Sentenza della Corte costituzionale 2 luglio 2012, n. 172

Pubblicato in:

G.U. 11 luglio 2012, n. 28

E’ fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 ter, 13° co., lett. c, del d.l. 1 luglio 2009, n. 78 (inserito dalla l. 3 agosto 2009, n. 102), nella parte in cui comporta automaticamente il rigetto dell’istanza di regolarizzazione – e quindi l’espulsione dal territorio nazionale – dello straniero lavoratore extracomunitario nei cui confronti sia stata pronunciata una sentenza di condanna per uno dei reati elencati all’art. 381 c.p.p., di non manifesta pericolosità sociale e per i quali non è obbligatorio l’arresto in flagranza. La norma contrasta infatti con gli artt. 3, 27 e 117, 1° co., Cost. in relazione agli  artt. 6 e 8 della CEDU.

Sentenza

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’articolo 1-ter, comma 13 (recte: articolo 1-ter, comma 13, lettera c), del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78 (Provvedimenti anticrisi, nonché proroga di termini), introdotto dalla legge di conversione 3 agosto 2009, n. 102, promossi dal Tribunale amministrativo regionale per le Marche con ordinanza dell’8 luglio 2011 e dal Tribunale amministrativo regionale per la Calabria, sezione staccata di Reggio Calabria, con ordinanza del 13 ottobre 2011, iscritte ai nn. 22 e 26 del registro ordinanze 2012 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 9 e 10, prima serie speciale, dell’anno 2012.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 6 giugno 2012 il Giudice relatore Giuseppe Tesauro.

Ritenuto in fatto

1.— Il Tribunale amministrativo regionale per le Marche ed il Tribunale amministrativo regionale per la Calabria, con ordinanze dell’8 luglio e del 13 ottobre 2011, hanno sollevato, rispettivamente, in riferimento all’articolo 3 della Costituzione ed agli articoli 3, 27 e 117, primo comma, della Costituzione ed in relazione agli articoli 6 ed 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (d’ora in avanti: CEDU), ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 1-ter, comma 13 (recte: articolo 1-ter, comma 13, lettera c), del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78 (Provvedimenti anticrisi, nonché proroga di termini), introdotto dalla legge di conversione 3 agosto 2009, n. 102, il quale dispone che non possono essere ammessi alla procedura di emersione prevista da detta disposizione i lavoratori extracomunitari che risultino condannati per uno dei reati previsti dagli articoli 380 e 381 del codice di procedura penale.

2.— L’ordinanza di rimessione del TAR per le Marche premette che, nel giudizio principale, il ricorrente, cittadino del Senegal, ha impugnato il provvedimento con il quale «il competente Sportello Unico per l’immigrazione di Ancona, recependo il parere negativo espresso dalla locale Questura, ha respinto la dichiarazione c.d. di emersione» presentata ai sensi del citato art. 1-ter dal datore di lavoro del predetto, in quanto egli è stato condannato, con sentenza definitiva, alla pena di mesi 8 e giorni 20 di reclusione ed € 2.200,00 di multa per il reato previsto e punito dall’articolo 171-ter, comma 2, della legge 22 aprile 1941, n. 633 (Protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio), per avere commercializzato 52 CD e 24 DVD privi del marchio SIAE, nonché prodotti con marchi contraffatti. Tale reato, compreso fra quelli di cui all’art. 381 del codice di procedura penale, in virtù della previsione contenuta nella norma censurata, impedisce, infatti, l’ammissione alla procedura di emersione.

Il giudice a quo dubita, tuttavia, della legittimità costituzionale del richiamato art. 1-ter, comma 13, lettera c), «nella parte in cui esclude automaticamente l’accesso alla c.d. sanatoria in presenza di condanne, anche non definitive, per i reati di cui agli artt. 380 e 381 c.p.p., senza prevedere una valutazione della concreta pericolosità sociale del lavoratore extracomunitario di cui è chiesta la regolarizzazione», ritenendo detta questione rilevante, poiché, «vigente la norma nella sua attuale formulazione, il ricorso dovrebbe essere rigettato».

A suo avviso, contrasterebbe con i «principi di ragionevolezza e proporzionalità che la medesima, grave, conseguenza della non ammissione alla procedura di emersione (che, merita sottolinearlo, vale a rendere regolari soggetti che già vivono da tempo e lavorano nel territorio dello Stato in condizioni di precarietà) colpisca, allo stesso modo, gli stranieri che hanno compiuto reati di rilevante gravità, e che generano allarme sociale, e coloro che – al pari del ricorrente – siano incorsi in una sola azione disdicevole, di scarsissimo rilievo penale, dovuta ad un oggettivo stato di bisogno e di disperazione, e che abbiano successivamente seguito un percorso di riabilitazione, e, avendo compreso il disvalore del proprio operato, abbiano in prosieguo tenuto una condotta di vita esente da mende». Inoltre, la norma violerebbe il principio di parità di trattamento (art. 3 Cost.), poiché assoggetta ad una stessa disciplina coloro i quali si sono resi colpevoli di azioni di rilevanza penale, «profondamente diverse per gravità e intensità del dolo».

