Ordinanza della Corte costituzionale 9 luglio 2014, n. 204

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G.U. 23 luglio 2014, n. 31

Con l’ordinanza n. 204/2014, la Corte costituzionale ha ritenuto infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Corte d’appello di Reggio Calabria (sezione civile) in riferimento all’art. 2 bis, co. 3, l. n. 89/2001 (cosiddetta Legge Pinto). In particolare, la Corte d’appello riteneva che la norma violasse l’art. 117, co. 1 Cost. in relazione all’art. 6, par. 1, della CEDU in materia di diritto alla durata ragionevole del processo e che l’equa soddisfazione prevista dall’art. 41 della CEDU per la lesione di tale diritto spetta a tutte le parti indipendentemente dall’esito del processo, compresa, quindi, la parte soccombente. La Corte costituzionale ha ritenuto manifestamente infondata la questione per erroneità del presupposto interpretativo, in quanto la norma censurata “non comporta l’impossibilità di liquidare un indennizzo a titolo di equa riparazione della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, in favore di chi, attore o convenuto, sia risultato nello stesso soccombente”. La norma, infatti, nella parte in cui prevede che la misura dell’indennizzo “non deve essere superiore al valore del diritto accertato dal giudice” va riferita solo ai casi in cui il giudice accerta l’esistenza del diritto fatto valere in giudizio, il cui valore accertato costituisce un dato oggettivo, che non muta in ragione della posizione della parte richiedente.

  • Vedi anche:

    Ordinanza della Corte costituzionale 9 luglio 2014, n. 223;

    Ordinanza della Corte costituzionale 5 maggio 2014, n.124

  • Lingua originale: Italiano

Ordinanza

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 2-bis, comma 3, della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile), promossi dalla Corte d’appello di Reggio Calabria, sezione civile, con ordinanze del 16 e del 19 settembre, del 24 ottobre e dell’11 novembre 2013, rispettivamente iscritte al n. 266 del registro ordinanze 2013 ed ai nn. 3, 21 e 23 del registro ordinanze 2014 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 50, prima serie speciale, dell’anno 2013 e nn. 5 e 11, prima serie speciale, dell’anno 2014.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio dell’11 giugno 2014 il Giudice relatore Sergio Mattarella.

Ritenuto che, con ordinanza del 16 settembre 2013 (r.o. n. 266 del 2013), la Corte d’appello di Reggio Calabria, sezione civile, nella persona del giudice designato al fine di provvedere sulla domanda di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo, nel corso di un procedimento avente a oggetto una domanda di equa riparazione proposta nei confronti del Ministero della giustizia dalla parte risultata soccombente nel processo presupposto, ha sollevato, in riferimento all’art. 117 della Costituzione, in relazione all’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848 (d’ora in avanti, «CEDU» o «Convenzione»), questione di legittimità del comma 3 dell’art. 2-bis della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile), articolo aggiunto dall’art. 55, comma 1, lettera b), del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83 (Misure urgenti per la crescita del Paese), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 7 agosto 2012, n. 134;

che, ad avviso del giudice a quo, tale impugnata disposizione – secondo cui: «La misura dell’indennizzo, anche in deroga al comma 1 [che prevede, a sua volta, che: «Il giudice liquida a titolo di equa riparazione una somma di denaro, non inferiore a 500 euro e non superiore a 1.500 euro, per ciascun anno, o frazione di anno superiore a sei mesi, che eccede il termine ragionevole di durata del processo»], non può in ogni caso essere superiore al valore della causa o, se inferiore, a quello del diritto accertato dal giudice» − víola il parametro invocato «nella parte in cui limita la misura dell’indennizzo (liquidabile in favore della parte che abbia subito un danno per la durata irragionevole del processo presupposto) al “valore del diritto accertato” senza alcuna ulteriore specificazione o limite, comportando in tal modo l’impossibilità di liquidare in alcuna misura un’equa riparazione in favore della parte che, nel processo presupposto, sia risultata interamente soccombente»;

che il giudice rimettente riferisce, in punto di fatto: a) di essere investito del ricorso, proposto il 19 luglio 2013 nei confronti del Ministero della giustizia, con il quale M.F., nella qualità di erede di A.S., aveva chiesto l’indennizzo del danno subíto per effetto dell’irragionevole durata di una controversia in materia di lavoro promossa davanti al Tribunale ordinario di Patti, sezione distaccata di S. Agata di Militello; b) che la ricorrente nel giudizio a quo era risultata interamente soccombente in detto presupposto processo di lavoro, atteso che lo stesso era stato definito con la sentenza del Tribunale ordinario di Patti, sezione distaccata di S. Agata di Militello, che aveva rigettato la domanda della stessa ricorrente e che era passata in giudicato il 22 gennaio 2013;

che il medesimo giudice rimettente sviluppa poi alcune considerazioni in punto di diritto;

che, prima di prendere in esame la disposizione censurata, egli evidenzia la portata innovativa, rispetto alla normativa anteriore al decreto-legge n. 83 del 2012, dell’alinea e della lettera a) del comma 2 dell’art. 2-bis della legge n. 89 del 2001, secondo cui «L’indennizzo è determinato a norma dell’articolo 2056 del codice civile, tenendo conto: a) dell’esito del processo nel quale si è verificata la violazione di cui al comma 1 dell’articolo 2»;

che, a tale proposito, il giudice a quo osserva che, nel vigore di detta previgente normativa, la Corte di cassazione aveva affermato la spettanza del diritto all’equa riparazione a tutte le parti del processo «indipendentemente dal fatto che esse siano risultate vittoriose o soccombenti e dalla consistenza economica ed importanza del giudizio», nonché l’irrilevanza, al medesimo fine, della «asserita consapevolezza da parte dell’istante della scarsa probabilità di successo dell’iniziativa giudiziaria» (sono citate, in tale senso, le sentenze n. 8632 e n. 8541 del 2010), ammettendo che si potesse tenere conto dell’esito del processo presupposto solo qualora esso «abbia un indiretto riflesso sull’identificazione, o sulla misura, del pregiudizio morale sofferto dalla parte in conseguenza dell’eccesiva durata della causa», come si verifica «quando il soccombente abbia promosso una lite temeraria, o abbia artatamente resistito in giudizio al solo fine di perseguire proprio il perfezionamento della fattispecie di cui al richiamato art. 2», con la precisazione, peraltro, che di tali circostanze «costituenti abuso del processo», anche ai fini della commisurazione dell’indennizzo, «deve dare prova puntuale l’Amministrazione», non essendo «sufficiente, a tal fine, la deduzione che la domanda della parte sia stata dichiarata manifestamente infondata» (è citata, nel senso indicato, la sentenza n. 35 del 2012);

che, a fronte di tale indirizzo della giurisprudenza di legittimità, formatosi anteriormente all’entrata in vigore del d.l. n. 83 del 2012, la citata lettera a) del comma 2 dell’art. 2-bis avrebbe innovato sotto il duplice profilo che, in virtù della stessa, l’esito del giudizio presupposto: a) assumerebbe, ancorché al solo fine della quantificazione dell’indennizzo, «un ruolo non più eccezionale ma normale, fisiologico e soprattutto sganciato dalla condizione che esso si accompagni anche alla consapevolezza della parte e, correlativamente, ad un uso strumentale del processo»; b) non dovrebbe più, per comportare una riduzione dell’indennizzo, essere, insieme con «l’abuso del processo alla base di esso richiesto», allegato e provato dall’amministrazione resistente, «potendo e dovendo il giudice ex se […] sindacare e ponderare l’esito del giudizio quale risultante dagli atti prodotti»;

