G.U. 11 novembre 2015, n. 45
Il giudizio verteva sulla legittimità costituzionale dell’art. 1, co. 1, l. n. 164/1982, che, consentendo la rettificazione anagrafica del sesso di una persona “a seguito di intervenute modificazioni dei suoi caratteri sessuali”, condizionerebbe, nell’interpretazione del giudice remittente, il diritto all’identità di genere all’effettuazione di cure chirurgiche o ormonali e comunque invasive e pericolose per la salute. La norma sarebbe pertanto in contrasto con gli artt. 2, 3, 32 e 117, co. 1, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 8 CEDU (rispetto della vita privata e familiare), nel cui ambito di applicazione ricade il diritto all’identità di genere, secondo la giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani. La Corte costituzionale ha giudicato la questione infondata, in quanto, a differenza di quanto prospettato dal giudice a quo, la norma censurata consente un’interpretazione costituzionalmente orientata, fondata sulla libera autodeterminazione degli individui rispetto alla propria identità di genere, e dunque non contrastante con l’art. 8 della CEDU. Tale interpretazione è peraltro già presente nella giurisprudenza, ed è stata confermata dalla Corte di cassazione nella sent. n. 15138 del 2015.
Sentenza della Corte di cassazione, sez. I, 20 luglio 2015, n. 15138
Sentenza
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, della legge 14 aprile 1982, n. 164 (Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso), promosso dal Tribunale ordinario di Trento, nel procedimento vertente tra D.B. e Pubblico ministero presso la Procura della Repubblica del Tribunale di Trento, con ordinanza del 20 agosto 2014, iscritta al n. 228 del registro ordinanze 2014 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 52, prima serie speciale, dell’anno 2014.
Visti l’atto di costituzione di D.B., nonché gli atti di intervento dell’Associazione Radicale Certi Diritti e dell’Associazione ONIG ‒ Osservatorio Nazionale sull’Identità di Genere, ed altri e del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 20 ottobre 2015 il Giudice relatore Giuliano Amato;
uditi gli avvocati Massimo Luciani per D.B., Potito Flagella per l’Associazione ONIG ‒ Osservatorio Nazionale sull’Identità di Genere, ed altri, e l’avvocato dello Stato Gabriella Palmieri per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.− Con ordinanza del 20 agosto 2014, il Tribunale ordinario di Trento ha sollevato – in riferimento agli artt. 2, 3, 32, 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (d’ora in avanti, «CEDU»), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848 − questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, della legge 14 aprile 1982, n. 164 (Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso).
Tale disposizione prevede che «La rettificazione si fa in forza di sentenza del tribunale passata in giudicato che attribuisca ad una persona sesso diverso da quello enunciato nell’atto di nascita a seguito di intervenute modificazioni dei suoi caratteri sessuali».
Ad avviso del giudice rimettente, la disposizione censurata si porrebbe in contrasto con gli artt. 2 e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 8 della CEDU, poiché la previsione della necessità, ai fini della rettificazione anagrafica dell’attribuzione di sesso, dell’intervenuta modificazione dei caratteri sessuali primari attraverso trattamenti clinici altamente invasivi pregiudicherebbe gravemente l’esercizio del diritto fondamentale alla propria identità di genere.
Viene, inoltre, denunciato il contrasto con gli artt. 3 e 32 Cost., per l’irragionevolezza insita nella subordinazione dell’esercizio di un diritto fondamentale, quale il diritto all’identità sessuale, al requisito della sottoposizione della persona a trattamenti sanitari (chirurgici o ormonali), estremamente invasivi e pericolosi per la salute.
2.− Il giudice a quo riferisce di essere chiamato a decidere in ordine alla domanda di rettificazione anagrafica dell’attribuzione di sesso, avanzata da una persona non sposata e senza figli, intenzionata ad ottenere il riconoscimento di una nuova identità maschile.
Il Tribunale rimettente, chiamato a fare applicazione dell’art. 1 della legge n. 164 del 1982, esclude la possibilità di interpretare la disposizione in esame nel senso di ritenere ammissibile la rettificazione dell’attribuzione di sesso, anche in assenza della modificazione dei caratteri sessuali primari.
2.1.− In particolare, il giudice a quo osserva che l’art. 31, comma 4, del decreto legislativo 1° settembre 2011, n. 150 (Disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, ai sensi dell’articolo 54 della legge 18 giugno 2009, n. 69), prevedendo che «Quando risulta necessario un adeguamento dei caratteri sessuali da realizzare mediante trattamento medico-chirurgico, il tribunale lo autorizza con sentenza passata in giudicato», sembrerebbe consentire che il trattamento medico-chirurgico sia solo eventuale (come lascerebbe intendere l’avverbio “quando”).