Il rimettente deduce che questioni analoghe a quella in esame sono state dichiarate inammissibili o non fondate, sia pure in riferimento ai casi dell’automatismo del diniego di rinnovo del permesso di soggiorno, in ipotesi di commissione di reati particolarmente gravi (sentenza n. 148 del 2008). Nondimeno, sostiene che talora (sentenza n. 180 del 2008) detta conclusione sarebbe stata giustificata dal fatto che «la giurisprudenza (in alcuni casi) aveva fornito un’interpretazione più “morbida” della norma»; talaltra, lo stesso legislatore ha mitigato l’iniziale rigore della disciplina, prevedendo, con successive disposizioni, che, per i soggetti che hanno fatto ingresso nel nostro Paese per ricongiungersi con i familiari e/o per i soggiornanti di lungo periodo, «l’Amministrazione non potesse respingere l’istanza di rinnovo del permesso di soggiorno per la sola preesistenza di una condanna, ma dovesse valutare altri ed ulteriori elementi».

Pertanto, secondo il giudice a quo, sarebbe possibile ritenere che «il sistema rifiuti ogni automatismo, idoneo a generare ingiustizie e disparità», in contrasto con i principi di ragionevolezza, parità di trattamento e proporzionalità, che sarebbero lesi dalla norma censurata, poiché non consente «all’Amministrazione che istruisce il procedimento [di] valutare la gravità del reato, l’allarme sociale che lo stesso ha procurato, la condotta successiva tenuta dal soggetto», e, quindi, «la attuale pericolosità di colui per il quale è chiesta la regolarizzazione».

Infine, conclude il TAR per le Marche, il ricorrente è stato «condannato – nel 2009 – per avere venduto supporti audio e video privi del marchio SIAE oltre a merce con marchio contraffatto, ossia per un reato che ordinariamente non è suscettibile di creare particolare allarme sociale». Dunque, non potrebbe essere escluso «che, laddove la legge consentisse una valutazione caso per caso della concreta pericolosità sociale, la competente Amministrazione avrebbe potuto pervenire ad una diversa conclusione del procedimento, previo accertamento dell’insussistenza di altre cause preclusive alla c.d. emersione».

3.— L’ordinanza di rimessione del TAR per la Calabria premette che S.G., in data 4 ottobre 2010, in esito ad un’istanza di regolarizzazione della posizione lavorativa (definita dal citato art. 1-ter, comma 3, «dichiarazione di emersione») presentata dal datore di lavoro, otteneva il permesso di soggiorno. In data 20 maggio 2011 la Prefettura di Reggio Calabria disponeva, però, l’archiviazione di detta domanda e la revoca del permesso di soggiorno, poiché era stato accertato che egli, sotto le diverse generalità di S.G., era stato condannato con sentenza del Tribunale ordinario di Reggio Calabria, per il reato di cui all’art. 582 del codice penale, il quale, in virtù della norma censurata, impedisce detta regolarizzazione. Il ricorrente, cittadino indiano, ha, quindi, impugnato il decreto di «rigetto della domanda di emersione dal lavoro irregolare» presentata dal datore di lavoro, il provvedimento di revoca del permesso di soggiorno ed ogni altro atto presupposto, deducendo di avere proposto appello avverso detta sentenza, per le ragioni di cui ha dato conto nel processo principale.

Secondo il TAR, il ricorso dovrebbe essere rigettato, ma potrebbe essere accolto, qualora il citato art. 1-ter, comma 13, lettera c), fosse dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui attribuisce rilievo ostativo alla regolarizzazione alla sentenza di condanna non passata in giudicato e sostiene che, non potendo essere offerta un’interpretazione costituzionalmente orientata di tale norma, la questione di legittimità costituzionale sarebbe rilevante. Il giudice a quo espone, inoltre, di avere accolto la domanda cautelare, ordinando la sospensione dell’efficacia dell’atto impugnato sino alla decisione della questione di legittimità costituzionale.

3.1.— La norma censurata, ad avviso del rimettente, violerebbe anzitutto gli artt. 3 e 27 Cost. La regolamentazione dell’ingresso e del soggiorno dello straniero nel territorio nazionale, secondo la giurisprudenza di questa Corte, richiede il bilanciamento di molteplici interessi, riservato al legislatore ordinario, ferma l’esigenza che le scelte da questi realizzate non siano manifestamente irragionevoli. La sentenza n. 78 del 2005 ha, quindi, dichiarato costituzionalmente illegittimi l’art. 33, comma 7, lettera c), della legge 30 luglio 2002, n. 189 (Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo), e l’art. 1, comma 8, lettera c), del decreto-legge 9 settembre 2002, n. 195 (Disposizioni urgenti in materia di legalizzazione del lavoro irregolare di extracomunitari), convertito, con modificazioni, dalla legge 9 ottobre 2002, n. 222, nella parte in cui facevano derivare automaticamente il rigetto dell’istanza di regolarizzazione dalla presentazione di una denuncia per uno dei reati indicati dagli artt. 380 e 381 cod. proc. pen., affermando che la mera denuncia nulla prova riguardo alla colpevolezza o alla pericolosità del denunciato, ma solo obbliga le autorità competenti ad accertare se sussistano le condizioni per l’inizio di un procedimento penale.

