Sentenza della Corte costituzionale 14 aprile 2014, n. 104

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G.U. 23 aprile 2014 n. 18

Il giudizio, promosso dal Presidente del Consiglio, riguarda la legittimità costituzionale degli artt. 2-7, 11 e 18 della l. 5/2013 della Regione autonoma Valle d’Aosta in materia di tutela della concorrenza, di competenza esclusiva dello Stato secondo quanto statuito dalla lett. e) del co. 2 dell’art. 117 Cost. In particolare, la Corte costituzionale ha dichiarato illegittimo l’art. 18 della l. 5/2013 nella parte in cui prevedeva misure amministrative sanzionatorie da applicare con forza retroattiva, in quanto contrastante non solo con l’art. 25 Cost., ma anche con gli artt. 6 e 7 della CEDU come interpretati dalla Corte di Strasburgo: “principio secondo il quale tutte le misure di carattere punitivo-afflittivo devono essere soggette alla medesima disciplina della sanzione penale in senso stretto”.

Sentenza

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 2, 3, 4, 7, 11 e 18 della legge della Regione autonoma Valle d’Aosta/Vallee d’Aoste 25 febbraio 2013, n. 5 (Modificazioni alla legge regionale 7 giugno 1999, n. 12 recante “Principi e direttive per l’esercizio dell’attività commerciale”), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 9-14 maggio 2013, depositato in cancelleria il 14 maggio 2013 ed iscritto al n. 60 del registro ricorsi 2013.

Visto l’atto di costituzione della Regione autonoma Valle d’Aosta;

udito nell’udienza pubblica dell’11 marzo 2014 il Giudice relatore Paolo Maria Napolitano;

uditi l’avvocato dello Stato Diana Ranucci per il Presidente del Consiglio dei ministri e l’avvocato Francesco Saverio Marini per la Regione autonoma Valle d’Aosta.

Ritenuto in fatto

1.- Con ricorso iscritto al n. 60 del registro ricorsi dell’anno 2013, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso questioni di legittimità costituzionale aventi ad oggetto gli artt. 2, 3, 4, 7, 11 e 18 della legge della Regione autonoma Valle d’Aosta/Vallee d’Aoste 25 febbraio 2013, n. 5 (Modificazioni alla legge regionale 7 giugno 1999, n. 12 recante “Principi e direttive per l’esercizio dell’attività commerciale”).

Il ricorrente premette che l’art. 3, primo comma, lettera a), della legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 4 (Statuto speciale per la Valle d’Aosta), attribuisce alla Regione potestà legislativa di integrazione e di attuazione delle leggi della Repubblica in materia di commercio e che ai sensi dell’art. 2 del medesimo statuto, tale potestà deve esplicarsi nel rispetto della Costituzione, dei principi dell’ordinamento giuridico della Repubblica e degli obblighi internazionali. Osserva, inoltre, come in forza dell’art. 10 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), la Regione deve ritenersi titolare della competenza residuale in materia di commercio.

Ciò considerato, l’Avvocatura rileva che l’art. 2 della legge reg. n. 5 del 2013 inserisce nella legge della Regione autonoma Valle d’Aosta 7 giugno 1999, n. 12 (Principi e direttive per l’esercizio dell’attività commerciale), l’art. 1-bis il quale attribuisce alla Giunta regionale, sentite le associazioni delle imprese esercenti il commercio maggiormente rappresentative in ambito regionale, il compito di individuare, sulla base di criteri oggettivi e trasparenti, gli indirizzi per il conseguimento degli obiettivi di equilibrio della rete distributiva, in rapporto alle diverse categorie e dimensioni degli esercizi, con particolare riguardo alle grandi strutture di vendita, tenuto conto della specificità dei singoli territori e dell’interesse dei consumatori alla qualità, alla varietà, all’accessibilità e alla convenienza dell’offerta.

Ad avviso del ricorrente, tale disposizione, sarebbe suscettibile di reintrodurre surrettiziamente limiti all’accesso e all’esercizio di attività economiche dal momento che il criterio in base al quale la Giunta deve determinare gli indirizzi («obiettivi di equilibrio della rete distributiva») sarebbe talmente generico da lasciare a detto organo una discrezionalità troppo ampia, che quindi renderebbe possibile l’introduzione di vincoli quantitativi alla apertura di esercizi commerciali non giustificati da esigenze di tutela della salute, dei lavoratori, dei beni culturali e del territorio, richiamate dal comma 1-bis dell’art. 1 della legge reg. n. 12 del 1999.

Per tale ragione la disposizione, potendo determinare una ingiustificata limitazione alla apertura di nuovi esercizi commerciali, si porrebbe in contrasto con i principi di tutela della concorrenza e del mercato, in violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera e), della Costituzione.

L’Avvocatura censura inoltre l’art. 3 della legge reg. n. 5 del 2013, il quale sostituisce l’art. 3 della legge reg. n. 12 del 1999 che disciplina i requisiti di accesso e di esercizio delle attività commerciali. La disposizione in parola prescrive che per lo svolgimento di attività commerciale nel settore merceologico alimentare, anche laddove effettuata nei confronti di una determinata cerchia di persone, è necessario il possesso di uno dei requisiti professionali di cui all’art. 71, comma 6, del decreto legislativo 26 marzo 2010, n. 59 (Attuazione della direttiva 2006/123/CE relativa ai servizi nel mercato interno).

Tale ultima disposizione – rileva il ricorrente – è stata modificata dall’art. 8 del decreto legislativo 6 agosto 2012, n. 147 (Disposizioni integrative e correttive del decreto legislativo 26 marzo 2010, n. 59, recante attuazione della direttiva 2006/123/CE, relativa ai servizi nel mercato interno). Nella nuova formulazione, la norma statale non richiede più per lo svolgimento di attività di vendita di prodotti alimentari e di somministrazione di alimenti e bevande, effettuate non al pubblico ma nei confronti di una cerchia ristretta di persone (spacci interni) il possesso di determinati requisiti professionali.

La disposizione regionale continuando invece a richiederne il possesso anche per tale tipologia di attività, contrasterebbe con la normativa nazionale posta a tutela della concorrenza, così violando l’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost.

E’ impugnato, ancora, l’art. 4 della legge reg. n. 5 del 2013 il quale introduce l’art. 3-bis nella legge reg. n. 12 del 1999. Esso disciplina gli orari di apertura e chiusura delle attività di commercio al dettaglio, in armonia con quanto disposto dall’art. 3, comma 1, lettera d-bis), del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale), convertito, con modificazioni, dall’art. 1 della legge 4 agosto 2006, n. 248.