Il rimettente ritiene, tuttavia, che la previsione di tale eventualità non significhi che la rettificazione di attribuzione di sesso possa essere ottenuta a prescindere dall’adeguamento dei caratteri sessuali primari, bensì soltanto che possano esservi casi concreti nei quali gli stessi siano già modificati (ad esempio, per un intervento già praticato all’estero, ovvero per ragioni congenite).
Nel caso oggetto del giudizio a quo, il Tribunale dovrebbe rigettare la domanda di rettificazione, non essendo soddisfatto il requisito in questione. Di qui, la rilevanza della questione di costituzionalità dell’art. 1, comma 1, della legge n. 164 del 1982, nella parte in cui subordina la rettificazione di attribuzione di sesso all’intervenuta modificazione dei caratteri sessuali primari.
2.2.− Il Tribunale ritiene la questione non manifestamente infondata, in riferimento alla violazione dei parametri di cui agli artt. 2, 3, 32 e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 8 della CEDU (Diritto al rispetto della vita privata e familiare).
Quanto alla denunciata violazione degli artt. 2 e 117, primo comma, Cost., il giudice a quo osserva che l’imposizione di un determinato trattamento medico, sia esso ormonale, ovvero di riassegnazione chirurgica dei caratteri sessuali, costituirebbe una grave ed inammissibile limitazione del diritto all’identità di genere. Ad avviso del rimettente, il raggiungimento dello stato di benessere psico-fisico della persona si realizza attraverso la rettificazione di attribuzione di sesso, e non già con la riassegnazione chirurgica sul piano anatomico (dalla persona non sempre voluta, come accade per la parte attrice nel giudizio a quo).
Vengono richiamate le sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo che hanno riconosciuto che il diritto all’identità di genere rientra a pieno titolo nella tutela prevista dall’art. 8 della CEDU, che sancisce il rispetto della vita privata e familiare. Si sottolinea, a questo riguardo, che la contrarietà di una norma interna alla CEDU si risolve in una questione di legittimità costituzionale, in riferimento alla violazione dell’art. 117, primo comma, Cost.
Con specifico riferimento alla violazione dell’art. 2 Cost., il giudice a quo evidenzia che la giurisprudenza costituzionale ha ricondotto nell’alveo dei diritti inviolabili sia «il diritto di realizzare, nella vita di relazione, la propria identità sessuale, da ritenere aspetto e fattore di svolgimento della personalità», che gli altri membri della collettività sono tenuti a riconoscere «per dovere di solidarietà sociale» (sentenza n. 161 del 1985); sia il diritto alla libertà sessuale, poiché, «Essendo la sessualità uno degli essenziali modi di espressione della persona umana, il diritto di disporne liberamente è senza dubbio un diritto soggettivo assoluto» (sentenza n. 561 del 1987).
La disposizione censurata, pur riconoscendo il diritto della persona di scegliere la propria identità sessuale, ne subordina l’esercizio alla modificazione dei propri caratteri sessuali primari da realizzare tramite un doloroso e pericoloso intervento chirurgico. Ciò pregiudicherebbe in modo irreparabile l’esercizio del diritto stesso, finendo con il vanificarlo.
Di qui, l’insanabile contrasto tra il diritto individuale all’identità sessuale (e la relativa autodeterminazione) e l’imposizione del requisito della modifica dei caratteri sessuali primari, ai fini della rettificazione dell’attribuzione di sesso.
2.2.1.− Con riferimento alla violazione degli artt. 3 e 32 Cost., il Tribunale rimettente rileva l’irragionevolezza della previsione della previa modifica chirurgica dei caratteri sessuali primari.
Il giudice a quo ritiene che tale modificazione non sia sempre necessaria e che, anzi, alla luce dei diritti coinvolti, la persona debba avere il diritto di rifiutarla. Non vi sarebbe quindi ragionevolezza, né logicità, nel condizionare il riconoscimento del diritto della personalità in esame ad un incommensurabile prezzo per la salute della persona.
Una volta riconosciuto che il diritto alla rettificazione dell’attribuzione di sesso costituisce oggetto di un diritto della personalità, non sarebbe consentito al legislatore subordinarlo a restrizioni tali da pregiudicarne gravemente l’esercizio, fino a vanificarlo.
3.– Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile e comunque infondata.
3.1.− L’Avvocatura generale osserva che il giudice a quo non avrebbe adeguatamente verificato la possibilità di un’interpretazione costituzionalmente orientata della normativa censurata, anche alla luce dell’intervenuta abrogazione del successivo art. 3 della stessa legge n. 164 del 1982, per la parte in cui prevedeva la verifica giudiziale dell’avvenuta esecuzione del trattamento chirurgico. Esso stabiliva, infatti, che «Il tribunale, quando risulta necessario un adeguamento dei caratteri sessuali da realizzare mediante trattamento medico-chirurgico, lo autorizza con sentenza. In tal caso il tribunale, accertata la effettuazione del trattamento autorizzato, dispone la rettificazione in camera di consiglio».