La sentenza n. 148 del 2008 ha, invece, dichiarato non fondata la questione avente ad oggetto il combinato disposto degli artt. 4, comma 3, e 5, comma 5, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), nella parte in cui prevede quale causa ostativa al rinnovo del permesso di soggiorno la condanna definitiva a seguito di patteggiamento, per reati inerenti agli stupefacenti, senza alcuna valutazione in concreto della pericolosità del condannato e senza attribuire rilievo alla sussistenza delle condizioni per la concessione del beneficio della sospensione della pena.

Ad avviso del giudice a quo, dette pronunce non potrebbero essere richiamate in relazione alla norma censurata, poiché questa attribuisce rilevanza ostativa alla regolarizzazione anche ad una sentenza di condanna non definitiva e, quindi, disciplina «una fattispecie, in un certo senso, a metà strada tra le due già vagliate dalla Corte costituzionale». Da dette pronunce sarebbe, tuttavia, desumibile il principio secondo il quale «la compatibilità costituzionale della scelta legislativa sussiste esclusivamente se quest’ultima è predicativa di pericolosità o colpevolezza in relazione a reati considerati gravi, essendo solo in siffatti casi ragionevolmente prefigurabile l’espulsione». Pertanto, in difetto di una sentenza definitiva di condanna, la pericolosità sociale non potrebbe essere presunta, ma dovrebbe costituire frutto di «una valutazione prognostica basata su dati concreti e significativi circa la specifica potenzialità di reiterazione del comportamento delittuoso, oltre che sul fumus commissi delicti».

Ad avviso del TAR, «se la ragione che ha indotto il legislatore a determinarsi per l’ostatività, anche in presenza di un accertamento non definitivo, è la sussistenza della colpevolezza in ordine alla commissione di un reato considerato grave, allora la violazione dell’art. 27 della Cost. (…) è del tutto manifesta», poiché, in virtù di tale parametro, nessuna «sanzione, penale o amministrativa basata sulla colpevolezza» potrebbe essere irrogata in difetto «della definitività dell’accertamento giudiziario». Diversamente, «ove invece, come il Collegio ritiene, il disposto normativo intenda sorreggersi su una valutazione implicita di pericolosità derivante dal fumus di colpevolezza rappresentato dalla sentenza di condanna non definitiva, è l’art. 3 della Costituzione ed il principio di ragionevolezza ad essere violato». Siffatto fumus, rilevante ai fini cautelari, non potrebbe «giustificare sanzioni definitive», lesive dei diritti fondamentali riconosciuti dall’art. 2 Cost., che privano il lavoratore extracomunitario «del lavoro e delle relazioni familiari», in difetto dell’accertamento definitivo della colpevolezza, «senza il preliminare vaglio dell’autorità giudiziaria in ordine alla pericolosità specifica dell’imputato o, comunque, senza una previa valutazione amministrativa circa l’effettiva pericolosità» dello straniero, «avuto riguardo alla natura e gravità dei fatti contestati ed all’andamento della sua vita pregressa e postuma del medesimo».

In definitiva, la norma, «determinando automaticamente l’espulsione a titolo definitivo» dello straniero «condannato con sentenza non ancora passata in giudicato per reati che potrebbero in concreto finanche essere insufficienti a legittimare un arresto in flagranza», avrebbe accolto un concetto di pericolosità che non ragionevolmente prescinde dall’accertamento definitivo della colpevolezza.

3.2.— Secondo il giudice a quo, la norma in esame violerebbe anche l’art. 117, primo comma, Cost. in relazione all’art. 8 della CEDU.

La Corte europea dei diritti dell’uomo (infra, anche Corte EDU) ha riconosciuto il potere degli Stati di controllare l’ingresso dello straniero nel proprio territorio e di espellerlo, a tutela dell’ordine pubblico interno, qualora commetta un delitto (Grande Camera, sentenza del 18 ottobre 2006, Üner c. Paesi Bassi), ma ha precisato che tale misura deve essere «giustificata da un bisogno sociale imperativo» e dalla proporzionalità della stessa rispetto allo scopo perseguito» (sentenze del 19 febbraio 1998, Dalia c. Francia; 9 ottobre 2003, Slivenko c. Lettonia; 23 giugno 2008, Maslov c. Austria) e, quindi, soltanto ragioni peculiarmente rilevanti, quali appunto la gravità del reato commesso, potrebbero legittimare il rifiuto del rilascio di un titolo di soggiorno.