che, passando all’esame dell’impugnato comma 3 dell’art. 2-bis, il rimettente afferma che lo stesso stabilisce che la misura dell’indennizzo, anche in deroga agli importi indicati dal comma 1 dello stesso art. 2-bis, non può superare non solo il valore della controversia − ciò che, secondo lo stesso giudice a quo, «dà espressione ad una convinzione di comune buon senso particolarmente avvertita per le cause bagatellari» −, ma neppure il valore del diritto accertato dal giudice, quando questo sia inferiore al valore della causa;

che, ad avviso del rimettente, tale ultima disposizione comporterebbe che la domanda di equa riparazione per l’irragionevole durata del processo potrebbe essere accolta solo nel caso in cui chi la propone sia risultato, almeno in parte, vittorioso nel giudizio presupposto, mentre nessun indennizzo potrebbe essere riconosciuto a chi, nello stesso giudizio, fosse risultato interamente soccombente, atteso che, in tale ultimo caso, l’accertamento negativo della sussistenza del diritto fatto valere in giudizio equivarrebbe all’accertamento che tale diritto, in quanto inesistente, «per così dire, “vale zero”»;

che il rimettente conclude, sul punto, affermando che: «Non può sfuggire pertanto il paradosso (ed anche la violazione del fondamentale parametro di cui all’art. 3 Cost.) cui si incorrerebbe a ritenere che, posto il valore della causa uguale a 100: a) in caso di diritto accertato uguale a 10, sia liquidabile un indennizzo non maggiore di 10; b) in caso di radicale rigetto della domanda, sia invece liquidabile un indennizzo maggiore fino al limite di 100. Occorrerebbe presumere, cioè, ma non si vede con quale plausibilità logica, che la durata irragionevole del processo sia fonte per la parte di sofferenza morale maggiore in caso di totale rigetto della sua domanda e minore in caso di parziale accoglimento»;

che, sempre ad avviso del rimettente, sarebbe «tutt’altro che certo […] che una tale interpretazione della norma, fondata sulla sua insuperabile formulazione letterale, vada oltre l’intenzione del legislatore, potendosi rinvenire da altre parti della novella indici alquanto significativi nella medesima direzione»;

che tali sarebbero, anzitutto, le disposizioni delle lettere b) e c) del comma 2-quinquies dell’art. 2 della legge n. 89 del 2001 − comma aggiunto dall’art. 55, comma 1, lettera a), numero 2), del d.l. n. 83 del 2012 − le quali escludono qualunque indennizzo in favore, rispettivamente, della parte che abbia visto accogliere la propria domanda in misura non superiore a una proposta conciliativa che abbia rifiutato senza giustificato motivo (art. 91, primo comma, secondo periodo, cod. proc. civ.), e della parte vincitrice che abbia rifiutato la proposta di mediazione quando il provvedimento che definisce il giudizio corrisponde interamente al contenuto della stessa (art. 13, primo comma, primo periodo, del decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28, recante «Attuazione dell’articolo 60 della legge 18 giugno 2009, n. 69, in materia di mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali»), trattandosi di «ipotesi […] rispetto alle quali l’avere agito infondatamente in giudizio costituisce sicuramente un minus (dal punto di vista del riconoscimento che nel giudizio presupposto hanno ricevuto le ragioni fatte valere dalla parte)»;

che «rilievo convergente» dovrebbe essere attribuito, sempre secondo il giudice a quo, anche alle seguenti disposizioni della legge n. 89 del 2001 (anch’esse aggiunte o sostituite dall’art. 55 del d.l. n. 83 del 2012): a) la già menzionata lettera a) del comma 2 dell’art. 2-bis, che indica l’«esito del processo» tra i parametri di cui è necessario tenere conto ai fini della determinazione dell’indennizzo; b) l’art. 4, che ha escluso che la domanda di riparazione possa essere proposta prima della conclusione del procedimento con provvedimento definitivo; c) la lettera c) del comma 3 dell’art. 3, che impone al ricorrente di depositare, unitamente al ricorso, copia autentica della sentenza o dell’ordinanza irrevocabili che abbiano definito il giudizio;

che tali disposizioni evidenzierebbero, secondo il rimettente, l’importanza attribuita dal legislatore della novella al fatto che il giudice investito della domanda di equa riparazione conosca l’esito definitivo del giudizio, il che «non altrimenti può spiegarsi se non con il preponderante rilievo attribuito dal legislatore […] a tale aspetto della vicenda, quale parametro determinativo della liquidazione dell’indennizzo»;

che una «indiretta conferma della ragionevolezza» dell’indicata interpretazione della disposizione censurata si trarrebbe, infine, dall’affermazione, contenuta nella relazione illustrativa al disegno di legge di conversione del d.l. n. 83 del 2012, secondo cui tra le finalità delle modificazioni della legge n. 89 del 2001 vi era anche quella di «non allargare le maglie di un bacino di domanda di giustizia suscettibile di distorsioni che sono già presenti nell’attuale sistema (in cui accade che una causa venga instaurata, al di là della fondatezza della pretesa, in funzione del conseguimento del successivo indennizzo spettante per la violazione del temine di durata ragionevole del processo, dal momento che la Corte europea dei diritti dell’uomo ha più volte affermato che l’indennizzo in parola spetta anche alla parte rimasta soccombente nel processo “presupposto”»;

che, ad avviso del giudice rimettente, il passaggio citato tradirebbe la consapevolezza del legislatore che il principio della spettanza dell’equa riparazione anche alla parte interamente soccombente «è causa di distorsioni nel funzionamento e nell’impostazione teorica stessa dei fondamenti e della natura del diritto all’equa riparazione»;

che, sempre secondo il rimettente, ancorché l’indicata relazione illustrativa indichi come obiettivo della novella quello di «non allargare le maglie» della detta distorsione, le disposizioni effettivamente introdotte e appena indicate «prescindendo del tutto, nell’attribuire il visto rilievo all’esito del giudizio, dall’accertamento dell’esistenza di un atteggiamento negligente, strumentale o abusivo a fondamento della domanda rigettata o della resistenza a quella interamente accolta − appaiono oggettivamente [idonee] anche a contrastare in radice il principio suddetto» della spettanza dell’equa riparazione anche alla parte interamente soccombente;

che il giudice rimettente afferma di non ignorare l’esistenza dell’«indice di segno contrario» costituito dalla disposizione della lettera a) del comma 2-quinquies dell’art. 2 della legge n. 89 del 2001 − secondo cui non è riconosciuto alcun indennizzo «in favore della parte soccombente condannata a norma dell’articolo 96 del codice di procedura civile [cioè per responsabilità processuale aggravata]» − la quale, in base all’argomento a contrario, dovrebbe essere interpretata nel senso della spettanza dell’indennizzo in favore della parte soccombente che non abbia subito la citata condanna, con la conseguenza che la mera soccombenza non sarebbe, di per sé sola, ragione di esclusione dal diritto all’equa riparazione;

che a tale conclusione si opporrebbe, tuttavia, sempre secondo l’opinione del rimettente, l’«indice normativo» costituito dall’impugnato comma 3 dell’art. 2-bis, il quale, pur non riguardando i presupposti in astratto della spettanza del diritto all’indennizzo ma la commisurazione di quest’ultimo (a priori, perciò, non escluso), finisce − rivelandosi così «più potente rispetto ai limitati obiettivi per i quali era stato probabilmente pensato» − con l’annullarlo completamente in tutti i casi di soccombenza;

che alla stregua di ciò, secondo il rimettente, «A tutto concedere non può non registrarsi un insanabile contrasto, quantomeno agli effetti pratici, tra le due norme, il che però, lungi dal poter autorizzare […] a una mera disapplicazione della seconda nella parte in cui risulti in contrasto con la prima, ne rafforza piuttosto il sospetto di incostituzionalità»;