3.2.− Viene, inoltre, evidenziato che la giurisprudenza di merito ha già offerto un’interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione in esame, nel senso che − ai fini della rettificazione dell’attribuzione del sesso − non è sempre necessario un preventivo intervento medicochirurgico, modificativo dei caratteri sessuali.
Il trattamento medico-chirurgico sarebbe, infatti, necessario solo nel caso in cui occorra assicurare al soggetto transessuale uno stabile equilibrio psicofisico, ossia laddove la discrepanza tra il sesso anatomico e la psicosessualità determini un atteggiamento conflittuale di rifiuto dei propri organi sessuali. Viceversa, laddove non sussista tale conflittualità, l’intervento chirurgico non sarebbe necessario.
Al riguardo, la difesa erariale evidenzia che, come affermato dalla giurisprudenza costituzionale, la nozione di identità sessuale non è limitata ai caratteri sessuali esterni, ma può essere qualificata «come dato complesso della personalità determinato da un insieme di fattori, dei quali deve essere agevolato o ricercato l’equilibrio, privilegiando […] il o i fattori dominanti» (sentenza n. 161 del 1985).
3.3.− In prossimità dell’udienza pubblica, l’Avvocatura generale dello Stato ha depositato una memoria in cui viene illustrata la sentenza della Corte di cassazione, sezione prima civile, del 20 luglio 2015, n. 15138. In tale pronuncia viene affermata la non obbligatorietà, ai fini della rettificazione del sesso nei registri dello stato civile, dell’intervento chirurgico demolitorio o modificativo dei caratteri sessuali anatomici primari, alla stregua di un’interpretazione costituzionalmente orientata, e conforme alla giurisprudenza della Corte EDU, dell’art. 1 della legge n. 164 del 1982, nonché del successivo art. 3 della medesima legge, attualmente confluito nell’art. 31, comma 4, del d.lgs. n. 150 del 2011.
Anche alla luce di tale recente arresto della giurisprudenza di legittimità, la difesa erariale ha insistito perché sia dichiarata l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale, per il mancato esperimento, da parte del giudice a quo, del tentativo di interpretazione conforme alla Costituzione.
4.− Con atto depositato il 7 gennaio 2015, si è costituita nel giudizio D.B., parte privata ricorrente nel giudizio a quo, la quale ha chiesto che sia dichiarata l’illegittimità costituzionale della disposizione censurata, in accoglimento della questione sollevata dal Tribunale ordinario di Trento.
4.1.− In via preliminare, la parte privata ritiene che il giudice a quo abbia utilizzato tutti gli strumenti interpretativi a sua disposizione per verificare la possibilità di una lettura alternativa della disposizione censurata, eventualmente conforme a Costituzione, dovendo tuttavia concludere nel senso che tale interpretazione sia impedita dal tenore letterale della disposizione.
Né rileverebbe, ai fini dell’apprezzamento del rispetto delle regole del processo costituzionale, la possibilità di un’interpretazione alternativa: ciò che conta è che il rimettente se la sia prospettata, ritenendo di non poterla accogliere. L’esistenza di tale interpretazione alternativa sarebbe infatti, ad avviso della parte privata, questione che attiene al merito della controversia, e non alla sua ammissibilità.
4.2.− Nel merito, vengono richiamate le argomentazioni svolte dal giudice rimettente a sostegno della fondatezza questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, della legge n. 164 del 1982, con riferimento a tutti i parametri evocati.
4.3.− In prossimità dell’udienza pubblica, la difesa della parte privata ha depositato una memoria, nella quale ha riferito, in primo luogo, alcuni sviluppi del giudizio a quo.
A seguito di istanza di riassunzione parziale del giudizio principale presentata dalla stessa parte privata, il Tribunale ordinario di Trento ha disposto la separazione del procedimento relativo alla domanda, proposta in via subordinata, di autorizzazione all’intervento chirurgico e, con sentenza del 25 marzo 2015, ha autorizzato l’adeguamento dei caratteri sessuali da realizzare mediante intervento chirurgico.
Anche alla luce di tali sviluppi, la parte privata ha ribadito l’ammissibilità della questione di legittimità costituzionale, richiamando la disposizione dell’art. 22 delle norme integrative, che stabilisce il principio della irrilevanza delle questioni pregiudiziali rispetto alle vicende del giudizio principale.