Ad avviso del rimettente, il citato art. 1-ter, comma 13, lettera c), attribuisce, invece, efficacia ostativa a tutti i reati previsti dall’art. 381 cod. proc. pen., benché essi, in considerazione dell’eventuale, particolare, tenuità del fatto in concreto commesso, possano «esprimere un così basso grado di allarme sociale da inibire persino l’arresto in flagranza». Inoltre, qualora il reato non sia stato accertato con sentenza definitiva, i dubbi in ordine alla sussistenza della «condizione di necessarietà alla luce del citato criterio di proporzionalità, diventano numerosi e consistenti».

Secondo il TAR, la Corte EDU richiede, poi, che la «valutazione della gravità ai fini della necessarietà deve essere fatta in concreto» (sentenza del 2 agosto 2001, Boultif c. Svizzera) e che la misura dell’espulsione sia proporzionata al suo scopo ed ha anche indicato gli elementi rilevanti a detto fine. Siffatti elementi non sarebbero stati, invece, presi in considerazione dal legislatore italiano, il quale ha previsto «un automatismo espulsivo prescindendo dalla gravità in concreto del reato, dalla personalità del reo e dalla sua condizione socio-economica e familiare», ricollegandolo, peraltro, «ad un accertamento non definitivo, obliterando il principio generale di non colpevolezza comune agli Stati contraenti».

3.3.— La norma in esame violerebbe, infine, l’art. 6 della CEDU, il quale stabilisce garanzie concernenti anche gli stranieri extracomunitari e, quindi, lo Stato incontra limiti nell’esercizio del potere di vietarne l’ingresso o la permanenza sul proprio territorio, in ragione della salvaguardia del diritto degli stessi a partecipare personalmente ai processi nei quali risultano imputati (Corte EDU, Grande Camera, sentenza del 1° marzo 2006, Sejdovic c. Italia; sentenza 8 febbraio 2007, Kollcaku c. Italia).

Ad avviso del rimettente, la disposizione censurata comporterebbe l’espulsione dello straniero, in pendenza del processo di appello promosso dallo stesso, per accertare la sua innocenza e, benché l’art. 17 (recte: art. 15) della legge 6 marzo 1998, n. 40 (Disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), consenta allo straniero sottoposto a procedimento penale di rientrare in Italia per il tempo strettamente necessario per l’esercizio del diritto di difesa, l’espulsione dallo Stato potrebbe, comunque, costituire fattore di notevole ostacolo all’effettiva partecipazione al processo, non riconducibile al comportamento dell’espulso, tenuto conto della presunzione di non colpevolezza.

In definitiva, secondo il TAR, il citato art. 1-ter, comma 13, lettera c), sarebbe costituzionalmente illegittimo «nella parte in cui dispone che non possono essere ammessi alla procedura di emersione tutti coloro che risultino condannati, anche con sentenza non definitiva, per uno dei reati previsti dagli articoli 380 e 381 del codice di procedura penale, senza consentire all’amministrazione alcuna valutazione in ordine alle circostanze soggettive ed oggettive del caso concreto ed alla pericolosità» attuale dello straniero.

4.— In entrambi i giudizi davanti a questa Corte è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili e, comunque, infondate.

Secondo l’interveniente, la questione sollevata dal TAR per le Marche sarebbe inammissibile, in quanto questa Corte avrebbe dichiarato inammissibili questioni analoghe (sentenza n. 206 del 2007 – recte: n. 206 del 2006 –; ordinanze n. 126 del 2005, n. 44 del 2006 – recte: n. 44 del 2007 – e n. 218 del 2007), affermando che la disciplina dell’ingresso e del soggiorno degli stranieri richiede la ponderazione di una pluralità di interessi, riservata all’ampia discrezionalità del legislatore ordinario (sentenza n. 62 del 1994). Siffatte pronunce, a suo avviso, comporterebbero l’inammissibilità della questione per difetto di motivazione sulla rilevanza, poiché il rimettente avrebbe indicato in modo generico ed apodittico, senza nessun riferimento alla fattispecie sottoposta al suo esame, gli elementi che la differenzierebbero da quelle già decise da queste Corte. Inoltre, il TAR neppure avrebbe «esplorato la possibilità di pervenire a un’interpretazione delle norme impugnate conforme a Costituzione».

4.1.— Nel merito, ad avviso dell’Avvocatura generale, la questione sarebbe infondata.