Tuttavia la disposizione regionale esclude dal proprio ambito di operatività le attività commerciali che si svolgono su area pubblica. In tal modo, ad avviso dell’Avvocatura, essa si porrebbe in contrasto con quanto statuito dall’art. 28, comma 13, del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114 (Riforma della disciplina relativa al settore del commercio, a norma dell’articolo 4, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59), come modificato dal d.lgs. n. 59 del 2010, in forza del quale eventuali limiti temporali possono essere posti solo per esigenze di sostenibilità ambientale o sociale e non già per ragioni economiche.

Pertanto, l’art. 4 sarebbe illegittimo per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost. nella parte in cui esclude dalla applicazione delle norme di liberalizzazione degli orari di apertura e chiusura delle attività commerciali quelle su area pubblica.

Anche l’art. 7 della legge reg. n. 5 del 2013 violerebbe l’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost. Tale disposizione, nel sostituire l’art. 5 della legge reg. n. 12 del 1999, il quale disciplina le medie e grandi strutture di vendita, al comma 4 stabilisce che per i centri di vendita con superficie superiore a 1.500 metri quadrati il rilascio dell’autorizzazione all’apertura, al trasferimento di sede e all’ampliamento della superficie è subordinato al parere della struttura regionale competente in materia di commercio, che attesta la conformità dell’attività oggetto della richiesta agli indirizzi di cui all’art. 1-bis, introdotto dall’art. 2 della legge in esame.

Anche questa norma presenterebbe i medesimi vizi evidenziati con riguardo all’art. 1-bis della legge reg. n. 12 del 1999 dal momento che essa sarebbe suscettibile di limitare ingiustificatamente l’apertura di nuovi esercizi commerciali e di medie e/o grandi strutture di vendita, in violazione dei principi di tutela della concorrenza e del mercato e quindi in violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost.

E’ impugnato, altresì, l’art. 11 della legge censurata il quale stabilisce il divieto, nei centri storici, di apertura e trasferimento di sede delle grandi strutture commerciali. Tale divieto, il quale è prescritto in via assoluta e riferito non solo all’ipotesi di apertura, ma anche di trasferimento di sede, sarebbe eccessivamente restrittivo e, quindi, anticoncorrenziale, in violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost.

Ad avviso del ricorrente le disposizioni della legge regionale incidono sulla sfera di «tutela della concorrenza» di competenza esclusiva dello Stato. Osserva infatti l’Avvocatura che «in materia di apertura degli esercizi pubblici di vendita al dettaglio, la molteplicità di discipline a livello locale in materia non può che produrre distorsione del mercato, con evidente danno per l’utenza».

Infine, è stato impugnato l’art. 18 della legge reg. n. 5 del 2013, il quale stabilisce che varie disposizioni contenute nella medesima legge, ivi comprese quelle che inaspriscono le sanzioni amministrative conseguenti a violazioni, si applicano anche ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della legge stessa.

Il ricorrente ritiene che tale disposizione contrasterebbe con il principio tempus regit actum il quale, nell’ambito del diritto sanzionatorio amministrativo, comporta che la sanzione da irrogarsi sia quella applicabile sulla base della norma vigente nel tempo in cui fu commesso l’illecito, sia in ipotesi di previsione più sfavorevole che favorevole. Pertanto, essa violerebbe gli artt. 25 e 117, secondo comma, lettera l), Cost. «con riferimento a quanto ribadito dalla disposizioni dell’art. 11 delle disposizioni sulla legge in generale (preleggi) anteposte al Codice civile, in base al quale la legge non dispone che per l’avvenire».

2.- Si è costituita in giudizio la Regione autonoma Valle d’Aosta la quale ha chiesto il rigetto delle censure.

Riguardo all’impugnato art. 2, la difesa regionale osserva che si tratta di una norma meramente procedurale che non pone alcun limite quantitativo alla apertura di nuovi esercizi commerciali, ma attribuisce un mero potere di indirizzo alla Giunta regionale, al quale non sarebbe connesso alcun potere sanzionatorio o inibitorio.

Inoltre, il comma 1-bis dell’art. 1 della stessa legge chiarisce che l’apertura, il trasferimento e l’ampliamento di superficie degli esercizi commerciali non sono soggetti a contingenti numerici, a limiti territoriali, a vincoli merceologici o di qualsiasi altra natura. D’altra parte, l’eventuale violazione di questa norma sarebbe al più sindacabile davanti al giudice amministrativo.

Inoltre, l’attribuzione di tale potere di indirizzo alla Giunta sarebbe rispettoso della tutela della concorrenza in quanto basato su parametri oggettivi.

Infine, le censure non terrebbero conto delle competenze legislative della Regione in materia di commercio. La disposizione impugnata non avrebbe finalità di regolare la concorrenza, ma solo di assicurare una equilibrata razionalizzazione della rete distributiva in rapporto alle varie categorie e dimensioni degli esercizi commerciali.

Riguardo alle censure concernenti l’art. 3, la difesa regionale sostiene che l’abrogazione da parte del legislatore nazionale delle norme che prescrivono il possesso dei requisiti di cui all’art. 71, comma 6, del d.lgs. n. 59 del 2010 non comporterebbe automaticamente l’illegittimità delle norme regionali che continuino a prevederli, posto che la direttiva 12 dicembre 2006, n. 2006/123/CE (Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa ai servizi nel mercato interno), lascerebbe libertà ai legislatori statali e regionali, di mantenere la previsione di tali requisiti per il settore merceologico alimentare.

Inoltre, l’abrogazione dei requisiti in parola da parte del legislatore statale avrebbe rimesso al legislatore regionale, nell’esercizio delle sue competenze in materia di commercio, il potere discrezionale di individuare i requisiti per esercitare una determinata attività commerciale.

Infondata sarebbe, altresì, la censura concernente l’art. 4 in quanto con tale disposizione il legislatore regionale non avrebbe affatto disciplinato l’attività commerciale su area pubblica, limitandosi solo ad escluderla dal suo ambito di applicazione. Per tale ragione non avrebbe introdotto alcun limite al suo esercizio.