che il giudice a quo afferma, infine, di non conoscere pronunce giurisprudenziali che, in base alla disciplina dell’equa riparazione per la violazione del termine ragionevole del processo risultante dalle modificazioni recate dall’art. 55 del d.l. n. 83 del 2012, abbiano riconosciuto il diritto all’indennizzo alla parte soccombente nel processo presupposto, ma solo pronunce di rigetto dei ricorsi presentati da tale parte (sono citati, in proposito, i decreti della Corte d’appello di Bari 25 settembre 2012 reso nel procedimento n. 547/12 V.G., 6 novembre 2012 reso nel procedimento n. 610/12 V.G., 6 novembre 2012 reso nel procedimento n. 613/12, 15 gennaio 2013 reso nel procedimento n. 641/12 V.G., nonché il decreto della Corte d’appello di Caltanissetta del 7 febbraio 2013);

che, sulla base di tali premesse, il giudice a quo, dopo avere compiuto un’ampia rassegna dei principi che, in base alla giurisprudenza della Corte costituzionale, della Corte di cassazione e della Corte di giustizia dell’Unione europea, governano i rapporti tra la legislazione interna e la CEDU (sono citate, in particolare, le sentenze della Corte costituzionale n. 303, n. 236, n. 175, n. 196, n. 113, n. 80 e n. 1 del 2011, n. 187, n. 138 e n. 93 del 2010, n. 311 del 2009, n. 348 e n. 349 del 2007, nonché le ordinanze n. 180 e n. 138 del 2011 e n. 150 del 2002; le sentenze della Corte di cassazione n. 5894 del 2009, n. 1341, n. 1340, n. 1339 e n. 1338 del 2004, e la sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea 24 aprile 2012, in causa C-571/10, Kamberaj), afferma, in punto di non manifesta infondatezza, che l’impugnato comma 3 dell’art. 2-bis della legge n. 89 del 2001 si pone in contrasto con l’art. 6, paragrafo 1, della CEDU, come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo;

che, a proposito di tale parametro interposto, il rimettente sottolinea come detta Corte abbia sempre ritenuto «l’irrilevanza della soccombenza del ricorrente, in sé e per sé considerata» ai fini della spettanza dell’equa soddisfazione prevista dall’art. 41 della CEDU, in base al rilievo che la parte, indipendentemente dall’esito della causa, «ha comunque subito una diminuzione della qualità della vita in conseguenza dei patemi d’animo sopportati durante il lungo arco temporale che ha preceduto la definitiva decisione della sua posizione processuale» (è citata, in proposito, la sentenza 19 febbraio 1992, recte, 1998, Paulsen-Medalen e Svensson contro Svezia);

che tale principio, prosegue il rimettente, è sempre stato affermato anche dalla Corte di cassazione nel vigore della disciplina dettata dalla legge n. 89 del 2001 anteriormente alle modificazioni ad essa apportate dal d.l. n. 83 del 2012, avendo la giurisprudenza di legittimità costantemente affermato, come si è già visto, che il danno non patrimoniale non è escluso dall’esito negativo del processo o dall’elevata possibilità del rigetto della domanda e che, per ritenere infondata la domanda di indennizzo, è necessario che la parte soccombente si sia resa responsabile di lite temeraria o, comunque, di un abuso del processo (sono citate le sentenze n. 8632 e n. 8541 del 2010), del quale deve fornire la prova la parte che lo eccepisce (è citata la sentenza n. 819 del 2010);

che la stessa Corte di cassazione aveva ancora affermato che, al fine di negare la sussistenza del danno, può sì assumere rilievo la «chiara, originaria e perdurante certezza sulla inconsistenza» del diritto fatto valere in giudizio, con la precisazione, tuttavia, che non «equivale a siffatta certezza originaria la mera consapevolezza della scarsa probabilità di successo dell’azione» (sentenze n. 8165 del 2010 e n. 24269 del 2008);

che il giudice a quo precisa infine che il quadro normativo e giurisprudenziale descritto non può ritenersi «rilevantemente mutato» a séguito dell’entrata in vigore del nuovo testo dell’art. 35, paragrafo 3, lettera b), della CEDU, come modificato dall’art. 12 del Protocollo n. 14 alla Convenzione, firmato a Strasburgo il 13 maggio 2004, ratificato e reso esecutivo con la legge 15 dicembre 2005, n. 280 (Ratifica ed esecuzione del Protocollo n. 14 alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali emendante il sistema di controllo della Convenzione, fatto a Strasburgo il 13 maggio 2004), secondo cui «La Corte dichiara irricevibile ogni ricorso individuale presentato ai sensi dell’articolo 34 se ritiene che: […] (b) il ricorrente non ha subito alcun pregiudizio importante, salvo che il rispetto dei diritti dell’uomo garantiti dalla Convenzione e dai suoi Protocolli esiga un esame del ricorso nel merito e a condizione di non rigettare per questo motivo alcun caso che non sia stato debitamente esaminato da un tribunale interno»;

che, secondo il rimettente − il quale, a proposito del significato attribuito dalla Corte europea dei diritti dell’uomo al menzionato art. 35, paragrafo 3, lettera b), della CEDU, cita le sentenze 6 marzo 2012, Gagliano contro Italia, 19 ottobre 2010, Rinck contro Francia e 18 ottobre 2010, Giusti contro Italia − infatti, «nulla autorizza a ritenere che una tale clausola, essendo rapportata a parametri ulteriori e diversi dal mero esito della causa e legati piuttosto alla considerazione delle variabili circostanze del caso concreto, possa di per sé comportare una revisione dei descritti parametri talmente radicale da potersi prevedere che, in forza della stessa, possa escludersi tout court, sempre e in ogni caso, la riconoscibilità dell’equo indennizzo alla parte soccombente»;

che, quanto alla rilevanza, la rimettente Corte d’appello afferma anzitutto che un’interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione censurata, tale da renderla compatibile con l’invocato parametro interposto dell’art. 6, paragrafo 1, della CEDU, come interpretato dalla Corte europea dei diritto dell’uomo, è resa impossibile dal suo tenere letterale, il quale impedisce di liquidare l’indennizzo in misura superiore «al valore del diritto accertato»;

che, in particolare, non sarebbe praticabile l’interpretazione «restrittiva e correttiva» dell’impugnato comma 3 nel senso di ritenere, come sostenuto in uno dei primi commenti alla novella di cui all’art. 55 del d.l. n. 83 del 2012, che «il riferimento al diritto accertato dal giudice costituisca un limite nella determinazione del valore della causa così come avviene per individuare lo scaglione di valore della causa ai fini della liquidazione delle spese legali»;

che a tale interpretazione si opporrebbero, infatti, l’analisi logica della disposizione censurata e l’uso della locuzione disgiuntiva «o», rafforzata dall’inciso «se inferiore», elementi che evidenzierebbero che il valore del diritto accertato dal giudice è indicato dalla norma censurata, in alternativa al valore della causa, come limite alla misura dell’indennizzo e non come criterio di determinazione del valore della causa;

che ne conseguirebbe, conclusivamente, che una lettura della disposizione censurata diversa da quella accolta si tradurrebbe in un’interpretazione contra legem, non consentita neppure al fine di rendere detta disposizione conforme alla CEDU;

che, sempre in punto di rilevanza, il giudice a quo sottolinea come la norma impugnata abbia una «diretta incidenza» sulla decisione in ordine alla domanda di equa riparazione proposta;

che, infatti, «se ne fosse […] confermata la legittimità costituzionale in applicazione della stessa la domanda […] andrebbe rigettata; in caso contrario essa andrebbe accolta, salvo solo una commisurazione tendenzialmente al minimo dell’indennizzo spettante, all’interno del range fissato dal primo comma dell’art. 2-bis e salvo sempre il limite rappresentato dal valore della causa»;

che il rimettente precisa infine che, ancorché la fattispecie al suo esame riguardi un’ipotesi di rigetto integrale della domanda, con soccombenza del ricorrente nel processo presupposto, il dubbio di costituzionalità prospettato «è destinato a porsi, nei medesimi termini, anche nell’ipotesi inversa di soccombenza della parte resistente (o convenuta) nel processo presupposto, ovviamente ove sia questa a proporre la domanda per equa riparazione»;