La valutazione della pericolosità sociale del lavoratore extracomunitario dovrebbe essere «garantita solo per l’espulsione come misura di sicurezza», costituendo il c.d. automatismo espulsivo «il riflesso del principio di stretta legalità che permea l’intera disciplina dell’immigrazione e che costituisce anche per gli stranieri presidio ineliminabile dei loro diritti, consentendo di scongiurare possibili arbitri da parte dell’autorità amministrativa» (sentenza n. 129 del 1995, ordinanza n. 146 del 2002). La scelta realizzata con la norma censurata non sarebbe, quindi, manifestamente irragionevole e neppure determinerebbe una disparità di trattamento, mentre la sentenza n. 78 del 2005 avrebbe censurato la disciplina che prevedeva il rigetto dell’istanza di regolarizzazione del lavoratore extracomunitario nel caso di denuncia del lavoratore extracomunitario per uno dei reati di cui agli articoli 380 e 381 cod. proc. pen., esclusivamente in quanto la denuncia «è atto che nulla prova riguardo alla colpevolezza o alla pericolosità» del denunciato. La disposizione in esame stabilisce, invece, che l’emersione dal lavoro irregolare è impedita non dalla mera denuncia, bensì da una sentenza penale che «costituisce adeguata e ragionevole “prova riguardo alla colpevolezza e pericolosità del soggetto indicato come autore degli atti che il denunciante riferisce”», con conseguente infondatezza delle censure proposte dal TAR per le Marche.

4.2.— In relazione alla questione sollevata dal TAR per la Calabria, l’interveniente deduce che la norma censurata prevede quale ragione ostativa della regolarizzazione la pronuncia di una sentenza di condanna, non la mera denuncia, in coerenza con la giurisprudenza costituzionale, secondo la quale la condanna per un delitto punito con pena detentiva può assumere rilievo ostativo ai fini dell’accettazione dello straniero nel territorio dello Stato. Inoltre, la sentenza n. 78 del 2005 di questa Corte permetterebbe di ritenere che, se la mera denuncia è inidonea ad impedire la regolarizzazione, a diversa conclusione potrebbe pervenirsi in presenza di una sentenza di condanna di primo grado, che implica una valutazione di merito da parte dell’autorità giudiziaria.

Infine, il citato art. 1-ter, comma 13, lettera c), secondo l’Avvocatura generale, non avrebbe neppure carattere innovativo, poiché l’art. 4, comma 3, del d.lgs. n. 286 del 1998 stabilisce che tutte le sentenze di condanna, anche non definitive, impediscono il rilascio del permesso di soggiorno e, quindi, non introdurrebbe un elemento discriminatorio ed irragionevole nella disciplina dell’immigrazione.

Considerato in diritto

1.— Il Tribunale amministrativo regionale per le Marche ed il Tribunale amministrativo regionale per la Calabria dubitano, rispettivamente, in riferimento all’articolo 3 della Costituzione ed agli articoli 3, 27 e 117, primo comma, della Costituzione ed in relazione agli articoli 6 ed 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (infra: CEDU), ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, della legittimità costituzionale dell’articolo 1-ter, comma 13 (recte: articolo 1-ter, comma 13, lettera c), del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78 (Provvedimenti anticrisi, nonché proroga di termini), introdotto dalla legge di conversione 3 agosto 2009, n. 102.

2.— I giudizi hanno ad oggetto la stessa norma, censurata in riferimento a parametri costituzionali, per profili e con argomentazioni in parte coincidenti, e, quindi, vanno riuniti, per essere decisi con un’unica sentenza.

3.— L’art. 1-ter del d.l. n. 78 del 2009, introdotto dalla legge di conversione n. 102 del 2009, disciplina, per quanto qui interessa, la regolarizzazione della posizione lavorativa dei lavoratori extracomunitari (definita «emersione») i quali, alla data del 30 giugno 2009, svolgevano attività di assistenza in favore del datore di lavoro o di componenti della famiglia del predetto, ancorché non conviventi, affetti da patologie o handicap che ne limitano l’autosufficienza, ovvero espletavano attività di lavoro domestico di sostegno al bisogno familiare.

Il comma 13, lettera c), di detta disposizione stabilisce che non possono ottenere detta regolarizzazione i lavoratori extracomunitari «che risultino condannati, anche con sentenza non definitiva, (…) per uno dei reati previsti dagli articoli 380 e 381» del codice di procedura penale. Secondo il TAR per le Marche, tale norma violerebbe l’art. 3 Cost. anzitutto in quanto assoggetta ad una stessa disciplina coloro i quali si sono resi colpevoli di azioni di rilevanza penale «profondamente diverse per gravità e intensità del dolo», non permettendo «all’Amministrazione che istruisce il procedimento [di] valutare la gravità del reato, l’allarme sociale che lo stesso ha procurato, la condotta successiva tenuta dal soggetto», e, quindi, «la attuale pericolosità di colui per il quale è chiesta la regolarizzazione». Inoltre, essa recherebbe vulnus a detto parametro costituzionale, poiché, in violazione dei principi di ragionevolezza e proporzionalità, non consente di ammettere alla procedura di emersione sia i lavoratori extracomunitari colpevoli di reati di rilevante gravità, che generano allarme sociale, sia quelli di essi «che – al pari del ricorrente – siano incorsi in una sola azione disdicevole, di scarsissimo rilievo penale, dovuta ad un oggettivo stato di bisogno e di disperazione, e che abbiano successivamente seguito un percorso di riabilitazione, e, avendo compreso il disvalore del proprio operato, abbiano in prosieguo tenuto una condotta di vita esente da mende».