Nella medesima memoria, la difesa di D.B. ha illustrato la sentenza della Corte di cassazione, sezione prima civile, del 20 luglio 2015, n. 15138, in cui è stata affermata la non obbligatorietà, ai fini della rettificazione del sesso nei registri dello stato civile, dell’intervento chirurgico demolitorio o modificativo dei caratteri sessuali anatomici primari, in base ad un’interpretazione costituzionalmente orientata, e conforme alla giurisprudenza della Corte EDU, dell’art. 1 della legge n. 164 del 1982.
5.− Nel giudizio dinanzi a questa Corte, è intervenuta l’Associazione Radicale Certi Diritti, chiedendo in via principale che la questione sollevata dal Tribunale ordinario di Trento venga dichiarata inammissibile per il mancato esperimento del tentativo di interpretazione conforme. In via subordinata, la parte interveniente ha chiesto che sia dichiarata l’illegittimità costituzionale della norma censurata.
5.1.− A sostegno della propria legittimazione all’intervento, la parte interveniente evidenzia l’evoluzione della giurisprudenza costituzionale, nel senso dell’apertura al riconoscimento della legittimazione di terzi, in qualità di enti rappresentativi di interessi collettivi.
A questo riguardo, l’Associazione ha riferito di promuovere, secondo il proprio oggetto statutario, iniziative politiche, culturali e sociali – anche a livello europeo ed internazionale − tese alla difesa e al sostegno di persone lesbiche, gay, transessuali, bisessuali, transgender ed eterosessuali e alla tutela dei diritti negati dalla legislazione italiana. Essa ha, inoltre, riferito di elaborare studi e analisi sulla condizione delle persone LGBTE, con particolare attenzione ai problemi legati all’esclusione dal pieno godimento dei diritti previsti dalla Carta costituzionale e dalla normativa europea.
5.2.− Quanto al merito della questione, la parte interveniente ritiene che sia possibile un’interpretazione costituzionalmente conforme dell’art.1, comma 1, della legge n. 164 del 1982.
L’Associazione evidenzia, in particolare, che la disposizione censurata non specifica il contenuto delle «modificazioni dei […] caratteri sessuali», alle quali è subordinata la rettifica anagrafica, né dà indicazioni sulla natura e la portata di tali modificazioni.
Se pure si può ritenere che le operazioni chirurgiche sugli organi sessuali primari rientrino nell’ambito di applicazione della disposizione, si potrebbe parimenti ritenere che la nozione di «modificazioni dei suoi caratteri sessuali» comprenda anche i trattamenti ormonali, i quali determinano rilevanti modificazioni dei caratteri sessuali, così consentendo la rettificazione del sesso anagrafico.
D’altra parte, la scelta in ordine ai trattamenti terapeutici e chirurgici da applicare ai casi concreti dovrebbe necessariamente essere demandata − sotto il profilo scientifico e, comunque, previo il consenso informato − al medico curante, unico soggetto idoneo a valutare le condizioni psicofisiche del soggetto e a predisporre il percorso clinico più adatto.
A sostegno dell’irragionevolezza di previsioni che cristallizzino trattamenti e protocolli medici vengono richiamate quelle pronunce in materia di procreazione medicalmente assistita, nelle quali la Corte costituzionale ha ribadito la centralità del ruolo del medico nella valutazione del caso concreto e nell’applicazione dei trattamenti (sentenze n. 162 del 2014 e n. 151 del 2009).
Viene evidenziato, inoltre, che il d.lgs. n. 150 del 2011 ha abrogato l’art. 3 della legge n. 164 del 1982, il quale prevedeva l’autorizzazione giudiziale dell’adeguamento dei caratteri sessuali attraverso un’operazione chirurgica, quando ciò fosse necessario. La medesima disposizione prevedeva altresì che il tribunale, dopo avere accertato l’esecuzione dell’intervento, potesse disporre la rettificazione del sesso, così lasciando intendere che il giudice dovesse intervenire in relazione alla necessità di un intervento chirurgico.
L’art. 31, comma 4, del d.lgs. n. 150 del 2011 richiede ancora che il tribunale autorizzi con sentenza il trattamento medico-chirurgico, quando questo sia necessario al fine di adeguare i caratteri sessuali della persona istante, ma non richiede più − ai fini della rettificazione − che il giudice verifichi l’avvenuta esecuzione dell’intervento.
D’altra parte, il tenore letterale della disposizione in esame non specifica quale tipo di trattamento sia necessario per procedere alla rettificazione del sesso, né differenzia la disciplina a seconda che si tratti di trattamenti chirurgici, ovvero di trattamenti ormonali; di trattamenti che incidono sui caratteri sessuali primari, ovvero sui caratteri sessuali secondari.