che ad avviso del giudice a quo, infatti, «sembra evidente che il riferimento al valore del diritto accertato va rapportato alla posizione che nel processo presupposto assumeva la parte che avanzi richiesta d’indennizzo ai sensi della legge n. 89/2001»;

che, pertanto, nel caso di soccombenza del convenuto, «non deve fuorviare la considerazione che […] il giudizio presupposto si sia concluso ovviamente con l’accoglimento della domanda avanzata dall’attore e quindi con il positivo accertamento del diritto da quest’ultimo fatto valere, posto che, ai fini qui in considerazione, rileva piuttosto l’altra faccia di quella statuizione che, per il convenuto, equivale al rigetto delle sue tesi difensive»;

che, per converso, anche nel caso di soccombenza dell’attore (come è avvenuto nel giudizio a quo), ove a richiedere l’indennizzo fosse, però, non lo stesso attore ma la parte convenuta, vittoriosa nel giudizio, «nei confronti della stessa non varrebbe ovviamente il limite qui censurato, posto che, in rapporto alla sua posizione, il rigetto della domanda attrice equivale al pieno riconoscimento della fondatezza del suo diritto a contrastare la pretesa avversaria»;

che il rimettente precisa ancora che «La norma censurata evoca […], a ben vedere, il valore dell’accertamento contenuto nella sentenza; e un contenuto di accertamento è sempre presente in qualsiasi sentenza: di rigetto, di condanna, costitutiva o di mero accertamento (positivo o negativo) che sia. Un tale contenuto poi è sempre ambivalente rispetto alle posizioni delle parti in lite (per definizione, ovviamente, contrapposte). L’attore dunque che agisce in giudizio per ottenere l’accertamento di un suo diritto, chiede per l’appunto un accertamento positivo di una tale situazione giuridica; nella stessa causa ovviamente si contrappone la posizione del convenuto che, resistendo alla domanda, per ciò stesso implicitamente invoca un accertamento negativo di tale situazione, non rilevando, ai nostri fini, se ne faccia a sua volta oggetto di domanda riconvenzionale o semplicemente di mera difesa»;

che è intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o manifestamente infondata;

che la difesa statale afferma anzitutto che la questione sollevata sarebbe inammissibile sia in quanto sarebbe volta a ottenere un’indicazione interpretativa da parte della Corte costituzionale sul significato da attribuire alla locuzione “valore del diritto accertato dal giudice” (valore inteso come limite alla misura dell’indennizzo), perciò configurandosi come un improprio tentativo di conseguire dalla Corte un avallo interpretativo (è citata la sentenza della Corte costituzionale n. 21 del 2013), sia in quanto il rimettente avrebbe omesso di verificare la possibilità di una, in effetti praticabile, interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione censurata, idonea a superare i dubbi di legittimità della stessa;

che, sotto tale secondo aspetto, la difesa statale sostiene che la Corte di appello rimettente, pur avendo prospettato delle interpretazioni dell’impugnato comma 3 dell’art. 2-bis diverse da quella − ritenuta incompatibile con l’art. 6, paragrafo 1, della CEDU − che escluda la liquidazione dell’indennizzo alla parte rimasta soccombente nel processo presupposto, non avrebbe esplicitato «l’incompatibilità costituzionale [di tali] restanti interpretazioni»;

che l’Avvocatura generale dello Stato rileva, infine, che «rispetto all’ipotesi ritenuta coerente con i principi CEDU (quella, cioè, secondo cui il soccombente totale verrebbe comunque liquidato, tenendo conto dei parametri di quantificazione individuati dalla disciplina in via generale) viene incongruamente (e contraddittoriamente) ipotizzato un contrasto con l’art. 117, primo comma, della Costituzione, senza alcun riferimento alla violazione del parametro dell’eguaglianza di cui all’articolo 3 Cost. rispetto alla posizione del soccombente parziale; l’indennizzo riconosciuto a quest’ultimo è, infatti, parametrato al valore del diritto accertato, che è inferiore, secondo quanto prospetta il giudice a quo, rispetto a quello minimo riconosciuto al soccombente totale in relazione alla forbice di cui all’art. 2-bis, comma 1, della legge 89 del 2001»;

che, ai fini della ricerca di un’interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione censurata, il giudice rimettente avrebbe omesso di considerare sia la ratio delle modificazioni apportate dall’art. 55 del d.l. n. 83 del 2012 alla legge n. 89 del 2001, sia il contesto sistematico in cui tale disposizione si inserisce;

che, al riguardo, la difesa statale rammenta anzitutto che la citata novella si configura come un «tentativo di contenere i costi a carico del bilancio dello Stato derivanti dagli indennizzi liquidati e di razionalizzare il carico di lavoro che grava sulle Corti d’appello, evitando che la durata dei procedimenti per la liquidazione delle indennità possa dar luogo, a sua volta, a responsabilità dello Stato per violazione dell’articolo 6 CEDU»;

che, a tale fine, il menzionato art. 55 avrebbe «diversamente strutturato lo stesso diritto all’equa riparazione» attraverso: a) la fissazione, in via presuntiva, dei termini di durata ragionevole dei processi (art. 2, commi 2-bis, 2-ter e 2-quater della legge n. 89 del 2001); b) l’individuazione di «ipotesi tipicamente abusive dei poteri processuali […] che costituiscono cause di esclusione dell’indennizzo» (art. 2, comma 2-quinquies, della legge n. 89 del 2001); c) la previsione di parametri e limiti nella determinazione concreta dell’indennizzo (art. 2-bis della legge n. 89 del 2001);

che, sempre secondo la difesa dello Stato, spetta, comunque, al giudice investito della domanda, la doverosa valutazione della sussistenza del diritto a un’equa riparazione − da effettuare in base a un criterio che tenga conto dei parametri (fissati dal comma 2 dell’art. 1 della legge n. 89 del 2001, anch’esso sostituito dal numero 1 della lettera a del comma 1 dell’art. 55 del d.l. n. 83 del 2012) della complessità del caso, dell’oggetto del procedimento, del comportamento delle parti e del giudice durante il procedimento presupposto (nonché di ogni altro soggetto chiamato a concorrervi o a contribuire alla sua definizione) − sicché «perché l’obbligazione indennitaria consegua alla violazione della ragionevole durata del processo e sia in concreto configurabile, è necessario il previo accertamento costitutivo del giudice» e che, analogamente, la mancata previsione di automatismi nella commisurazione dell’indennizzo deriva dalla necessità di considerare la specificità di ciascun caso;

che l’Avvocatura generale dello Stato prosegue sottolineando come sia pacifico nella giurisprudenza della Corte di cassazione − che ha recepito, sul punto, gli orientamenti della Corte europea dei diritti dell’uomo − che il diritto all’equa riparazione spetta indipendentemente dall’esito del processo presupposto «ad eccezione del caso in cui il soccombente fosse consapevole della inconsistenza delle proprie istanze», sicché sarebbe impossibile, sempre secondo la difesa statale, interpretare l’impugnato comma 3 nel senso che esso nega l’indennizzo all’interamente soccombente;

che vi sarebbe, invece, la possibilità di liquidare a tale parte soccombente nel processo presupposto un indennizzo compreso tra 500 e 1.500 euro per ogni anno di ritardo secondo quanto previsto dal comma 1 dell’art. 2-bis, «dando spazio, nella decisione, agli ulteriori parametri oggettivi di valutazione introdotti con la sopra illustrata finalità calmieratrice della riforma»;