Ma anche a voler ritenere diversamente, la Regione osserva come tale tipo di attività, essendo strettamente correlata all’uso di una proprietà pubblica, richiederebbe una disciplina speciale. Lo stesso art. 28, comma 13, del d.lgs. n. 114 del 1998 consentirebbe alle Regioni e agli enti locali di stabilire limiti e modalità di utilizzo delle aree pubbliche in quanto a disponibilità limitata.

In ordine alle censure aventi ad oggetto l’art. 7, la difesa richiama le argomentazioni già svolte con riguardo alle censure relative all’art. 2 della legge regionale.

Quanto all’art. 11 della legge regionale, la resistente osserva come tale disposizione, nel vietare nei centri storici l’apertura o il trasferimento di sede delle grandi strutture commerciali, costituirebbe esercizio non solo della potestà esclusiva in materia di commercio, ma anche di quella in materia di pianificazione territoriale e di governo del territorio prevista dallo statuto. Al riguardo, la difesa regionale richiama la giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea (sentenza 22 ottobre 2009, in causa C-348/08, Choque Cabrera) che ha riconosciuto la legittimità di limitazioni all’accesso al mercato giustificate da motivi imperativi di interesse generale, purché non sorrette da ragioni puramente economiche. Pertanto, le limitazioni poste dalla norma in parola sarebbero conformi alla giurisprudenza comunitaria.

Infine, la censura avente ad oggetto l’art. 18 sarebbe inammissibile o infondata.

Tale disposizione avrebbe infatti una valenza solo procedimentale non introducendo alcun effetto retroattivo nella disciplina sanzionatoria, in quanto le sanzioni in essa previste regolano le fattispecie che si sono verificate sotto la sua vigenza.

3.- In prossimità dell’udienza pubblica, la Regione ha depositato una memoria nella quale, oltre a ribadire le proprie difese, ha richiamato il parere reso dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato in data 11 dicembre 2013, in ordine alla modifica dell’art. 31, comma 2, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 22 dicembre 2011, n. 214, ad opera dell’art. 30, comma 5-ter, del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 9 agosto 2013, n. 98.

Si afferma che in tale parere l’Autorità avrebbe chiarito che le Regioni potranno legittimamente introdurre restrizioni per quanto riguarda le aree di insediamento di attività produttive o commerciali, purché siano rispettose del principio di non discriminazione e giustificate dal perseguimento di un interesse pubblico costituzionalmente rilevante.

Considerato in diritto

1.- Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, con il ricorso indicato in epigrafe ha promosso questioni di legittimità costituzionale degli artt. 2, 3, 4, 7, 11 e 18 della legge della Regione autonoma Valle d’Aosta/Vallee d’Aoste 25 febbraio 2013, n. 5 (Modificazioni alla legge regionale 7 giugno 1999, n. 12 recante “Principi e direttive per l’esercizio dell’attività commerciale”), in riferimento agli artt. 25 e 117, secondo comma, lettere l) ed e), della Costituzione.

Il ricorrente impugna innanzitutto l’art. 2 della legge reg. n. 5 del 2013, il quale nell’inserire l’art. 1-bis nella legge della Regione autonoma Valle d’Aosta 7 giugno 1999, n. 12 (Principi e direttive per l’esercizio dell’attività commerciale), attribuisce alla Giunta regionale il compito di individuare, sentite le associazioni delle imprese, gli indirizzi per il conseguimento degli obiettivi di equilibrio della rete distributiva in rapporto alle diverse categorie e alla dimensione degli esercizi, tenendo conto anche dell’interesse dei consumatori alla qualità, alla varietà, all’accessibilità e alla convenienza dell’offerta. Ritiene l’Avvocatura dello Stato che tale disposizione violerebbe l’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost. in quanto riconoscerebbe alla Giunta regionale una discrezionalità troppo ampia, suscettibile di limitare ingiustificatamente l’apertura di nuovi esercizi commerciali e di medie e/o grandi strutture di vendita per tutelare «non meglio specificati obiettivi di equilibrio della rete distributiva».

L’Avvocatura censura, inoltre, l’art. 3 della legge reg. n. 5 del 2013, il quale ha sostituito l’art. 3 della legge reg. n. 12 del 1999, stabilendo che anche per l’esercizio dell’attività commerciale nel settore merceologico alimentare effettuata nei confronti di una determinata cerchia di persone è necessario il possesso di uno dei requisiti professionali previsti dall’art. 71, comma 6, del decreto legislativo 26 marzo 2010, n. 59 (Attuazione della direttiva 2006/123/CE relativa ai servizi nel mercato interno). In tal modo la disposizione in parola violerebbe l’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost. in quanto si porrebbe in contrasto con l’art. 71, comma 6, del d.lgs. n. 59 del 2010, il quale, a seguito delle modifiche introdotte dall’art. 8 del decreto legislativo 6 agosto 2012, n. 147 (Disposizioni integrative e correttive del decreto legislativo 26 marzo 2010, n. 59, recante attuazione della direttiva 2006/123/CE, relativa ai servizi nel mercato interno), non richiede più il possesso di tali requisiti per le attività commerciali nel settore merceologico alimentare effettuate nei confronti di una determinata cerchia di persone.

E’ altresì impugnato l’art. 4 della legge reg. n. 5 del 2013, il quale, nell’inserire l’art. 3-bis nella legge reg. n. 12 del 1999, dispone che le attività commerciali siano svolte senza il rispetto di orari di apertura o di chiusura e senza obblighi di chiusura domenicale e festiva o della mezza giornata infrasettimanale, «Fatta eccezione per l’attività di commercio su area pubblica». Tale disposizione, nell’escludere dall’ambito della liberalizzazione degli orari di apertura e chiusura il commercio su area pubblica, violerebbe l’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost. ponendosi in contrasto con le disposizioni, preposte alla tutela della concorrenza, contenute nell’art. 28, comma 13, del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114 (Riforma della disciplina relativa al settore del commercio, a norma dell’articolo 4, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59), per il quale sono ammissibili limitazioni solo per esigenze di sostenibilità ambientale o sociale.

