo, che contestava il mancato rispetto del solo parametro dell’isolamento da facciata. Inoltre, si afferma che nel giudizio civile in oggetto, petitum e causa petendi non possono essere ampliati d’ufficio dal giudice.
Nell’atto di costituzione si rileva anche che l’ordinanza di rimessione contiene due inesattezze nell’esposizione del fatto. In primo luogo, si riferisce al ricorso ex art. 702 bis c.p.c. proposto a seguito di procedimento ex art. 696 c.p.c., la prospettazione della partecipazione dell’Immobiliare Vittoria all’attività edificatoria, laddove l’affermazione che l’Immobiliare Vittoria «risulta … abbia preso parte all’attività edificatoria è contenuta nel ricorso ex art. 702 bis e contrasta nettamente con l’esclusione della partecipazione affermata nel precedente ricorso ex art. 696 c.p.c.».
Secondariamente, nell’ordinanza si riferisce l’eccezione di carenza di delega al difensore della comparente Immobiliare Vittoria s.r.l. alla domanda di risarcimento per danni diversi da quello del mancato rispetto del parametro di isolamento da facciata, mentre l’eccezione è riferita all’introduzione di petitum e causa petendi diversi da quelli introdotti nell’accertamento tecnico preventivo, in forza dell’unica delega in atti.
Sotto un ulteriore profilo, si contestano, nel merito, i risultati dell’indagine svolta nell’accertamento tecnico preventivo, in ordine al mancato rispetto di quell’unico indice dell’isolamento da facciata di cui si è detto, e si sostiene che nelle more vi sarebbe stata la sostituzione delle parti finestrate da parte degli attori. Pertanto, sarebbe precluso l’accertamento «nel giudizio di cognizione, se l’insufficiente isolamento da facciata sia imputabile al costruttore della muratura e/o al produttore e posatore dei serramenti e/o al progettista e direttore dei lavori o agli stessi ricorrenti/attori per negligenza nell’uso delle parti finestrate protrattosi per ben sei anni».
Ad avviso della parte costituita, questa mutazione dello stato dei luoghi operata dagli attori impedisce loro di provare in giudizio l’imputabilità a terzi dell’insufficiente isolamento da facciata.
4.1.— In prossimità dell’udienza, la parte costituita ha depositato memoria per ribadire l’inammissibilità della questione per difetto di rilevanza, a causa dell’assenza di prova sia dell’esistenza, che dell’imputabilità a terzi, del danno derivante dal preteso vizio acustico di insufficiente isolamento della facciata dell’immobile oggetto della compravendita.
Considerato in diritto
1.— Con l’ordinanza in epigrafe, il Tribunale di Busto Arsizio ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 101, 102 e 104 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’ art. 15, comma 1, lettera c), della legge 4 giugno 2010, n. 96 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità Europee. Legge comunitaria 2009), in quanto prevede che l’articolo 11, comma 5, della legge 7 luglio 2009, n. 88 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità Europee. Legge comunitaria 2008), sia sostituito dalla norma di interpretazione autentica secondo la quale, «In attesa dell’emanazione dei decreti legislativi di cui al comma 1, l’articolo 3, comma 1, lettera e), della legge 26 ottobre 1995, n. 447, si interpreta nel senso che la disciplina relativa ai requisiti acustici passivi degli edifici e dei loro componenti non trova applicazione nei rapporti tra privati e, in particolare, nei rapporti tra costruttori-venditori e acquirenti di alloggi, fermi gli effetti derivanti da pronunce giudiziali passate in giudicato e la corretta esecuzione dei lavori a regola d’arte asseverata da un tecnico abilitato».
2.— Al fine di chiarire il contesto normativo nel quale si inserisce la disposizione impugnata, giova premettere che l’art. 3, comma 1, lettera e), della legge 26 ottobre 1995, n. 447 (Legge quadro sull’inquinamento acustico), ha attribuito allo Stato la determinazione dei requisiti acustici passivi e di quelli delle sorgenti sonore degli edifici, rinviando la relativa disciplina ad apposito decreto del Presidente del Consiglio dei ministri. In ottemperanza a tale disposizione, è stato emanato il d.P.C.M. 5 dicembre 1997, che determina i suddetti requisiti, al fine di ridurre l’esposizione umana al rumore, e prescrive i limiti espressi in decibel che gli edifici costruiti dopo la sua entrata in vigore devono rispettare.