che, del resto, prosegue la difesa statale, «il richiamo alla soglia del valore del “diritto accertato” conferma la coerenza di un’interpretazione in linea con la ratio della riforma, nell’ipotesi in cui il soccombente parziale (la cui pretesa si sia considerevolmente ridotta in sede di accertamento giudiziale) abbia, nel successivo giudizio di equa riparazione, sostanzialmente prospettato, in termini di tendenziale abuso del processo, una domanda irragionevolmente eccedente il diritto effettivamente vantato (e riconosciuto nel giudizio presupposto). Così limitato lo spettro dell’intervento normativo, se ne comprende la ragionevolezza in chiave costituzionalmente orientata: la parte che nel giudizio presupposto abbia chiesto 1.000 e ottenuto 100 avrà, in sede di equa riparazione, una liquidazione non superiore a quest’ultimo importo, perché, pur avendo ragione nel merito, ha ecceduto nella quantificazione della richiesta; ciò non è incongruo rispetto alla posizione di chi, pur avendo chiesto allo stesso modo 1.000, non ha avuto riconosciuto nulla per effetto di una decisione sull’an di una pretesa comunque legittimamente e non abusivamente avanzata»;

che, poiché una tale interpretazione «non è stata neppure ipotizzata dal giudice rimettente», anche sotto tale profilo la questione sarebbe manifestamente inammissibile;

che, con ordinanza del 19 settembre 2013 (r.o. n. 3 del 2014), la Corte d’appello di Reggio Calabria, sezione civile, nella persona del giudice designato al fine di provvedere sulla domanda di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo, nel corso di un procedimento avente a oggetto una domanda di equa riparazione proposta dalla parte risultata soccombente nel processo presupposto, ha sollevato, in riferimento all’art. 117 Cost., in relazione all’art. 6, paragrafo 1, della CEDU, questione di legittimità del comma 3 dell’art. 2-bis della legge n. 89 del 2001, «nella parte in cui limita la misura dell’indennizzo (liquidabile in favore della parte che abbia subito un danno per la durata irragionevole del processo presupposto) al “valore del diritto accertato” senza alcuna ulteriore specificazione o limite, comportando in tal modo l’impossibilità di liquidare in alcuna misura un’equa riparazione in favore della parte che, nel processo presupposto, sia risultata interamente soccombente»;

che il giudice rimettente riferisce, in punto di fatto: a) di essere investito del ricorso, proposto il 26 luglio 2013 nei confronti del Ministero della giustizia, con il quale F.G. aveva chiesto l’indennizzo del danno subíto per effetto dell’irragionevole durata di una controversia civile promossa davanti al Tribunale ordinario di Messina; b) che il ricorrente nel giudizio a quo era risultato interamente soccombente in detto presupposto processo civile, atteso che lo stesso era stato definito con una sentenza del Tribunale ordinario di Messina che aveva rigettato la domanda dello stesso ricorrente e che era passata in giudicato il 15 aprile 2013;

che, in punto di rilevanza e di non manifesta infondatezza della questione, la Corte di appello rimettente svolge considerazioni identiche a quelle esposte nell’ordinanza del 16 settembre 2013 (r.o. n. 266 del 2013);

che è intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o manifestamente infondata;

che la difesa dello Stato prospetta deduzioni di contenuto analogo a quelle di cui all’atto di intervento nel giudizio iscritto al n. 266 del registro ordinanze 2013;

che, con ordinanza del 24 ottobre 2013 (r.o. n. 21 del 2014), la Corte d’appello di Reggio Calabria, sezione civile, nella persona del giudice designato al fine di provvedere sulla domanda di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo, nel corso di un procedimento avente a oggetto una domanda di equa riparazione proposta dalla parte risultata soccombente nel processo presupposto, ha sollevato, in riferimento all’art. 117 Cost., in relazione all’art. 6, paragrafo 1, della CEDU, questione di legittimità del comma 3 dell’art. 2-bis della legge n. 89 del 2001, «nella parte in cui limita la misura dell’indennizzo (liquidabile in favore della parte che abbia subito un danno per la durata irragionevole del processo presupposto) al “valore del diritto accertato” senza alcuna ulteriore specificazione o limite, comportando in tal modo l’impossibilità di liquidare in alcuna misura un’equa riparazione in favore della parte che, nel processo presupposto, sia risultata interamente soccombente»;

che il giudice rimettente riferisce, in punto di fatto: a) di essere investito del ricorso in riassunzione, proposto il 17 ottobre 2013 nei confronti del Ministero della giustizia, con il quale M.N. aveva chiesto l’indennizzo del danno subíto per effetto dell’irragionevole durata di una controversia di lavoro da lui promossa davanti al Giudice del lavoro di Siracusa con ricorso depositato il 3 ottobre 1996 diretto a ottenere il riconoscimento dell’illegittimità del licenziamento intimatogli dalla Industria Acqua Siracusana s.p.a.; b) che il ricorrente nel giudizio a quo era risultato interamente soccombente in detto presupposto processo di lavoro, atteso che lo stesso era stato definito, in sede di rinvio, con la sentenza della Corte d’appello di Messina n. 1289 del 2011, che aveva rigettato la domanda dello stesso ricorrente;

che, in punto di rilevanza e di non manifesta infondatezza della questione, la Corte d’appello rimettente svolge considerazioni identiche a quelle esposte nelle ordinanze iscritte al n. 266 del registro ordinanze 2013 e al n. 3 del registro ordinanze 2014;

che è intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o manifestamente infondata;

che la difesa dello Stato prospetta deduzioni di contenuto analogo a quelle di cui agli atti di intervento nei giudizi iscritti al n. 266 del registro ordinanze 2013 e al n. 3 del registro ordinanze 2014;

che, con ordinanza pronunciata il 31 ottobre 2013 e depositata l’11 novembre 2013 (reg. ord. n. 23 del 2014), la Corte d’appello di Reggio Calabria, sezione civile, nel corso di un procedimento di opposizione contro un decreto che aveva deciso su di una domanda di equa riparazione proposta dalla parte risultata soccombente nel processo presupposto, ha sollevato, in riferimento all’art. 117 Cost., in relazione all’art. 6, paragrafo 1, della CEDU, questione di legittimità del comma 3 dell’art. 2-bis della legge n. 89 del 2001, «nella parte in cui limita la misura dell’indennizzo (liquidabile in favore della parte che abbia subito un danno per la durata irragionevole del processo presupposto) al “valore del diritto accertato” senza alcuna ulteriore specificazione o limite, comportando in tal modo l’impossibilità di liquidare in alcuna misura un’equa riparazione in favore della parte che, nel processo presupposto, sia risultata interamente soccombente»;

che il giudice rimettente riferisce, in punto di fatto: a) di essere investito dell’opposizione proposta, ai sensi dell’art. 5-ter della legge n. 89 del 2001, da S.F. nei confronti del Ministero della giustizia avverso il decreto del 22 maggio 2013 con il quale la Corte d’appello di Reggio Calabria aveva rigettato il ricorso proposto dallo stesso S.F. il 2 maggio 2013 al fine di ottenere l’indennizzo del danno subíto per effetto dell’irragionevole durata di una controversia; b) che il contraddittorio era stato ritualmente integrato nei confronti dell’amministrazione opposta a mezzo della notificazione del ricorso in opposizione presso la competente Avvocatura distrettuale dello Stato il 2 agosto 2013; c) che il diritto all’indennizzo era stato negato dal giudice di prime cure in ragione del fatto che lo stesso S.F. era stato integralmente soccombente nel processo presupposto; d) che l’opponente S.F. lamenta che: d.1.) la tipicità e la tassatività delle ipotesi di esclusione del diritto all’indennizzo previste dall’art. 2-quinquies (recte: art. 2, comma 2-quinquies) della legge n. 89 del 2001 impedisce che, tra di esse, possa essere compresa «quella ulteriormente coniata dal provvedimento impugnato»; d.2.) la negazione del diritto all’indennizzo da parte del giudice di prime cure «deriverebbe, in ogni caso, da un’applicazione analogica dell’art. 2-bis [della legge n. 89 del 2001] non consentita dalla circostanza del vertere tale disposizione non l’an, ma solo il quantum, dell’indennizzo riconoscibile»; e) che l’opposto Ministero della giustizia ha dedotto: e.1.) l’inammissibilità del ricorso in opposizione «per omessa illustrazione delle ragioni fondanti il relativo merito»; e.2.) in subordine, l’infondatezza della domanda; f) che detta eccezione di inammissibilità del ricorso in opposizione non è fondata perché dalla documentazione in atti si evince che l’opponente S.F. «pur non allegando il decreto opposto ha chiaramente ed efficacemente, quantunque per sintesi, enunciato il contenuto del medesimo e le ragioni ivi addotte, nonché le doglianze al riguardo da sé mosse, consentendo così agevolmente l’esercizio del contraddittorio»;