Anche alla luce degli orientamenti emersi nella più recente giurisprudenza di merito, la parte interveniente ritiene possibile un’interpretazione della disposizione censurata, diversa da quella proposta dal rimettente, e tuttavia rispettosa del dato letterale. Esso non opera, infatti, alcuna distinzione fra tipologie di interventi volti all’adeguamento del sesso, ma richiede soltanto che − laddove si renda necessario un intervento chirurgico − il tribunale lo autorizzi con sentenza. Tale interpretazione si concilia con i principi affermati dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 161 del 1985, armonizzandosi altresì con le disposizioni costituzionali che, diversamente interpretando l’art. 1, comma 1, della legge n. 164 del 1982, risulterebbero violate per i profili evidenziati nell’ordinanza di rimessione.
In via subordinata, nel caso in cui non si ritenesse percorribile tale interpretazione, la difesa dell’associazione interveniente ha chiesto l’accoglimento della questione di legittimità costituzionale, come prospettata dal Tribunale ordinario di Trento con l’ordinanza indicata in epigrafe.
6.− Sono inoltre intervenute, nel giudizio dinanzi a questa Corte, l’Associazione ONIG ‒ Osservatorio Nazionale sull’Identità di Genere, la Fondazione Genere Identità Cultura, l’Associazione ONLUS MIT − Movimento d’Identità Transessuale e l’Associazione di Volontariato Libellula, chiedendo in via principale l’accoglimento della questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale ordinario di Trento.
In via subordinata, le parti intervenienti hanno chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile o non fondata, per la possibilità di un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. l, comma l, della legge n. 164 del 1982, in base alla quale le intervenute modificazioni dei caratteri sessuali, a seguito delle quali può essere disposta la rettificazione dell’attribuzione di sesso, non consistono necessariamente nella modificazione dei caratteri sessuali primari.
6.1.− In via preliminare, a sostegno della propria legittimazione all’intervento, le parti intervenienti hanno riferito di operare da molti anni nell’ambito della tutela, dell’assistenza e dell’orientamento nei confronti delle persone transessuali, ponendosi quali essenziali riferimenti per le numerose problematiche giuridiche, psicologiche, culturali, sociali e sanitarie relative al tema dell’identità di genere, anche nei rapporti con le istituzioni nazionali e locali.
Le stesse parti si affermano, quindi, portatrici di un interesse qualificato a prendere parte al contraddittorio relativo alla questione di legittimità costituzionale, in considerazione del proprio ruolo di rappresentanza delle singole persone, anche non aderenti alle stesse associazioni, le cui posizioni giuridiche sono suscettibili di subire una diretta incidenza dagli esiti della decisione. Esse sarebbero, quindi, titolari di interessi direttamente inerenti al rapporto sostanziale dedotto in giudizio.
6.2.− Viene svolta, in primo luogo, un’ampia disamina degli aspetti di ordine scientifico, sociologico e psicologico inerenti alla popolazione transgender, caratterizzata dalla discordanza tra il genere soggettivamente percepito come proprio ed il genere assegnato alla nascita.
Viene illustrata l’evoluzione giurisprudenziale, successiva alla legge n. 164 del 1982, in relazione ai requisiti previsti ai fini della rettificazione anagrafica. Vengono quindi richiamati i principi affermati dalla giurisprudenza costituzionale, sia con riferimento al diritto all’identità sessuale, quale fattore di svolgimento della personalità, che trova fondamento nell’art. 2 Cost., sia con riferimento al diritto alla salute, di cui all’art. 32 Cost.
In particolare, vengono richiamate le pronunce con le quali, in riferimento ad accertamenti invasivi integranti trattamenti sanitari, si è precisato che essi «trovano un limite non valicabile nel rispetto della dignità della persona che vi può essere sottoposta. In quest’ambito il rispetto della persona esige l’efficace protezione della riservatezza, necessaria anche per contrastare il rischio di emarginazione nella vita lavorativa e di relazione» (sentenza n. 218 del 1994).
Nel caso di specie, ad avviso delle parti intervenienti, la protezione della dignità e della riservatezza della persona devono affermarsi come valori preminenti, a fronte della imposizione di trattamenti sanitari indesiderati e potenzialmente dannosi per la salute fisica e psichica dell’interessato, in assenza di qualsivoglia utilità degli stessi trattamenti per lo stato di salute della collettività.
Si sottolinea, inoltre, che l’esigenza di proteggere il benessere psico-fisico della persona transgender, come preciso impegno costituzionale, impone di agevolare l’accesso alla rettificazione dell’attribuzione di sesso, senza subordinarlo ad attività sanitarie indesiderate. Solo un ampio accesso alla rettificazione dell’attribuzione di sesso, infatti, potrebbe assicurare che la scelta di sottoporsi alla riattribuzione chirurgica del sesso costituisca espressione di una libera e consapevole autodeterminazione della persona.