Nella materia in esame è poi intervenuta la direttiva 2002/49/CE, relativa alla determinazione e alla gestione del rumore ambientale, che è stata recepita con il decreto legislativo 19 agosto 2005, n. 194 (Attuazione della direttiva 2002/49/CE relativa alla determinazione e alla gestione del rumore ambientale), ed a seguito della scadenza della delega prevista dall’art. 14 della legge 31 ottobre 2003, n. 306 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee. Legge comunitaria 2003), l’art. 11 della legge 7 luglio 2009, n. 88 ha nuovamente delegato il Governo ad emanare uno o più decreti legislativi al fine di integrare nell’ordinamento la direttiva citata e di assicurare l’omogeneità delle normative di settore.
In particolare, il comma 5 dell’art. 11 della legge n. 88 del 2009 ha previsto che «in attesa del riordino della materia, la disciplina relativa ai requisiti acustici passivi degli edifici e dei loro componenti di cui all’articolo 3, comma 1, lettera e), della legge 26 ottobre 1995, n. 447, non trova applicazione nei rapporti tra privati e, in particolare, nei rapporti tra costruttori-venditori e acquirenti di alloggi sorti successivamente alla data di entrata in vigore della presente legge».
Infine, l’art. 15, comma 1, lettera c), impugnato, ha introdotto la norma interpretativa in questione.
3.— In primo luogo, deve essere scrutinata l’eccezione di inammissibilità prospettata dalla parte costituita Immobiliare Vittoria s.r.l., che, limitando la propria difesa a tale eccezione, ha affermato, da un lato, che il petitum e la causa petendi del giudizio dovevano ritenersi fissati dall’espletato accertamento tecnico preventivo – e pertanto la contestazione circa il rispetto dei parametri di cui al d.P.C.M. 5 dicembre 1997 doveva limitarsi al solo al grado di isolamento della “facciata finestrata” dell’edificio in questione –, e dall’altro, che in nessun caso sarebbe più ottenibile la prova dell’eventuale responsabilità della nominata società convenuta, dal momento che parte attrice aveva nel tempo mutato i luoghi, sostituendo i serramenti dello stesso immobile: pertanto, ad avviso della parte privata costituita nel presente giudizio, la questione sarebbe inammissibile in quanto irrilevante ai fini della definizione del giudizio a quo, che dovrebbe essere deciso sulla base delle ordinarie disposizioni sull’onere della prova, e nel quale non troverebbe applicazione la norma impugnata.
3.1.— Al riguardo, deve rilevarsi che questa Corte ha costantemente affermato che ad essa non spetta, nei giudizi di legittimità costituzionale sollevati in via incidentale, la valutazione circa i presupposti di esistenza del giudizio a quo, «a meno che questi non risultino manifestamente e incontrovertibilmente carenti», essendo sufficiente che «l’ordinanza di rimessione argomenti non implausibilmente la rilevanza della questione di legittimità costituzionale» (ex plurimis, sentenze n. 270 del 2010 e n. 41 del 2011; ordinanza n. 25 del 2012).
Ora, nell’ordinanza in esame, il giudice remittente ha rilevato che nell’atto introduttivo con il quale chiedevano il risarcimento dei danni ai sensi dell’art. 1669 cod. civ. per i gravi difetti rilevati nel bene immobile oggetto di compravendita, i ricorrenti non lamentavano la generica violazione delle regole d’arte nella costruzione degli edifici ma, più specificamente, chiedevano l’accertamento della violazione delle disposizioni relative ai requisiti acustici previste dal d.P.C.M. 2 dicembre 1997, emanato in attuazione dell’art. 3, comma 1, lettera e), della legge n. 447 del 1995, a tal fine chiedendo l’acquisizione del fascicolo relativo all’accertamento tecnico preventivo già espletato ai sensi dell’art. 696 bis cod. proc. civ.. Inoltre, nella medesima ordinanza, si procede ad una esauriente ricostruzione del quadro normativo alla base del decreto richiamato, come sopra riportata, evidenziando, in particolare, l’incidenza della norma interpretativa impugnata su quella applicabile nel giudizio in corso, mediante la previsione dell’effetto retroattivo all’art. 3, comma 1, lettera e), citato che esclude, fino all’emanazione dei decreti legislativi finalizzati ad integrare nell’ordinamento nazionale le norme comunitarie previste dalla direttiva 2002/49/CE, l’applicabilità delle norme relative ai requisiti acustici passivi degli edifici «nei rapporti tra privati e, in particolare, nei rapporti tra costruttori-venditori e acquirenti di alloggi».