Ad avviso del ricorrente, anche l’art. 7 della legge reg. n. 5 del 2013 violerebbe l’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost. Esso infatti, nel sostituire l’art. 5 della legge reg. n. 12 del 1999, introdurrebbe l’obbligo dell’autorizzazione per l’apertura, il trasferimento di sede e l’ampliamento della superficie di una media o grande struttura di vendita, e subordinerebbe il rilascio dell’autorizzazione per i centri di vendita con superficie superiore a 1.500 metri quadrati al parere della struttura regionale competente in materia di commercio che attesta la conformità dell’attività agli indirizzi individuati dalla Giunta regionale previsti dall’art. 1-bis. In tal modo la disposizione impugnata limiterebbe ingiustificatamente l’apertura di nuovi esercizi commerciali e di medie e/o grandi strutture di vendita.

E’ impugnato, altresì, l’art. 11 della legge reg. n. 5 del 2013, il quale ponendo il divieto, nei centri storici, di apertura e trasferimento di sede delle grandi strutture commerciali contrasterebbe con l’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost. in quanto, introducendo una preclusione assoluta e riferita non solo alla apertura ma anche al trasferimento di sede, sarebbe eccessivamente restrittivo e dunque anticoncorrenziale.

Infine il ricorrente censura l’art. 18 della legge reg. n. 5 del 2013, il quale stabilisce che le disposizioni contenute nella legge medesima, ivi comprese quelle che inaspriscono le sanzioni amministrative, trovano applicazione anche nei procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della legge stessa. Tale previsione contrasterebbe con gli artt. 25 e 117, secondo comma, lettera l), Cost. in quanto violerebbe il principio generale del tempus regit actum ribadito anche dall’art. 11 delle preleggi in base al quale la legge non dispone che per l’avvenire.

2.- La questione di legittimità costituzionale dell’art. 2 della legge reg. Valle d’Aosta n. 5 del 2013 è fondata.

L’art. 1, comma 1-bis, della legge reg. n. 12 del 1999, introdotto dall’art. 1, comma 2, della legge censurata, dispone che «l’apertura, il trasferimento di sede e l’ampliamento della superficie di nuovi esercizi commerciali sul territorio regionale non sono soggetti a contingenti numerici, a limiti territoriali, a vincoli merceologici o di qualsiasi altra natura, e possono essere vietati o limitati esclusivamente quando siano in contrasto con la normativa in materia di tutela della salute, dei lavoratori, dei beni culturali, del territorio e dell’ambiente, ivi incluso l’ambiente urbano con particolare riferimento alla tutela e allo sviluppo equilibrato dello spazio vitale urbano e alla necessità di uno sviluppo organico e controllato del territorio e del traffico, secondo quanto stabilito […] dagli indirizzi regionali volti a promuovere e a mantenere un mercato distributivo aperto per la tutela della collettività dei consumatori».

Il ricorrente ha impugnato l’art. 2 della legge reg. n. 5 del 2013 il quale inserisce l’art. 1-bis nella legge reg. n. 12 del 1999. Esso dispone che: «La Giunta regionale, con propria deliberazione e sentite le associazioni delle imprese esercenti il commercio maggiormente rappresentative in ambito regionale, definisce gli indirizzi di cui all’articolo 1, comma 1-bis, per la determinazione, sulla base di criteri e parametri oggettivi e nell’osservanza dei vincoli di cui al medesimo articolo, degli obiettivi di equilibrio della rete distributiva in rapporto alle diverse categorie e alla dimensione degli esercizi, con particolare riguardo alle grandi strutture di vendita, tenuto conto della specificità dei singoli territori e dell’interesse dei consumatori alla qualità, alla varietà, all’accessibilità e alla convenienza dell’offerta».

2.1.- La disposizione in parola incide sulla materia della «tutela della concorrenza» spettante, ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., alla competenza esclusiva del legislatore statale.

Com’è noto, infatti, la recente giurisprudenza costituzionale ha affermato che la nozione di concorrenza «riflette quella operante in ambito comunitario e comprende: a) sia gli interventi regolatori che a titolo principale incidono sulla concorrenza, quali le misure legislative di tutela in senso proprio, che contrastano gli atti ed i comportamenti delle imprese che incidono negativamente sull’assetto concorrenziale dei mercati e che ne disciplinano le modalità di controllo, eventualmente anche di sanzione; b) sia le misure legislative di promozione, che mirano ad aprire un mercato o a consolidarne l’apertura, eliminando barriere all’entrata, riducendo o eliminando vincoli al libero esplicarsi della capacità imprenditoriale e della competizione tra imprese, rimuovendo cioè, in generale, i vincoli alle modalità di esercizio delle attività economiche (ex multis: sentenze n. 270 e n. 45 del 2010, n. 160 del 2009, n. 430 e n. 401 del 2007)». Inoltre, la Corte ha affermato che la materia «tutela della concorrenza», dato il suo carattere finalistico, non è una materia di estensione certa o delimitata, ma è configurabile come trasversale, «corrispondente ai mercati di riferimento delle attività economiche incise dall’intervento e in grado di influire anche su materie attribuite alla competenza legislativa, concorrente o residuale, delle regioni» (così, tra le più recenti, sentenza n. 38 del 2013; si veda, inoltre, la sentenza n. 299 del 2012).

Dalla natura trasversale della competenza esclusiva dello Stato in materia di «tutela della concorrenza» la Corte ha tratto la conclusione «che il titolo competenziale delle Regioni a statuto speciale in materia di commercio non è idoneo ad impedire il pieno esercizio della suddetta competenza statale e che la disciplina statale della concorrenza costituisce un limite alla disciplina che le medesime Regioni possono adottare in altre materie di loro competenza» (sentenze n. 38 del 2013 e n. 299 del 2012).

Espressione della competenza legislativa esclusiva dello Stato in questa materia è stato ritenuto l’art. 31, comma 2, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 22 dicembre 2011, n. 214. Tale disposizione detta una disciplina di liberalizzazione e di eliminazione di vincoli all’esplicarsi dell’attività imprenditoriale nel settore commerciale stabilendo che «costituisce principio generale dell’ordinamento nazionale la libertà di apertura di nuovi esercizi commerciali sul territorio senza contingenti, limiti territoriali o altri vincoli di qualsiasi altra natura, esclusi quelli connessi alla tutela della salute, dei lavoratori, dell’ambiente, ivi incluso l’ambiente urbano, e dei beni culturali».