che il medesimo giudice rimettente espone poi le seguenti considerazioni in punto di rilevanza e di non manifesta infondatezza della questione sollevata;

che egli premette anzitutto che la soccombenza nel giudizio presupposto è espressamente prevista come causa di rigetto della domanda di equa riparazione solo nel caso in cui ricorrano le ulteriori condizioni previste dalle lettere a) e b) del comma 2-quinquies dell’art. 2 della legge n. 89 del 2001 o quando la parte soccombente nel giudizio presupposto abbia «posto in essere un abuso di poteri processuali che abbia determinato un’ingiustificata dilatazione dei termini del procedimento», sicché persiste la «legittimazione in capo [a detta] parte […] a far valutare l’eventuale sussistenza d’una lesione del suo diritto a conseguire in un tempo ragionevole una pronuncia risolutiva della questione controversa»;

che il comma 3 dell’art. 2-bis della legge n. 89 del 2001, che ha introdotto un tetto massimo o valore soglia della misura dell’indennizzo, «in quanto non coordinata con [detto] superiore principio», farebbe insorgere i seguenti due problemi interpretativi che, in quanto reciprocamente interdipendenti, necessitano di soluzioni tra loro coerenti: a) il significato da attribuire alla locuzione “valore del diritto accertato dal giudice”; b) «se l’introduzione d’un tetto massimo all’indennizzo liquidabile […] valga per tutti i possibili epiloghi del giudizio presupposto e per tutte le parti d’esso (qualora, ovviamente, promuovano un ricorso ex lege Pinto)»;

che, quanto al primo dei problemi segnalati, il giudice a quo osserva che: a) il parametro del “valore del diritto accertato”, ancorché suppletivo, prevale rispetto a quello del valore della causa, qualora in concreto sia inferiore a quest’ultimo; b) al fine di individuare il parametro primario del valore della causa, il solo riferimento è quello alla disciplina della determinazione del valore della controversia dettata dagli articoli da 7 a 17 cod. proc. civ.; c) mentre per la cause di valore determinato o determinabile il limite dell’indennizzo costituito dal valore della causa sarebbe agevolmente individuabile, per le cause di valore indeterminabile «è dubbio se debba applicarsi il criterio per cui la causa avrà valore entro il tetto massimo di competenza del giudice adito (soluzione che potrebbe operare peraltro soltanto per le cause di competenza del giudice di pace) o quello aliunde determinato ai sensi degli artt. 10 e ss., ovvero se la predetta disposizione non trovi applicazione e quindi l’indennizzo liquidabile ex lege n. 89 del 2001 non debba, in tali ipotesi, incontrare alcun tetto massimo»; d) l’epilogo del procedimento presupposto, in particolare la soccombenza di chi successivamente proponga domanda di equa riparazione, rileva come elemento per stabilire il limite massimo della misura in concreto dell’indennizzo; e) «in subiecta materia notoriamente è ammesso che sussiste un pregiudizio in re ipsa, suscettibile dunque di quantificazione equitativa», con la conseguenza che non potrebbe affermarsi né che è onere del ricorrente dedurre e provare se sussista e quale sia, nella specie, il valore soglia di cui al comma 3 dell’art. 2-bis, né che, in difetto di allegazione o deduzione di elementi idonei a consentire l’individuazione dello stesso, ciò comporterebbe l’inammissibilità o il rigetto del ricorso (trovando applicazione, in virtù del rinvio ad essi operato dal secondo periodo del comma 4 dell’art. 3 della legge n. 89 del 2001, i primi due commi dell’art. 640 cod. proc. civ.); f) mentre, ai fini della competenza, la legge fa riferimento, per la determinazione del valore della causa, al petitum (o ai petita), la legge n. 89 del 2001 fa riferimento al valore ritenuto nella decisione, ragione per cui «va chiarito quale sia l’effettivo contenuto prescrittivo della disposizione»;

che, quanto al secondo dei problemi segnalati, secondo la Corte rimettente andrebbe verificato se la disposizione censurata integri un’ulteriore causa di eventuale esclusione dell’indennizzo, ancorché non indicata come tale, «nel senso che nulla possa essere riconosciuto all’istante nel caso in cui il diritto dallo stesso asseritamente vantato sia fatto valere in giudizio ma sia stato affermato insussistente (in tutto o in parte), ovvero se qualora il ricorrente sia stato soccombente (in tutto o in parte) nel giudizio presupposto e detto giudizio abbia avuto durata irragionevole, la negazione del diritto preteso non valga anche ad escludere il diritto ad equo indennizzo»;

che, a fronte di tale problema, sussisterebbero, secondo il rimettente, «almeno» le tre seguenti opzioni praticabili: a) quella ora indicata per prima che, pur se apparentemente in contrasto con l’orientamento della Corte EDU secondo il quale anche la parte interamente soccombente ha diritto all’equa soddisfazione nel caso di durata irragionevole del processo, sarebbe praticabile in quanto: a.1) quella «probabilmente […] più coerente con l’esigenza calmieratrice» alla quale avrebbe inteso rispondere l’art. 55 del d.l. n. 83 del 2012; a.2) «in sintonia […] con alcuni spunti offerti dalla relazione introduttiva del testo del disegno di legge poi […] approvato dal Parlamento» (in particolare, con il rilevo da essa attribuito alla «necessità d’arginare la presunzione di dannosità della prolungata durata di un processo in modo che non divenga assoluta, ma rimanga iuris tantum»; a.3) coerente con la ratio sottostante alle disposizioni del comma 2 dell’art. 2-quinquies, della lettera a) del comma 2 dell’art. 2-bis, e dell’art. 4 della legge n. 89 del 2001; b) quella secondo cui l’indennizzo è riconosciuto anche al ricorrente che sia risultato totalmente soccombente nel giudizio presupposto − salve le cause di esclusione espressamente previste − «ma pure che esso debba essere commisurato entro il range normativamente stabilito − tra i 500 ed i 1500 euro per anno (o frazione) − e comunque con le limitazioni di soglia o di tetto massimo dettate dall’art. 2-quinquies comma 3 (come dire che non solo il vittorioso nel giudizio presupposto ma anche il soccombente incontrerà un limite quantitativo alla pretesa riconoscibile»; c) quella in base alla quale «in detta liquidazione a pro del totale soccombente il valore soglia suddetto non dovrebbe operare (perché non v’è a suo favore riconoscimento d’alcun diritto al cui valore parametrare tale tetto massimo); ma è palese che tanto implicherebbe una diversificazione di trattamento (con esito premiale per il soccombente e penalizzante per il vittorioso parziale) difficilmente compatibile con i principi costituzionali d’uguaglianza e ragionevolezza»;

che, ad avviso del ricorrente, la seconda delle opzioni indicate sarebbe quella più coerente con il costante indirizzo della Corte europea dei diritti dell’uomo e con la lettera della legge e, per tale ragione, andrebbe «tendenzialmente preferita, perché se il legislatore avesse voluto anche in tale ipotesi derogarvi (in ossequio a principi superiori d’ordinamento, quali quelli d’uguaglianza e di ragionevolezza) avrebbe potuto e dovuto prevederlo»;