Detta disposizione, ad avviso del TAR per la Calabria, si porrebbe in contrasto con l’art. 3 Cost., nella parte in cui dispone il diniego automatico della regolarizzazione anche nel caso di condanna irrogata con sentenza non definitiva, in virtù di «una valutazione implicita di pericolosità derivante dal mero fumus di colpevolezza», in riferimento ai reati previsti dall’art. 381 cod. proc. pen., i quali, tuttavia, «potrebbero esprimere un così basso grado di allarme sociale da inibire persino l’arresto in flagranza». Tale fumus, secondo il rimettente, non giustificherebbe un automatismo che, in violazione del principio di ragionevolezza e degli altri parametri costituzionali sopra indicati, incide sui diritti fondamentali del lavoratore extracomunitario e lo priva «del lavoro e delle relazioni familiari», in difetto dell’accertamento definitivo della penale responsabilità del predetto e di una previa valutazione in ordine all’effettiva pericolosità del medesimo, avuto riguardo «alla natura e gravità dei fatti contestati ed all’andamento della sua vita pregressa e postuma».

4.— Preliminarmente, va osservato che il TAR per la Calabria ha accolto la domanda cautelare, disponendo la sospensione del provvedimento impugnato sino all’esito della decisione della questione di legittimità costituzionale e, quindi, non ha esaurito la propria potestas iudicandi, con la conseguenza che, sotto questo profilo, la questione è ammissibile (tra le più recenti, ordinanza n. 307 del 2011).

5.— L’eccezione di inammissibilità per difetto di motivazione in ordine alla rilevanza della questione sollevata dal TAR per le Marche, proposta dall’Avvocatura generale sul rilievo che il rimettente non avrebbe indicato gli elementi che differenzierebbero la fattispecie in esame da quelle oggetto di questioni analoghe, non accolte da questa Corte, non è fondata. Indipendentemente da ogni considerazione concernente la pertinenza dei precedenti richiamati dall’interveniente, la mancata, specifica valutazione di questi ultimi e di argomenti eventualmente già svolti da questa Corte non può, infatti, influire sulla rilevanza della sollevata questione, che è stata plausibilmente motivata dal giudice a quo.

Del pari non fondata è l’ulteriore eccezione di inammissibilità formulata, sostenendo che detto rimettente non avrebbe verificato la possibilità di un’interpretazione della norma censurata conforme a Costituzione, poiché il TAR ha implicitamente, ma chiaramente indicato gli argomenti che, tenuto conto della chiara formulazione lessicale del citato art. 1-ter, comma 13, lettera c), impediscono una tale esegesi.

6.— In linea ancora preliminare, occorre precisare che le questioni di legittimità costituzionale sono rilevanti limitatamente alla parte della norma in esame che non consente di ammettere alla procedura di emersione il lavoratore extracomunitario condannato – con sentenza definitiva, secondo il TAR per le Marche, ovvero anche con sentenza non definitiva, ad avviso del TAR per la Calabria – per uno dei reati previsti dall’art. 381 cod. proc. pen.

Infatti, i ricorrenti nei giudizi principali non hanno ottenuto la regolarizzazione della propria posizione lavorativa, in quanto hanno riportato condanna, ciascuno, per uno dei reati contemplati da quest’ultima norma. Inoltre, entrambi i rimettenti denunciano la violazione dell’art. 3 Cost., sostenendo, sia pure con argomentazioni solo in parte coincidenti, che l’automatismo del diniego della regolarizzazione sarebbe manifestamente irragionevole, anche perché correlato alla condanna per uno di detti reati, benché non siano di rilevante gravità e tali da suscitare particolare allarme sociale, tenuto conto che per essi è previsto come facoltativo l’arresto in flagranza.

7.— Nel merito, la questione è fondata con riferimento all’art. 3 Cost., nei termini di seguito precisati.