2.2.- Il censurato art. 2 della legge reg. n. 5 del 2013 conferisce alla Giunta regionale un potere di indirizzo volto alla determinazione di obiettivi di equilibrio della rete distributiva in rapporto alle diverse categorie e alla dimensione degli esercizi. La previsione e la conformazione di tale potere è tale da consentire alla Giunta di incidere e condizionare l’agire degli operatori sul mercato, incentivando o viceversa limitando l’apertura degli esercizi commerciali in relazione alle diverse tipologie merceologiche, alle loro dimensioni, ovvero al territorio. E’ evidente, dunque, che la previsione in esame, autorizzando la Giunta “a definire indirizzi” per assicurare l’equilibrio della rete distributiva, consente alla Regione interventi che ben possono risolversi in limiti alle possibilità di accesso sul mercato degli operatori economici. Ma – come già rilevato da questa Corte – è ancor prima la stessa attribuzione di un tale potere alla Giunta regionale in una materia devoluta alla competenza legislativa esclusiva dello Stato a determinare la lesione dell’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost. (sentenza n. 38 del 2013).

Pertanto deve essere dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 2 della legge reg. n. 5 del 2013.

3.- Al riconoscimento della illegittimità costituzionale della disposizione ora esaminata segue la fondatezza della censura avente ad oggetto l’art. 7 della legge reg. n. 5 del 2013 il quale disciplina le medie e grandi strutture di vendita.

Il comma 1 di tale disposizione subordina l’apertura, il trasferimento di sede e l’ampliamento della superficie di una media o grande struttura di vendita ad apposita «autorizzazione rilasciata, nel rispetto delle determinazioni assunte nel piano regolatore generale comunale urbanistico e paesaggistico (PRG) e degli indirizzi di cui all’articolo 1-bis, dallo sportello unico competente per territorio ai sensi dell’articolo 10 della legge regionale n. 12/2011».

Il comma 4, impugnato dallo Stato, stabilisce che: «Limitatamente alle strutture con superficie di vendita complessiva superiore a 1.500 metri quadrati, l’autorizzazione di cui al comma 1 è subordinata al parere della struttura regionale competente in materia di commercio, rilasciato entro trenta giorni dalla richiesta e attestante la conformità agli indirizzi di cui all’articolo 1-bis. Decorso inutilmente il predetto termine, il parere si intende favorevolmente espresso».

Tale disposizione, dunque, fa dipendere il rilascio dell’autorizzazione alla apertura delle indicate strutture di vendita dall’attestazione della conformità agli indirizzi definiti dalla Giunta regionale ai sensi dell’art. 1-bis della legge reg. n. 12 del 1999, introdotto – come si è visto – dall’art. 2 della legge reg. n. 5 del 2013. La norma impugnata rende evidente che – a differenza di quanto sostenuto dalla difesa regionale, secondo la quale il potere di indirizzo sarebbe sfornito di potestà inibitoria o sanzionatoria – tale potere incide direttamente sulla possibilità di accesso al mercato degli operatori economici, dal momento che preclude l’apertura, il trasferimento di sede e l’ampliamento degli esercizi commerciali in esso previsti laddove non risultino conformi agli indirizzi fissati dalla Giunta.

Pertanto, stante il nesso che lega la disposizione in questione a quella di cui all’art. 2 sopra esaminata, all’accoglimento della censura relativa a questa norma consegue l’illegittimità costituzionale anche dell’art. 7 impugnato, nella parte in cui subordina il rilascio dell’autorizzazione in esso prevista alla attestazione del rispetto degli indirizzi di cui all’art. 1-bis della legge reg. n. 12 del 1999.

4.- Il ricorrente impugna, altresì, l’art. 3 della legge reg. n. 5 del 2013 il quale sostituisce l’art. 3 della legge reg. n. 12 del 1999 che disciplina i requisiti di accesso e di esercizio delle attività commerciali.

Oggetto di censura è il comma 5 il quale stabilisce: «Oltre a quanto previsto nei commi 1, 2, 3 e 4, l’esercizio, in qualsiasi forma, di un’attività di commercio relativa al settore merceologico alimentare, anche se effettuata nei confronti di una cerchia determinata di persone, è consentito a coloro che siano in possesso, alla data di presentazione della segnalazione certificata di inizio attività (SCIA) di cui all’articolo 22 della legge regionale 6 agosto 2007, n. 19 (Nuove disposizioni in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi), o della domanda per il rilascio dell’autorizzazione, anche di uno dei requisiti professionali elencati dall’articolo 71, comma 6, del D.Lgs. 59/2010».

Lo Stato censura la disposizione regionale per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost. in quanto si porrebbe in contrasto con l’art. 71, comma 6, del d.lgs. n. 59 del 2010 che esclude la necessità del possesso dei requisiti in esso previsti nel caso in cui l’attività sia esercitata nei confronti di una cerchia determinata di persone.

4.1.- La disposizione statale richiamata dal ricorrente, e cui la norma regionale censurata rinvia, individua i requisiti di accesso e di esercizio delle attività commerciali. Con specifico riguardo all’attività di commercio al dettaglio relativa al settore merceologico alimentare o di un’attività di somministrazione di alimenti e bevande è richiesto il possesso di uno dei seguenti requisiti professionali:

a) avere frequentato con esito positivo un corso professionale per il commercio, la preparazione o la somministrazione degli alimenti, istituito o riconosciuto dalle regioni o dalle province autonome di Trento e di Bolzano;

b) avere, per almeno due anni, anche non continuativi, nel quinquennio precedente, esercitato in proprio attività d’impresa nel settore alimentare o nel settore della somministrazione di alimenti e bevande o avere prestato la propria opera, presso tali imprese, in qualità di dipendente qualificato, addetto alla vendita o all’amministrazione o alla preparazione degli alimenti, o in qualità di socio lavoratore o in altre posizioni equivalenti o, se trattasi di coniuge, parente o affine, entro il terzo grado, dell’imprenditore, in qualità di coadiutore familiare, comprovata dalla iscrizione all’Istituto nazionale per la previdenza sociale;

c) essere in possesso di un diploma di scuola secondaria superiore o di laurea, anche triennale, o di altra scuola ad indirizzo professionale, almeno triennale, purché nel corso di studi siano previste materie attinenti al commercio, alla preparazione o alla somministrazione degli alimenti».

Nel testo originario la norma statale richiedeva espressamente il possesso di uno di tali requisiti anche nel caso in cui l’attività fosse svolta «nei confronti di una cerchia determinata di persone». L’art. 8 del d.lgs. n. 147 del 2012, modificando l’art. 71, comma 6, del d.lgs. n. 59 del 2010 ha soppresso tale inciso di tal che la norma statale non richiede più il possesso dei suddetti requisiti per tale tipologia di attività.