6.3.− La difesa delle parti intervenienti ha chiesto, pertanto, l’accoglimento della questione di legittimità costituzionale della disposizione censurata, nella parte in cui subordina, la rettificazione di attribuzione di sesso all’intervenuta modificazione dei caratteri sessuali primari attraverso un intervento chirurgico. In via meramente subordinata ha chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile o non fondata, per la possibilità di un’interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione censurata, in base alla quale le intervenute modificazioni dei caratteri sessuali, a seguito delle quali può essere disposta la rettificazione dell’attribuzione di sesso, non consistono necessariamente nella modificazione dei caratteri sessuali primari.
Considerato in diritto
1.− Con ordinanza del 20 agosto 2014, il Tribunale ordinario di Trento ha sollevato – in riferimento agli artt. 2, 3, 32, 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (d’ora in avanti, «CEDU»), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848 − questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, della legge 14 aprile 1982, n. 164 (Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso).
Tale disposizione prevede che «La rettificazione si fa in forza di sentenza del tribunale passata in giudicato che attribuisca ad una persona sesso diverso da quello enunciato nell’atto di nascita a seguito di intervenute modificazioni dei suoi caratteri sessuali».
Ad avviso del giudice rimettente, la disposizione censurata si porrebbe in contrasto con gli artt. 2 e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 8 della CEDU, poiché la previsione della necessità, ai fini della rettificazione anagrafica dell’attribuzione di sesso, dell’intervenuta modificazione dei caratteri sessuali primari attraverso trattamenti clinici altamente invasivi pregiudicherebbe gravemente l’esercizio del diritto fondamentale alla propria identità di genere.
Viene, inoltre, denunciato il contrasto con gli artt. 3 e 32 Cost., per l’irragionevolezza insita nella subordinazione dell’esercizio di un diritto fondamentale, quale il diritto all’identità di genere, al requisito della sottoposizione della persona a trattamenti sanitari (chirurgici o ormonali), estremamente invasivi e pericolosi per la salute.
2.− In via preliminare, va ribadito quanto statuito con l’ordinanza della quale è stata data lettura in pubblica udienza, allegata al presente provvedimento, in ordine all’inammissibilità degli interventi spiegati dall’Associazione Radicale Certi Diritti, nonché dall’Associazione ONIG ‒ Osservatorio Nazionale sull’Identità di Genere, dalla Fondazione Genere Identità Cultura, dall’Associazione ONLUS MIT − Movimento d’Identità Transessuale, e dall’Associazione di Volontariato Libellula.
Per costante giurisprudenza di questa Corte, sono ammessi ad intervenire nel giudizio incidentale di legittimità costituzionale, oltre al Presidente del Consiglio dei ministri e, nel caso di legge regionale, al Presidente della Giunta regionale, le parti del giudizio principale.
L’intervento di soggetti estranei a quest’ultimo giudizio è ammissibile soltanto per i terzi titolari di un interesse qualificato, inerente in modo diretto e immediato al rapporto sostanziale dedotto in giudizio e non semplicemente regolato, al pari di ogni altro, dalla norma o dalle norme oggetto di censura (ex plurimis, ordinanza letta all’udienza del 7 ottobre 2014, confermata con sentenza n. 244 del 2014; ordinanza letta all’udienza dell’8 aprile 2014, confermata con sentenza n. 162 del 2014; ordinanza letta all’udienza del 23 aprile 2013, confermata con sentenza n. 134 del 2013; ordinanza letta all’udienza del 9 aprile 2013, confermata con sentenza n. 85 del 2013).
Nella specie, le stesse intervenienti non sono parti del giudizio principale, instaurato da D.B. al fine ottenere la rettificazione anagrafica dell’attribuzione di sesso, né risultano titolari di un interesse qualificato, inerente in modo diretto e immediato al rapporto sostanziale dedotto in giudizio.
Da quanto esposto consegue l’inammissibilità degli interventi indicati.
3.− L’eccezione di inammissibilità della questione di legittimità costituzionale è infondata.
3.1.− L’Avvocatura generale dello Stato ha preliminarmente eccepito l’inammissibilità della questione, evidenziando che il giudice a quo non avrebbe adeguatamente verificato la possibilità di un’interpretazione costituzionalmente orientata della normativa censurata.
3.2.− Con riferimento alla necessità dell’intervento chirurgico, il giudice a quo esclude la possibilità di interpretare la disposizione in esame nel senso di ritenere ammissibile la rettificazione dell’attribuzione di sesso, anche in assenza della modificazione dei caratteri sessuali primari.