7.1.— La regolamentazione dell’ingresso e del soggiorno dello straniero nel territorio nazionale, secondo la giurisprudenza costituzionale, è collegata al bilanciamento di molteplici interessi pubblici, che spetta in via primaria al legislatore ordinario, il quale possiede in materia un’ampia discrezionalità (sentenze n. 206 del 2006 e n. 62 del 1994). In essa rientrano la fissazione dei requisiti necessari per le autorizzazioni che consentono ai cittadini extracomunitari di trattenersi e lavorare nel territorio della Repubblica (sent. n. 78 del 2005) ed il c.d. automatismo che caratterizza taluni profili della disciplina del rilascio o del rinnovo del permesso di soggiorno (sentenza n. 148 del 2008), oppure dell’espulsione (ordinanze n. 463 del 2005, n. 146 del 2002) e che, per alcuni aspetti, connotava anche la legalizzazione del lavoro irregolare dei predetti, stabilita dalla disciplina anteriore a quella fissata dalla norma censurata (sentenza n. 206 del 2006; ordinanze n. 218 del 2007, n. 44 del 2007), ferma l’esigenza di uno specifico giudizio di pericolosità sociale, nel caso in cui l’espulsione dal territorio nazionale sia disposta come misura di sicurezza (sentenze n. 148 del 2008, n. 58 del 1995). In particolare, siffatto automatismo costituisce «un riflesso del principio di stretta legalità che permea l’intera disciplina dell’immigrazione» ed è «anche per gli stranieri, presidio ineliminabile dei loro diritti, consentendo di scongiurare possibili arbitri da parte dell’autorità amministrativa» (tra le molte, sentenza n. 148 del 2008; ordinanza n. 146 del 2002).

L’esercizio di tale discrezionalità, come pure è stato più volte ribadito, incontra, tuttavia, i limiti segnati dai precetti costituzionali e, per essere in armonia con l’art. 3 Cost., occorre che sia conforme a criteri di intrinseca ragionevolezza (sentenze n. 206 del 2006 e n. 62 del 1994). Questa Corte ha, quindi, escluso che violi tale parametro costituzionale la previsione del diniego della regolarizzazione del lavoratore extracomunitario conseguente alla pronuncia di un provvedimento di espulsione da eseguire mediante accompagnamento alla frontiera, ma ha espressamente valorizzato a detto fine la peculiare rilevanza di tale provvedimento, in quanto «non era correlato a lievi irregolarità amministrative ma alla situazione di coloro che avessero già dimostrato la pervicace volontà di rimanere in Italia in una posizione di irregolarità tale da sottrarli ad ogni normale controllo o di coloro che tale volontà lasciassero presumere all’esito di una valutazione dei singoli casi condotta sulla base di specifici elementi» (sentenza n. 206 del 2006; ordinanze n. 44 del 2007, n. 218 del 2007). Analogamente, ha giudicato non in contrasto con l’art. 3 Cost., l’automatismo del rifiuto del rilascio o rinnovo del permesso di soggiorno, qualora lo straniero extracomunitario abbia riportato una condanna per un reato inerente agli stupefacenti, ma avendo cura di sottolineare la non manifesta irragionevolezza di tale previsione anche perché detta ipotesi delittuosa, tra l’altro, spesso implica «contatti, a diversi livelli, con appartenenti ad organizzazioni criminali» (sentenza n. 148 del 2008).

L’inesistenza di un’incompatibilità, in linea di principio, del citato automatismo con l’art. 3 Cost. non implica, quindi, che le fattispecie nelle quali esso è previsto siano sottratte al controllo di non manifesta arbitrarietà. Il legislatore può, pertanto, subordinare la regolarizzazione del rapporto di lavoro al fatto che la permanenza nel territorio dello Stato non sia di pregiudizio ad alcuno degli interessi coinvolti dalla disciplina dell’immigrazione, ma la relativa scelta deve costituire il risultato di un ragionevole e proporzionato bilanciamento degli stessi, soprattutto quando sia suscettibile di incidere sul godimento dei diritti fondamentali dei quali è titolare anche lo straniero extracomunitario (sentenze n. 245 del 2011, n. 299 e n. 249 del 2010), perché la condizione giuridica dello straniero non deve essere «considerata – per quanto riguarda la tutela di tali diritti – come causa ammissibile di trattamenti diversificati o peggiorativi» (sentenza n. 245 del 2011). Inoltre, questa Corte ha anche affermato il principio – qui richiamabile, benché sia stato enunciato in riferimento ad una differente materia – in virtù del quale «le presunzioni assolute, specie quando limitano un diritto fondamentale della persona, violano il principio di eguaglianza, se sono arbitrarie e irrazionali, cioè se non rispondono a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell’id quod plerumque accidit», sussistendo l’irragionevolezza della presunzione assoluta «tutte le volte in cui sia “agevole” formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta a base della presunzione stessa» (sentenze n. 231 e n. 164 del 2011; n. 265 e n. 139 del 2010).