A differenza della disposizione statale ora esaminata, l’art. 3 della legge reg. n. 5 del 2013 – pur se tale legge è stata emanata successivamente alla modifica dell’art. 71 del d.lgs. n. 59 del 2010 – continua a richiedere il possesso degli stessi requisiti previsti dalla norma statale anche nel caso in cui l’attività di commercio nel settore merceologico alimentare sia svolta nei confronti di una cerchia determinata di persone.

4.2.- La censura proposta avverso tale disposizione legislativa non è fondata.

I requisiti richiesti dall’art. 71, comma 6, del d.lgs. n. 59 del 2010 consistono – come si è visto – nell’aver frequentato un corso professionale ad hoc, ovvero nella pregressa specifica esperienza nel settore alimentare per un certo periodo di tempo, ovvero ancora nel possesso di un titolo per il cui conseguimento sia previsto lo studio di materie attinenti al commercio, alla preparazione o alla somministrazione degli alimenti.

Tali requisiti, considerata la loro natura, appaiono funzionali ad assicurare che coloro che svolgono attività nel settore merceologico alimentare siano dotati di una specifica preparazione ed esperienza professionale all’evidente scopo di salvaguardare la salute dei consumatori in un settore delicato e fondamentale qual è quello alimentare, assicurando che coloro che maneggiano, preparano e commerciano alimenti abbiano maturato una adeguata professionalità.

Questa conclusione è avvalorata dalla considerazione che l’art. 3 del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale), convertito, con modificazioni, dall’art. 1 della legge 4 agosto 2006, n. 248, stabilisce che, «al fine di garantire la libertà di concorrenza secondo condizioni di pari opportunità ed il corretto ed uniforme funzionamento del mercato, nonché di assicurare ai consumatori finali un livello minimo ed uniforme di condizioni di accessibilità all’acquisto di prodotti e servizi sul territorio nazionale», le attività commerciali sono svolte senza limiti e prescrizioni, tra cui il possesso di requisiti professionali soggettivi. Tuttavia, poi, fa espressamente «salvi quelli riguardanti il settore alimentare e della somministrazione degli alimenti e delle bevande» (art. 3, comma 1, lettera a). Ciò attesta che lo stesso legislatore statale ha ritenuto che i requisiti in esame non incidano sul profilo della liberalizzazione del mercato, apparendo necessari per soddisfare esigenze di sicurezza alimentare.

Tali considerazioni portano ad escludere che la norma impugnata attenga alla materia della «tutela della concorrenza» ponendo limiti o barriere all’accesso al mercato con effetti restrittivi della concorrenza. Essa, piuttosto, concerne la materia della «tutela della salute», attribuita dall’art. 117, terzo comma, Cost. alla competenza legislativa concorrente delle Regioni, ponendosi quale misura volta a salvaguardare la salute dei consumatori.

Pertanto, l’art. 3 impugnato, nel richiedere il possesso dei requisiti di cui all’art. 71, comma 6, del d.lgs. n. 59 del 2010 anche laddove le attività nel settore merceologico alimentare siano svolte nei confronti di una cerchia limitata di persone, costituisce espressione della potestà concorrente della Regione ai sensi dell’art. 117, terzo comma, Cost., non limitata da principi fondamentali della legislazione statale che vengano ad impedirla.

5.- L’art. 4 della legge reg. n. 5 del 2013, il quale inserisce l’art. 3-bis nella legge reg. n. 12 del 1999, dispone che le attività commerciali siano svolte senza il rispetto di orari di apertura o di chiusura e senza obblighi di chiusura domenicale e festiva o della mezza giornata infrasettimanale, «Fatta eccezione per l’attività di commercio su area pubblica».

Il ricorrente sostiene che tale disposizione, nell’escludere dalla applicazione delle norme di liberalizzazione degli orari di apertura e chiusura delle attività commerciali quelle su area pubblica, si porrebbe in contrasto con l’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost. in quanto violerebbe le disposizioni, preposte alla tutela della concorrenza, contenute nell’art. 28, comma 13, del d.lgs. n. 114 del 1998 per il quale sono ammissibili limitazioni solo per esigenze di sostenibilità ambientale o sociale.

5.1.- La questione è fondata.

Occorre al riguardo considerare che il profilo degli orari e dei giorni di apertura e chiusura degli esercizi commerciali è disciplinato dall’art. 3, comma 1, lettera d-bis) del d.l. n. 223 del 2006, come modificato dall’art. 31 del d.l. n. 201 del 2011, il quale stabilisce che «al fine di garantire la libertà di concorrenza […] le attività commerciali, come individuate dal decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114», sono svolte senza il rispetto – tra l’altro – di orari di apertura e chiusura, dell’obbligo della chiusura domenicale e festiva, nonché di quello della mezza giornata di chiusura infrasettimanale.

Nell’interpretare la citata normativa, questa Corte ha ritenuto «che essa attui un principio di liberalizzazione, rimuovendo vincoli e limiti alle modalità di esercizio delle attività economiche, e ha così proseguito: “L’eliminazione dei limiti agli orari e ai giorni di apertura al pubblico degli esercizi commerciali favorisce, a beneficio dei consumatori, la creazione di un mercato più dinamico e più aperto all’ingresso di nuovi operatori e amplia la possibilità di scelta del consumatore. Si tratta, dunque, di misure coerenti con l’obiettivo di promuovere la concorrenza, risultando proporzionate allo scopo di garantire l’assetto concorrenziale del mercato di riferimento relativo alla distribuzione commerciale” (sentenza n. 299 del 2012 […])» (sentenza n. 38 del 2013).

Ora, tra le attività commerciali disciplinate dal d.lgs. n. 114 del 1998, cui l’art. 3 del d.l. n. 223 del 2006 fa riferimento, vi è anche quella che si svolge su aree pubbliche (artt. 27 e seguenti) di tal che, anche per queste il legislatore statale ha inteso espressamente eliminare vincoli in ordine agli orari di apertura e chiusura dell’attività.

Le uniche limitazioni che è possibile porre allo svolgimento dell’attività di commercio su area pubblica sono quelle individuate dall’art. 28, comma 13, del d.lgs. n. 114 del 1998, come modificato dal d.lgs. n. 59 del 2010, riconducibili ad esigenze di sostenibilità ambientale e sociale, a finalità di tutela delle zone di pregio artistico, storico, architettonico e ambientale, nonché quelle individuate dall’art. 31 del d.l. n. 201 del 2011.