che, tuttavia, prosegue il rimettente, occorre ugualmente chiarire cosa debba intendersi per “valore del diritto accertato”;

che, al riguardo, il giudice a quo afferma che: a) «assumere che il valore di soglia massima sia applicabile per il solo caso in cui il ricorrente ex lege n. 89 del 2001 sia stato sostanzialmente vittorioso (in tutto o in parte) nel giudizio presupposto non risulta, in difetto d’espresse clausole limitative, ammissibile», tenuto conto anche che la disposizione in esame deve esser coordinata con il comma 2 del medesimo art. 2-bis, «che a tanto non fa alcun riferimento», nonché del fatto che l’accertamento della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo dipende non solo da quanto accade nel corso dello stesso (come sembrerebbe dalla lettura del comma 2 dell’art. 2 della legge n. 89 del 2001), ma anche dal suo esito (occorrendo verificare che non ricorrano le ipotesi di espressa esclusione dal riconoscimento dell’indennizzo); b) «opinare che la superiore lettera possa interpretarsi nel senso di aver fatto riferimento alla vittoriosità o alla soccombenza in senso processuale e non sostanziale (equiparando così l’una all’altra delle due parti del giudizio presupposto) non sembra discutibile tanto sotto il profilo dell’equità sostanziale, quanto sotto il profilo del rigore formale dell’interpretazione», considerato che «non appare […] concettualmente scorretto legittimare, in tali eventualità, l’impiego quale valore di soglia massima di liquidazione − in via suppletiva rispetto a quello del valore del diritto riconosciuto (che non c’è perché la sentenza “rigetta” o dichiara inammissibile o improponibile o improcedibile la domanda) − quello del valore “positivo” che il giudizio abbia comunque recato alla parte processualmente vittoriosa: avendo infatti il diritto negato all’uno un rilievo concreto economicamente correlabile alla sfera giuridica dell’altro (nel senso che il convenuto nel giudizio presupposto che non formuli riconvenzionali ma si limiti ad una mera difesa comunque “lucra” dalla sconfitta della pretesa altrui la stabilizzazione della sua situazione quo antea, ossia il non dover corrispondere o il non dover adempiere ad un facere altrimenti per lui oneroso nella misura del petitum preteso e poi disatteso), l’interessato potrebbe venire a conseguire un indennizzo da irragionevole durata pur non avendo azionato alcuna pretesa ex adverso, ed addirittura in misura massima, mentre quella consentita al sostanzialmente vittorioso (ma processualmente di gran lunga soccombente) potrebbe essere decisamente inferiore alla prima; e ciò non risulterebbe irragionevole (o comunque lesivo dell’uguaglianza sostanziale delle parti di lite), per la diversa incidenza concreta sulla situazione di vita dell’uno e dell’altro della pendenza in sé d’un processo potenzialmente foriero d’apportare vantaggio o svantaggio rilevante ad entrambi i contendenti; in tale ipotesi si dovrebbe però prescindere dal principio della domanda, che sembra invece recepito dal dictum espresso dalla disposizione in esame (“… valore del diritto accertato …”)»; c) «di dubbia legittimità appare, invece, una liquidazione equitativa che − adottando, in via suppletiva, un criterio di perequazione correttivo di potenziali distorsioni − riconoscesse che l’ammontare: o del valore del diritto riconosciuto in concreto alla controparte; o del valore del giudizio (in base al variabile grado di rilevanza della soccombenza, se parziale o totale) possano costituire soglie non superabili per entrambi i già contendenti; e ciò nel senso che, qualora il valore del diritto accertato in capo all’attore (o ricorrente) del giudizio presupposto fosse o inferiore a quello del valore del giudizio in senso processuale, o comunque accertato ex post, della controparte, questa non potrebbe vedersi comunque riconosciuto un indennizzo superiore a quello dell’attore sostanzialmente soccombente; e ciò poiché tanto risulta incompatibile con l’indole oggettiva del valore “soglia” in questione e non è consentito dal tipo di discrezionalità ammessa per il giudicante in subiecta materia, poiché detta discrezionalità è pur sempre “vincolata” − trattandosi d’un procedimento liquidatorio che conferisce al decidente un potere mai sostanzialmente arbitrario, ove si riconosca che è comunque prevista una soglia minima inderogabile (riferibile all’indole non meramente simbolica dell’indennizzo da riconoscere) − e la sua sindacabilità in sede d’opposizione garantisce che l’eventuale ricorso appunto a parametri d’equità non vulneri il fondamento che la predetta discrezionalità ripete dalla legge vigente»;

che il rimettente indica perciò i seguenti «casi astrattamente prospettabili» in cui il proponente la domanda di equa riparazione sia stato: a) parzialmente soccombente – quale attore (o ricorrente) o quale convenuto (o resistente) – nel giudizio presupposto; b) totalmente soccombente – quale convenuto (o resistente) – nel giudizio presupposto; c) totalmente soccombente – quale attore (o ricorrente) – nel giudizio presupposto;

che, sulla base di quanto in precedenza esposto, il giudice a quo afferma quindi che: a) nel primo caso, «il valore “soglia” comunque non superabile nella liquidazione dell’indennizzo (imposto dall’art. 2 bis comma 3 della legge citata) debba essere identificato nel valore del diritto effettivamente riconosciuto alla parte sostanzialmente vittoriosa»; b) nel secondo caso, «il valore “soglia” comunque non superabile sarà pur sempre individuato nel valore del diritto riconosciuto alla parte sostanzialmente vittoriosa, ed ovviamente, salva la specificità della vicenda processuale (che potrà giustificare, in situazioni peculiari, anche l’equiparazione tra le parti), potrà essere diversificata la misura dell’indennizzo – entro il range assentito – con tendenziale liquidazione di quella del sostanzialmente soccombente in misura inferiore a quella riconoscibile al sostanzialmente vittorioso ma con possibilità di sua equiparazione ad essa»; c) nel terzo caso, «l’accertamento negativo della sussistenza di un diritto equivale all’accertamento che il diritto fatto valere in giudizio ha valore (per chi asseriva di esserne titolare e di poterne fruire e disporre) giuridicamente ed economicamente pari a zero»;

che il rimettente precisa ancora che «ove non siano formulate riconvenzionali, ma mere difese (o eccezioni idonee a paralizzare la pretesa altrui), non v’è ex adverso alcuna domanda e pertanto non può agevolmente affermarsi che la pronuncia abbia implicitamente accertato contra un qualche diritto del convenuto o del resistente (cui riferire l’individuazione del predetto valore soglia)»;

che, a quest’ultimo proposito, il rimettente aggiunge ancora che: a) «se il soccombente e la controparte permangono nella situazione quo antea, che dal punto di vista della controparte vi sia una sostanziale vittoriosità, poiché essa pur godrà del risultato utile costituito dalla continuità di detta situazione di fatto rispetto alle pretese dell’attore (o ricorrente) su cui sia intervenuto il giudicato ed entro i limiti del suo valore (quale emerso in decisione) potrà invocare per sé indennizzo (come riconosciuto sub b)»; b) «ciò non equivale ad alcuna stabilizzazione o qualificabilità della stessa alla stregua d’un diritto o di situazione di fatto giuridicamente tutelabile né verso costui né verso chicchessia ed implicherà soltanto che il bene della vita controverso (che ha pur sempre un valore economicamente quantificabile) risulterà “intatto” rispetto all’iniziativa attorea, ma solo interinalmente»; c) «a pro dell’attore o ricorrente – che subisca (nel giudizio presupposto) la predetta soccombenza processuale, eventualmente con condanna soltanto per la rifusione delle spese processuali, ai fini della quantificazione del correlato diritto ad equo indennizzo in caso di durata irragionevole di detto procedimento potrà utilizzarsi quale valore “soglia” non superabile quello del valore economico del diritto antea goduto dal convenuto o resistente vittorioso, o, qualora non ve ne fosse alcuno, il valore soglia costituito dal valore economico del bene della vita dedotto in controversia quale emerso in decisione mentre, in ultima analisi, se esso non sia suscettibile di rilievo patrimoniale, non v’è a ben vedere un parametro che consenta di provvedere»;