In particolare, il Tribunale rileva che l’art. 31, comma 4, del decreto legislativo 1° settembre 2011, n. 150 (Disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, ai sensi dell’articolo 54 della legge 18 giugno 2009, n. 69), prevedendo che «Quando risulta necessario un adeguamento dei caratteri sessuali da realizzare mediante trattamento medico-chirurgico, il tribunale lo autorizza con sentenza passata in giudicato», sembrerebbe consentire che il trattamento medico-chirurgico sia solo eventuale (come lascerebbe intendere l’avverbio «quando»).
Il rimettente ritiene, tuttavia, che la previsione di tale eventualità non significhi affatto che la rettificazione di attribuzione di sesso possa essere ottenuta a prescindere dall’adeguamento dei caratteri sessuali primari, bensì soltanto che possono esservi casi concreti nei quali i caratteri sessuali primari siano già modificati (ad esempio, per un intervento già praticato all’estero, ovvero per ragioni congenite).
A sostegno di questa interpretazione, il giudice a quo osserva che, altrimenti, non si comprenderebbe l’espressione «a seguito di intervenute modificazioni dei suoi caratteri sessuali», di cui all’art. 1, comma 1, della legge n. 164 del 1982. Il Tribunale ritiene che «Se il legislatore avesse inteso consentire alla persona la rettificazione di attribuzione di sesso a prescindere dalla modificazione dei suoi caratteri sessuali primari, non avrebbe menzionato tale modificazione nella parte finale della norma in esame».
3.3.− La compiuta valutazione di tali argomenti, ancorché inidonea ad escludere possibili soluzioni difformi, appare indicativa del tentativo, in concreto effettuato dal giudice a quo, di utilizzare gli strumenti interpretativi a sua disposizione per verificare la possibilità di una lettura alternativa della disposizione censurata, eventualmente conforme a Costituzione. Tale possibilità viene consapevolmente esclusa dal rimettente, il quale ravvisa nel tenore letterale della disposizione un impedimento ad un’interpretazione costituzionalmente compatibile.
La possibilità di un’ulteriore interpretazione alternativa, che il giudice a quo non ha ritenuto di fare propria, non riveste alcun significativo rilievo ai fini del rispetto delle regole del processo costituzionale, in quanto la verifica dell’esistenza e della legittimità di tale ulteriore interpretazione è questione che attiene al merito della controversia, e non alla sua ammissibilità.
4.− Nel merito, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, della legge n. 164 del 1982 non è fondata nei sensi di cui in motivazione.
4.1.− La disposizione in esame costituisce l’approdo di un’evoluzione culturale ed ordinamentale volta al riconoscimento del diritto all’identità di genere quale elemento costitutivo del diritto all’identità personale, rientrante a pieno titolo nell’ambito dei diritti fondamentali della persona (art. 2 Cost. e art. 8 della CEDU).
Come rilevato, infatti, da questa Corte nella sentenza n. 161 del 1985, la legge n. 164 del 1982 accoglie «un concetto di identità sessuale nuovo e diverso rispetto al passato, nel senso che ai fini di una tale identificazione viene conferito rilievo non più esclusivamente agli organi genitali esterni, quali accertati al momento della nascita ovvero “naturalmente” evolutisi, sia pure con l’ausilio di appropriate terapie medico-chirurgiche, ma anche ad elementi di carattere psicologico e sociale. Presupposto della normativa impugnata è, dunque, la concezione del sesso come dato complesso della personalità determinato da un insieme di fattori, dei quali deve essere agevolato o ricercato l’equilibrio, privilegiando ‒ poiché la differenza tra i due sessi non è qualitativa, ma quantitativa ‒ il o i fattori dominanti […]. La legge n. 164 del 1982 si colloca, dunque, nell’alveo di una civiltà giuridica in evoluzione, sempre più attenta ai valori, di libertà e dignità, della persona umana, che ricerca e tutela anche nelle situazioni minoritarie ed anomale».
Tale portata generale e fortemente innovativa dell’intervento legislativo in esame emerge anche dalla formulazione letterale dell’art. 1, oggetto di censura, il quale stabilisce i presupposti per la rettificazione anagrafica del sesso, individuandoli nelle «intervenute modificazioni dei […] caratteri sessuali». Viene, quindi, lasciato all’interprete il compito di definire il perimetro di tali modificazioni e, per quanto qui rileva, delle modalità attraverso le quali realizzarle.
Interpretata alla luce dei diritti della persona ‒ ai quali il legislatore italiano, con l’intervento legislativo in esame, ha voluto fornire riconoscimento e garanzia − la mancanza di un riferimento testuale alle modalità (chirurgiche, ormonali, ovvero conseguenti ad una situazione congenita), attraverso le quali si realizzi la modificazione, porta ad escludere la necessità, ai fini dell’accesso al percorso giudiziale di rettificazione anagrafica, del trattamento chirurgico, il quale costituisce solo una delle possibili tecniche per realizzare l’adeguamento dei caratteri sessuali.