L’art. 4 della legge reg. n. 5 del 2013, pur eliminando i vincoli alla apertura degli esercizi commerciali, eccettua espressamente dal suo ambito di applicazione le attività di commercio su area pubblica. Il chiaro tenore letterale della disposizione consente di ritenere che il principio di liberalizzazione degli orari in essa affermato non si applichi all’attività commerciale su area pubblica.

In tal modo però, essa si presta a reintrodurre limiti e vincoli in contrasto con la normativa statale di liberalizzazione, così invadendo la potestà legislativa esclusiva dello Stato in materia di tutela della concorrenza e violando, quindi, l’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost.

Pertanto, deve essere dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 nella parte in cui, nel disporre che le attività commerciali sono svolte senza il rispetto di orari di apertura o di chiusura e senza obblighi di chiusura domenicale e festiva o della mezza giornata infrasettimanale, esclude l’attività di commercio su area pubblica.

6.- E’ impugnato l’art. 11 della legge reg. n. 5 del 2013, il quale inserisce nell’art. 9 della legge reg. n. 12 del 1999 il comma 2-bis disponendo che «In attuazione dei principi previsti dall’articolo 1, comma 1-bis, nei centri storici sono vietate l’apertura e il trasferimento di sede delle grandi strutture di vendita».

Il ricorrente sostiene che la previsione di un divieto assoluto tanto alla apertura quanto al trasferimento di sede di dette strutture di vendita nei centri storici, incidendo nella materia della «tutela della concorrenza», violerebbe l’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost. in quanto sarebbe eccessivamente restrittivo e dunque anticoncorrenziale.

Ad avviso della difesa regionale la norma impugnata costituirebbe esercizio legittimo della potestà legislativa esclusiva regionale in materia di «commercio», nonché in materia di pianificazione territoriale prevista dall’art. 2, primo comma, lettera g), della legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 4 (Statuto speciale per la Valle d’Aosta). L’esercizio di tale potestà sarebbe reso necessario dalle peculiari caratteristiche territoriali della Regione e «dalla limitata ampiezza degli spazi vitali». La difesa regionale ha inoltre richiamato la giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea (sentenza 11 marzo 2010, in causa C-384/08, Attanasio Group, e sentenza 24 marzo 2011, in causa C-400/08, Commissione europea contro Regno di Spagna) che avrebbe riconosciuto la legittimità di limitazioni dell’accesso al mercato giustificate da motivi imperativi di interesse generale, purché non sorrette da ragioni puramente economiche. Infine, la Regione ha richiamato il parere reso dall’Autorità garante della concorrenza in data 11 dicembre 2013, sull’art. 31, comma 2, del d.l. n. 201 del 2011, nel quale avrebbe riconosciuto la legittimità di misure regionali che introducono restrizioni relativamente alle aree di insediamento di attività produttive e commerciali, purché rispettose del principio di non discriminazione.

6.1.- La censura è fondata.

Occorre preliminarmente osservare come la evocata competenza primaria in materia di urbanistica deve in ogni caso svolgersi, ai sensi dell’art. 2, primo comma, lettera g), dello statuto regionale, «In armonia con la Costituzione e i principi dell’ordinamento giuridico della Repubblica e col rispetto degli obblighi internazionali e degli interessi nazionali, nonché delle norme fondamentali delle riforme economico-sociali della Repubblica».

Inoltre, questa Corte ha osservato come il disposto dell’art. 31, comma 2, del d.l. n. 201 del 2011, il quale sancisce la libertà di apertura di nuovi esercizi commerciali sul territorio, senza contingenti, limiti territoriali o altri vincoli di qualsiasi natura, «deve essere ricondotto nell’ambito della tutela della concorrenza, rientrante nella competenza legislativa esclusiva dello Stato, di cui all’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., norma in presenza della quale i titoli competenziali delle Regioni, anche a statuto speciale, in materia di commercio e di governo del territorio non sono idonei ad impedire l’esercizio della detta competenza statale (ex multis: sentenza n. 299 del 2012 citata, punto 6.1. del Considerato in diritto), che assume quindi carattere prevalente» (sentenza n. 38 del 2013; si veda, altresì, la sentenza n. 25 del 2009).

Non pertinente appare, poi, il richiamo alla giurisprudenza comunitaria fatto dalla difesa regionale. Come già affermato da questa Corte, la sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea in data 24 marzo 2011 (in causa C-400/08) «riguarda, in riferimento a grandi esercizi commerciali, restrizioni alla libertà di stabilimento, che siano applicabili senza discriminazioni basate sulla cittadinanza. Tali restrizioni possono essere giustificate da motivi imperativi d’interesse generale, a condizione che siano idonee a garantire la realizzazione dell’obiettivo perseguito e non vadano oltre quanto necessario al raggiungimento dello stesso. Fra i motivi imperativi riconosciuti dalla Corte figurano, tra gli altri, la protezione dell’ambiente e la razionale gestione del territorio. Come si vede, si tratta di una fattispecie diversa da quella qui in esame, sia per la diversità del principio evocato (libertà di stabilimento e non tutela della concorrenza), sia per le caratteristiche di fatto delle due vicende» (sentenza n. 38 del 2013).

Le stesse argomentazioni possono essere svolte anche nel caso in esame.

L’art. 31 del d.l. n. 201 del 2011 consente di introdurre limiti alla apertura di nuovi esercizi commerciali per ragioni di tutela dell’ambiente «ivi incluso l’ambiente urbano» e riconosce alle Regioni la possibilità di prevedere «anche aree interdette agli esercizi commerciali, ovvero limitazioni ad aree dove possano insediarsi attività produttive e commerciali». Tuttavia la disposizione statale stabilisce che ciò debba avvenire «senza discriminazioni tra gli operatori».

Lo stesso parere dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato citato dalla difesa regionale, nel richiamare la possibilità riconosciuta alle Regioni dalla normativa statale di introdurre restrizioni con riguardo alle aree di insediamento delle attività commerciali, afferma che ciò può avvenire a condizione del «rigoroso rispetto dei principi di stretta necessità e proporzionalità della limitazione, oltre che del principio di non discriminazione».