7.2.— Nel quadro di tali principi, a conforto della manifesta irragionevolezza della norma censurata assume anzitutto rilievo la considerazione che il diniego della regolarizzazione consegue automaticamente alla pronuncia di una sentenza di condanna anche per uno dei reati di cui all’art. 381 cod. proc. pen., nonostante che gli stessi non siano necessariamente sintomatici della pericolosità di colui che li ha commessi. In tal senso è, infatti, significativo che, essendo possibile procedere per detti reati «all’arresto in flagranza soltanto se la misura è giustificata dalla gravità del fatto ovvero dalla pericolosità del soggetto desunta dalla sua personalità o dalle circostanze del fatto» (art. 381, comma 4, cod. proc. pen.), è già l’applicabilità di detta misura ad essere subordinata ad una specifica valutazione di elementi ulteriori rispetto a quelli consistenti nella mera prova della commissione del fatto.

La manifesta irragionevolezza della disciplina stabilita dalla norma censurata, nella parte qui rilevante, è, inoltre, confermata dalla circostanza che l’automatismo concerne una fattispecie connotata da profili peculiari tra quelle aventi ad oggetto l’accertamento della sussistenza dei requisiti per la permanenza nel territorio dello Stato. La regolarizzazione in esame riguarda i soli stranieri extracomunitari i quali da un tempo ritenuto dal legislatore apprezzabile svolgevano, sia pure in una situazione di irregolarità, attività di assistenza in favore del datore di lavoro o di componenti della famiglia del predetto, ancorché non conviventi, affetti da patologie o disabilità che ne limitano l’autosufficienza, ovvero attività di lavoro domestico di sostegno al bisogno familiare. Sono, queste, infatti, attività che, per il loro contenuto e per la circostanza di essere svolte all’interno di una famiglia, da un canto, agevolano l’accertamento dell’effettiva pericolosità dello straniero. Dall’altro, evidenziano che l’automatismo, nel caso di assistenza in favore di quanti sono affetti da patologie o disabilità che ne limitano l’autosufficienza, rischia di pregiudicare irragionevolmente gli interessi di questi ultimi. È, invero, notorio che, soprattutto quando tale attività sia stata svolta per un tempo apprezzabile, può instaurarsi un legame peculiare e forte con chi ha bisogno di assistenza costante e che, quindi, può essere leso da un diniego disposto in difetto di ogni valutazione in ordine alla effettiva imprescindibilità e proporzionalità dello stesso rispetto all’esigenza di garantire l’ordine pubblico e la sicurezza dello Stato, nonostante che sia agevole ipotizzare, ed accertare, l’esistenza di situazioni contrarie alla generalizzazione posta a base della presunzione assoluta che fonda l’automatismo.

La specificità della fattispecie rende, quindi, manifesta l’irragionevolezza del diniego di regolarizzazione automaticamente correlato alla pronuncia di una sentenza di condanna per uno dei reati di cui all’art. 381 cod. proc. pen., senza che sia permesso alla pubblica amministrazione di apprezzare al giusto gli interessi coinvolti e di accertare se il lavoratore extracomunitario sia o meno pericoloso per l’ordine pubblico o la sicurezza dello Stato. L’arbitrarietà di tale disciplina risulta, infine, ancora più palese in relazione al caso, oggetto dell’ordinanza del TAR per la Calabria, di pronuncia di una sentenza non definitiva di condanna per uno dei reati contemplati da detta norma. Dalla sentenza non definitiva sono, infatti, desumibili elementi in grado di orientare la formulazione del giudizio di pericolosità; urta, invece, in modo manifesto con il principio di ragionevolezza che siano collegate alla stessa, in difetto del giudicato ed in modo automatico, conseguenze molto gravi, spesso irreversibili, per il lavoratore extracomunitario, nonostante che, per le considerazioni sopra svolte, la stessa commissione del reato potrebbe non essere sicuramente sintomatica della pericolosità sociale del medesimo.

Deve essere pertanto dichiarata, in riferimento all’art. 3 Cost., l’illegittimità costituzionale del citato art. 1-ter, comma 13, lettera c), nella parte in cui fa derivare automaticamente il rigetto dell’istanza di regolarizzazione del lavoratore extracomunitario dalla pronuncia nei suoi confronti di una sentenza di condanna per uno dei reati per i quali l’art. 381 cod. proc. pen. permette l’arresto facoltativo in flagranza, senza prevedere che la pubblica amministrazione provveda ad accertare che il medesimo rappresenti una minaccia per l’ordine pubblico o la sicurezza dello Stato.

Restano assorbiti tutti gli altri profili di censura.

per questi motivi

La Corte Costituzionale

riuniti i giudizi,

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 1-ter, comma 13, lettera c), del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78 (Provvedimenti anticrisi, nonché proroga di termini), introdotto dalla legge di conversione 3 agosto 2009, n. 102, nella parte in cui fa derivare automaticamente il rigetto della istanza di regolarizzazione del lavoratore extracomunitario dalla pronuncia nei suoi confronti di una sentenza di condanna per uno dei reati previsti dall’art. 381 del codice di procedura penale, senza prevedere che la pubblica amministrazione provveda ad accertare che il medesimo rappresenti una minaccia per l’ordine pubblico o la sicurezza dello Stato.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 2 luglio 2012.