È questa la strada già indicata nella sentenza n. 161 del 1985, laddove si afferma che la disposizione in esame «riguarda tutte le ipotesi di rettificazione giudiziale dell’attribuzione di sesso, in quanto accertato diverso da quello enunciato nell’atto di nascita, a seguito di intervenute modificazioni dei caratteri sessuali dell’interessato, senza, peraltro, che il disposto in esame prenda in considerazione il modo in cui le modificazioni medesime si sono verificate, se naturalmente ovvero a seguito di intervento medico-chirurgico».
L’esclusione del carattere necessario dell’intervento chirurgico ai fini della rettificazione anagrafica appare il corollario di un’impostazione che − in coerenza con supremi valori costituzionali − rimette al singolo la scelta delle modalità attraverso le quali realizzare, con l’assistenza del medico e di altri specialisti, il proprio percorso di transizione, il quale deve comunque riguardare gli aspetti psicologici, comportamentali e fisici che concorrono a comporre l’identità di genere. L’ampiezza del dato letterale dell’art. 1, comma 1, della legge n. 164 del 1982 e la mancanza di rigide griglie normative sulla tipologia dei trattamenti rispondono all’irriducibile varietà delle singole situazioni soggettive.
Tale impostazione è stata fatta propria anche dalla recente giurisprudenza di legittimità. Nella sentenza del 20 luglio 2015, n. 15138, la Corte di cassazione, sezione prima civile, ha affermato, infatti, che la scelta di sottoporsi alla modificazione chirurgica dei caratteri sessuali non può che essere il risultato di «un processo di autodeterminazione verso l’obiettivo del mutamento di sesso». Il ricorso alla chirurgia costituisce uno dei possibili percorsi volti all’adeguamento dell’immagine esteriore alla propria identità personale, come percepita dal soggetto. D’altra parte, sottolinea la Corte di cassazione, «La complessità del percorso, in quanto sostenuto da una pluralità di presidi medici […] e psicologici mette ulteriormente in luce l’appartenenza del diritto in questione al nucleo costitutivo dello sviluppo della personalità individuale e sociale, in modo da consentire un adeguato bilanciamento con l’interesse pubblico alla certezza delle relazioni giuridiche».
Rimane così ineludibile un rigoroso accertamento giudiziale delle modalità attraverso le quali il cambiamento è avvenuto e del suo carattere definitivo. Rispetto ad esso il trattamento chirurgico costituisce uno strumento eventuale, di ausilio al fine di garantire, attraverso una tendenziale corrispondenza dei tratti somatici con quelli del sesso di appartenenza, il conseguimento di un pieno benessere psichico e fisico della persona.
In questa prospettiva va letto anche il riferimento, contenuto nell’art. 31 del d.lgs. n. 150 del 2011, alla eventualità («Quando risulta necessario») del trattamento medico-chirurgico per l’adeguamento dei caratteri sessuali. In tale disposizione, infatti, lo stesso legislatore ribadisce, a distanza di quasi trenta anni dall’introduzione della legge n. 164 del 1982, di volere lasciare all’apprezzamento del giudice, nell’ambito del procedimento di autorizzazione all’intervento chirurgico, l’effettiva necessità dello stesso, in relazione alle specificità del caso concreto.
Il ricorso alla modificazione chirurgica dei caratteri sessuali risulta, quindi, autorizzabile in funzione di garanzia del diritto alla salute, ossia laddove lo stesso sia volto a consentire alla persona di raggiungere uno stabile equilibrio psicofisico, in particolare in quei casi nei quali la divergenza tra il sesso anatomico e la psicosessualità sia tale da determinare un atteggiamento conflittuale e di rifiuto della propria morfologia anatomica.
La prevalenza della tutela della salute dell’individuo sulla corrispondenza fra sesso anatomico e sesso anagrafico, porta a ritenere il trattamento chirurgico non quale prerequisito per accedere al procedimento di rettificazione – come prospettato dal rimettente −, ma come possibile mezzo, funzionale al conseguimento di un pieno benessere psicofisico.
Il percorso ermeneutico sopra evidenziato riconosce, quindi, alla disposizione in esame il ruolo di garanzia del diritto all’identità di genere, come espressione del diritto all’identità personale (art. 2 Cost. e art. 8 della CEDU) e, al tempo stesso, di strumento per la piena realizzazione del diritto, dotato anch’esso di copertura costituzionale, alla salute.
per questi motivi
La Corte Costituzionale
dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, della legge 14 aprile 1982, n. 164 (Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso), sollevata, in riferimento agli artt. 2, 3, 32, 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848, dal Tribunale ordinario di Trento, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 ottobre 2015.