L’art. 11 censurato, nel vietare con legge l’apertura e il trasferimento nei centri storici delle grandi strutture di vendita, preclude del tutto e a priori detta possibilità. Tale divieto, proprio per la sua assolutezza, costituisce una limitazione alla libertà di apertura di nuovi esercizi commerciali e viene ad incidere «direttamente sull’accesso degli operatori economici al mercato e, quindi, si risolve in un vincolo per la libertà di iniziativa di coloro che svolgono o intendano svolgere attività di vendita» (sentenza n. 38 del 2013).

Per tali ragioni, deve essere dichiarata l’illegittimità costituzionale di tale disposizione.

7.- Il ricorrente ha, infine, impugnato l’art. 18 della legge reg. n. 5 del 2013, il quale stabilisce che «Le disposizioni di cui agli articoli 1, 1-bis, 3, 4, 4-bis, 5, commi 1, 2 e 4, 9 e 11-ter della legge regionale n. 12/99, come modificati, sostituiti o inseriti dalla presente legge, si applicano anche ai procedimenti autorizzatori in corso alla data di entrata in vigore della medesima legge».

L’Avvocatura dello Stato sostiene che la norma impugnata farebbe riferimento anche alle disposizioni che inaspriscono sanzioni amministrative e che pertanto, stabilendo che esse si applicano anche ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della legge medesima, si porrebbe in contrasto con il principio tempus regit actum in virtù del quale la sanzione da irrogarsi sarebbe quella applicabile in base alla norma vigente nel tempo in cui fu commesso l’illecito. Conseguentemente, l’articolo impugnato violerebbe gli artt. 25 e 117, secondo comma, lettera l), Cost. con riferimento a quanto ribadito dall’art. 11 delle Disposizioni sulla legge in generale, secondo cui la legge non dispone che per l’avvenire.

La difesa regionale sostiene che le censure sarebbero infondate in quanto l’art. 18 avrebbe valenza solo procedimentale e non avrebbe invece alcun effetto retroattivo.

7.1.- Preliminarmente deve essere dichiarata l’inammissibilità della censura formulata in relazione all’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost. dal momento che tale parametro risulta meramente evocato dal ricorrente il quale non ha tuttavia in alcun modo motivato la censura (ex plurimis, sentenza n. 272 del 2013).

7.2.- La questione sollevata con riferimento all’art. 25 Cost. è fondata.

Benché il ricorrente evochi il principio tempus regit actum, dal contenuto della censura appare chiaro che in realtà lamenta la violazione del principio di irretroattività delle disposizioni che introducono sanzioni amministrative.

L’esame di tale censura deve prendere le mosse dalla sentenza n. 196 del 2010 nella quale questa Corte ha affermato che dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo formatasi sull’interpretazione degli artt. 6 e 7 della CEDU, si ricava «il principio secondo il quale tutte le misure di carattere punitivo-afflittivo devono essere soggette alla medesima disciplina della sanzione penale in senso stretto».

Detto principio è peraltro desumibile anche dall’art. 25, secondo comma, Cost., «il quale – data l’ampiezza della sua formulazione («Nessuno può essere punito […]») – può essere interpretato nel senso che ogni intervento sanzionatorio, il quale non abbia prevalentemente la funzione di prevenzione criminale (e quindi non sia riconducibile – in senso stretto – a vere e proprie misure di sicurezza), è applicabile soltanto se la legge che lo prevede risulti già vigente al momento della commissione del fatto sanzionato» (sempre sentenza n. 196 del 2010).

Analogo principio è sancito altresì dalla disciplina generale relativa agli illeciti amministrativi prevista dalla legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), la quale, all’art. 1, pone la regola per cui nessuno può essere assoggettato a sanzioni amministrative se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima della commissione della violazione; tale regola costituisce un principio generale di quello specifico sistema.

L’art. 18 impugnato, nell’indicare le varie disposizioni da esso introdotte, le quali devono avere applicazione anche ai procedimenti in corso, richiama espressamente l’art. 11-ter della legge reg. n. 12 del 1999 introdotto dall’art. 12, comma 1, della legge reg. n. 5 del 2013.

Tale disposizione prevede l’irrogazione della sanzione amministrativa pecuniaria del pagamento di una somma di denaro da euro 1.800 a euro 6.000 per coloro che esercitino le attività commerciali di cui all’art. 4, senza aver presentato la SCIA.

Assoggetta inoltre alla sanzione amministrativa del pagamento della somma da euro 800 a euro 3.000 coloro che non comunichino ogni variazione relativa a stati, fatti, condizioni e titolarità indicati nella SCIA entro trenta giorni dal suo verificarsi.

La disposizione censurata, dunque, prevede la sanzione amministrativa anche per comportamenti posti in essere anteriormente alla sua entrata in vigore, in tal modo violando il principio di irretroattività sancito dall’art. 25 Cost.

Conseguentemente, deve essere dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 18 della legge reg. n. 5 del 2013 nella parte in cui stabilisce che le disposizioni modificate o inserite da tale legge, le quali prevedono sanzioni amministrative, si applicano ai procedimenti in corso alla data della sua entrata in vigore.

per questi motivi

La Corte Costituzionale

1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 2 e dell’art. 11 della legge della Regione autonoma Valle d’Aosta/Vallee d’Aoste 25 febbraio 2013, n. 5 (Modificazioni alla legge regionale 7 giugno 1999, n. 12 recante “Principi e direttive per l’esercizio dell’attività commerciale”);

2) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 della legge reg. Valle d’Aosta n. 5 del 2013 nella parte in cui esclude dal proprio ambito di applicazione l’attività di commercio su area pubblica;

3) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 7 della legge reg. Valle d’Aosta n. 5 del 2013 nella parte in cui subordina il rilascio dell’autorizzazione in esso prevista al rispetto degli indirizzi di cui all’art. 1-bis della legge della Regione autonoma Valle d’Aosta/Vallee d’Aoste 7 giugno 1999, n. 12 (Principi e direttive per l’esercizio dell’attività commerciale);

4) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 18 della legge reg. Valle d’Aosta n. 5 del 2013 nella parte in cui stabilisce che le disposizioni modificate o inserite da tale legge le quali prevedono sanzioni amministrative si applicano ai procedimenti in corso alla data della sua entrata in vigore;

5) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 18 della legge reg. Valle d’Aosta n. 5 del 2013, promossa, in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione, dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso indicato in epigrafe;

6) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3 della legge reg. Valle d’Aosta n. 5 del 2013, promossa, in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso indicato in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 14 aprile 2014.