Pertanto, deve ritenersi che il giudice, rilevando l’incidenza della disposizione impugnata sulle norme applicabili relative ai requisiti acustici nel giudizio a quo, abbia motivato in modo non implausibile sulla rilevanza della questione sollevata, restando invece a lui rimessa, in ragione dell’autonomia del giudizio costituzionale rispetto a quello a quo, la valutazione circa l’esistenza della prova offerta dalla parte in ordine alla violazione delle suddette norme acustiche.
Di conseguenza, l’eccezione di inammissibilità della questione prospettata dalla parte privata costituita deve essere rigettata.
4.— Nel merito, la questione è fondata.
Questa Corte ha ripetutamente affermato che il divieto di retroattività della legge, previsto dall’art. 11 delle disposizioni sulla legge in generale, pur costituendo valore fondamentale di civiltà giuridica, non riceve nell’ordinamento la tutela privilegiata di cui all’art. 25 Cost. (sentenze n. 78 e n. 15 del 2012, n. 236 del 2011, e n. 393 del 2006), e che «il legislatore – nel rispetto di tale previsione – può emanare norme retroattive, anche di interpretazione autentica, purché la retroattività trovi adeguata giustificazione nell’esigenza di tutelare principi, diritti e beni di rilievo costituzionale, che costituiscono altrettanti «motivi imperativi di interesse generale», ai sensi della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU). La norma che deriva dalla legge di interpretazione autentica, quindi, non può dirsi costituzionalmente illegittima qualora si limiti ad assegnare alla disposizione interpretata un significato già in essa contenuto, riconoscibile come una delle possibili letture del testo originario (ex plurimis: sentenze n. 271 e n. 257 del 2011, n. 209 del 2010 e n. 24 del 2009). In tal caso, infatti, la legge interpretativa ha lo scopo di chiarire «situazioni di oggettiva incertezza del dato normativo», in ragione di «un dibattito giurisprudenziale irrisolto» (sentenza n. 311 del 2009), o di «ristabilire un’interpretazione più aderente alla originaria volontà del legislatore» (ancora sentenza n. 311 del 2009), a tutela della certezza del diritto e dell’eguaglianza dei cittadini, cioè di principi di preminente interesse costituzionale. Accanto a tale caratteristica, questa Corte ha individuato una serie di limiti generali all’efficacia retroattiva delle leggi, attinenti alla salvaguardia, oltre che dei principi costituzionali, di altri fondamentali valori di civiltà giuridica, posti a tutela dei destinatari della norma e dello stesso ordinamento, tra i quali vanno ricompresi il rispetto del principio generale di ragionevolezza, che si riflette nel divieto di introdurre ingiustificate disparità di trattamento; la tutela dell’affidamento legittimamente sorto nei soggetti quale principio connaturato allo Stato di diritto; la coerenza e la certezza dell’ordinamento giuridico; il rispetto delle funzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario (sentenza n. 209 del 2010, citata, punto 5.1, del Considerato in diritto).
La norma impugnata nel presente giudizio travalica i limiti individuati dalla giurisprudenza della Corte ora richiamata.
Innanzitutto, seppure formulata quale norma di interpretazione autentica, essa non interviene ad assegnare alla disposizione interpretata un significato già in questa contenuto, «riconoscibile come una delle possibili letture del testo originario», al fine di chiarire «situazioni di oggettiva incertezza del dato normativo» in ragione di «un dibattito giurisprudenziale irrisolto» o di «ristabilire un’interpretazione più aderente alla originaria volontà del legislatore» a tutela della certezza del diritto e degli altri principi costituzionali richiamati.
La ricostruzione del quadro normativo nel quale si inserisce la disposizione censurata conferma questa conclusione. La norma “interpretata” [art. 3, comma 1, lettera e), della legge n. 447 del 1995] disciplina infatti la modalità di esercizio della competenza statale nella individuazione dei requisiti acustici degli edifici, regolando il procedimento per l’adozione del relativo d.P.C.M., ma non considera in alcun modo i riflessi di tali disposizioni nei rapporti tra privati. La successiva disposizione innovativa contenuta nell’art. 11, comma 5, della legge n. 88 del 2009, ha stabilito che «In attesa del riordino della materia, la disciplina relativa ai requisiti acustici passivi degli edifici e dei loro componenti di cui all’art. 3, comma 1, lettera e), della legge 26 ottobre 1995, n. 447, non trova applicazione nei rapporti tra privati e, in particolare, nei rapporti tra costruttori-venditori e acquirenti di alloggi sorti successivamente alla data di entrata in vigore della presente legge». Infine, la norma impugnata, sostituendo quest’ultima disposizione, è formulata quale norma interpretativa, ad effetto retroattivo, dell’art. 3, comma 1, lettera e), della legge n. 447 del 1995, che, come si è visto, attiene all’attribuzione della competenza statale nella materia, ma non riguarda i rapporti tra privati.
In particolare, questa Corte ha affermato che «per quanto attiene alle norme che pretendono di avere natura meramente interpretativa, la palese erroneità di tale auto-qualificazione, ove queste non si limitino ad assegnare alla disposizione interpretata un significato già in essa contenuto e riconoscibile come una delle possibili letture del testo originario, potrà costituire un indice di manifesta irragionevolezza» (ex plurimis, sentenze n. 41 del 2011, n. 234 del 2007, n. 274 del 2006).
In secondo luogo, la retroattività della disposizione impugnata non trova giustificazione nella tutela di «principi, diritti e beni di rilievo costituzionale, che costituiscono altrettanti “motivi imperativi di interesse generale”, ai sensi della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU)».
Una tale finalità della disposizione censurata non emerge né dai lavori parlamentari, né dal suo intrinseco contenuto normativo. Tale contenuto viene ad incidere su rapporti ancora in corso, vanificando il legittimo affidamento di coloro che hanno acquistato beni immobili nel periodo nel quale vigeva ancora la norma “sostituita”, di cui all’art. 11, comma 5, della legge n. 88 del 2009, che, a tutela di tale affidamento e della certezza del diritto, specificava che la sospensione dell’applicazione nei rapporti tra privati delle norme sull’inquinamento acustico degli edifici valesse per il futuro, in riferimento agli «alloggi sorti successivamente alla data di entrata in vigore della presente legge».
Al contrario, la norma impugnata, oltre a ledere il legittimo affidamento sorto nei soggetti suddetti, contrasta con il principio di ragionevolezza, in quanto produce disparità di trattamento tra gli acquirenti di immobili in assenza di alcuna giustificazione, e favorisce una parte a scapito dell’altra, incidendo retroattivamente sull’obbligo dei privati, in particolare dei costruttori-venditori, di rispettare i requisiti acustici degli edifici stabiliti dal d.P.C.M. 2 dicembre 1997, di attuazione dell’art. 3, comma 1, lettera e), della legge n. 447 del 1995.
Di conseguenza la questione sollevata è fondata, e la norma censurata deve essere dichiarata costituzionalmente illegittima, a causa della violazione dell’art. 3 Cost., restando assorbite le censure prospettate in riferimento agli altri parametri costituzionali invocati.
per questi motivi
La Corte Costituzionale
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 15, comma 1, lettera c), della legge 4 giugno 2010, n. 96 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità Europee. Legge comunitaria 2009), sostitutivo dell’art. 11, comma 5, della legge 7 luglio 2009, n. 88 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità Europee. Legge comunitaria 2008).
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 maggio 2013.