che il giudice rimettente afferma poi che le pronunce adottate sino ad allora dalla Corte d’appello di Reggio Calabria erano state discordanti circa la soluzione da dare alla «questione esaminata» in quanto, in una occasione, essa era stata risolta, da un magistrato designato, «nel senso di riconoscere comunque l’operatività della norma di riferimento, pur senza che sia ritraibile nel sistema certezza rassicurante in proposito», in un’altra, sollevando, da parte di un diverso magistrato designato, la questione di legittimità costituzionale successivamente iscritta al n. 185 del registro ordinanze 2013;

che il rimettente, dopo avere riprodotto testualmente la motivazione di tale ordinanza di rimessione in punto di rilevanza e di non manifesta infondatezza, conclude affermando che «quanto sinora esposto legittima ulteriormente a ritenere sussistenti i presupposti per promuovere dunque, in piena adesione al secondo precedente retro richiamato, incidente di costituzionalità della disposizione in premessa richiamata anche nell’odierno procedimento»;

che è intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o manifestamente infondata;

che la difesa dello Stato prospetta deduzioni di contenuto sostanzialmente analogo a quelle di cui agli atti di intervento nei giudizi iscritti al n. 266 del registro ordinanze 2013 e ai nn. 3 e 21 del registro ordinanze 2014.

Considerato che la Corte d’appello di Reggio Calabria, sezione civile, nelle persone dei giudici designati al fine di provvedere su domande di equa riparazione per violazione del termine ragionevole del processo proposte da soggetti che erano risultati soccombenti nei rispettivi processi presupposti, con quattro ordinanze di analogo contenuto, dubita, in riferimento all’art. 117, primo comma, della Costituzione, della legittimità dell’art. 2-bis, comma 3, della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile) – a norma del quale: «La misura dell’indennizzo, anche in deroga al comma 1 [che, a sua volta, stabilisce che: «Il giudice liquida a titolo di equa riparazione una somma di denaro, non inferiore a 500 euro e non superiore a 1.500 euro, per ciascun anno, o frazione di anno superiore a sei mesi, che eccede il termine ragionevole di durata del processo»], non può in ogni caso essere superiore al valore della causa o, se inferiore, a quello del diritto accertato dal giudice» − nella parte in cui, col disporre che la misura dell’indennizzo liquidabile a titolo di equa riparazione «non può in ogni caso essere superiore […] al valore del diritto accertato dal giudice» (se inferiore al valore della causa), comporterebbe «l’impossibilità di liquidare in alcuna misura un’equa riparazione in favore della parte che, nel processo presupposto, sia risultata interamente soccombente»;

che, secondo i rimettenti, la disposizione denunciata, così intesa, viola l’art. 117, primo comma, Cost., perché si pone in contrasto, in particolare, con l’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (di séguito, «CEDU» o «Convenzione»), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848, il quale, nell’interpretazione che ne ha dato la Corte europea dei diritti dell’uomo, prevede che l’equa soddisfazione (art. 41 della CEDU) per la lesione del diritto − da esso garantito − alla durata ragionevole del processo spetta a tutte le parti di questo, indipendentemente dal suo esito, e, in specie, anche alla parte che sia risultata soccombente;

che, in considerazione dell’identità delle questioni proposte con le quattro ordinanze di rimessione, i giudizi di legittimità costituzionale possono essere riuniti e decisi con un’unica pronuncia;

che, preliminarmente, devono essere disattese le eccezioni di inammissibilità della sollevata questione prospettate dall’Avvocatura generale dello Stato;

che va anzitutto rigettata l’eccezione, formulata dalla difesa statale, di inammissibilità della sollevata questione in quanto diretta ad ottenere un’indicazione interpretativa sul significato da attribuire al limite dell’indennizzo costituito dal «valore […] del diritto accertato dal giudice», ciò che configurerebbe l’incidente di costituzionalità come un improprio tentativo di conseguire da questa Corte un avallo interpretativo;

che, infatti, la questione sollevata non mira a ottenere l’avallo di questa Corte all’interpretazione del comma 3 dell’art. 2-bis della legge n. 89 del 2001 che, tra le varie possibili, i rimettenti ritengono preferibile, ma consiste, piuttosto, nella denuncia del contrasto tra l’unico significato normativo che i giudici a quibus reputano attribuibile a detta disposizione − quello secondo cui essa comporterebbe l’impossibilità di liquidare un indennizzo a titolo di equa riparazione della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo in favore di chi sia risultato, nello stesso, soccombente − e il parametro costituzionale invocato;

che deve pure essere respinta l’eccezione, formulata dalla difesa statale, di inammissibilità della questione sollevata perché i rimettenti avrebbero omesso di verificare la possibilità di un’interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione censurata, non avendo, in particolare, «neppure ipotizzato» la possibilità «di liquidare [alla parte totalmente soccombente nel processo presupposto] un importo compreso nella forbice predeterminata dalla legge (500/1.500 euro per ciascun anno di ritardo)» al comma 1 dell’art. 2-bis;

che, infatti, contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa erariale, i giudici rimettenti hanno verificato la possibilità di un’interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione denunciata, ritenendola, però, impraticabile alla luce del tenore letterale della stessa che, a loro avviso, impedirebbe di attribuirle un significato diverso da quello sospettato di illegittimità («ogni pur dovuto tentativo in tale direzione [dell’interpretazione costituzionalmente adeguata] è destinato a scontrarsi con l’insuperabile dato testuale della norma, che impedisce di liquidare un indennizzo in misura superiore al “valore del diritto accertato”»);

che deve infine essere respinta anche l’ulteriore eccezione, sempre formulata dall’Avvocatura generale dello Stato, di inammissibilità della questione sollevata in quanto i rimettenti, nel lamentare che il limite del valore del diritto accertato dal giudice, comportando che nessun indennizzo possa essere liquidato al soccombente nel processo presupposto, si pone in contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost., avrebbero trascurato di considerare che, in caso di rimozione di detto limite, allo stesso soccombente nel processo presupposto verrebbe riservato un trattamento più favorevole di quello spettante a chi, nello stesso processo, sia risultato, sia pure parzialmente, vittorioso (nel senso che il diritto da lui fatto valere in giudizio è stato affermato, almeno in parte, esistente), atteso che, solo nei confronti di quest’ultimo, continuerebbe a trovare applicazione il limite del valore del diritto accertato dal giudice, con conseguente violazione dell’art. 3 Cost.;

che, infatti, la diversità di trattamento che, nel caso di accoglimento della questione sollevata, si verrebbe a determinare tra il soccombente nel processo presupposto, al quale diverrebbe applicabile il solo, più favorevole, limite del valore della causa e il parzialmente vittorioso nello stesso processo, al quale continuerebbe ad applicarsi il meno favorevole limite del valore del diritto accertato dal giudice, può fare sorgere un dubbio in ordine alla ragionevolezza di tale diversità e all’eventuale conseguente contrasto con l’art. 3 Cost. che, tuttavia, di per sé solo, non è suscettibile di precludere l’esame del merito della questione sollevata e l’eventuale rimozione, in accoglimento della stessa, del vulnus all’art. 117, primo comma, Cost., denunciato dai rimettenti;

che, nel merito, la questione sollevata deve essere dichiarata manifestamente infondata;

che, infatti, questa Corte, con l’ordinanza n. 124 del 2014, ha già dichiarato la manifesta infondatezza di un’identica questione di legittimità costituzionale − sollevata, con ulteriori otto ordinanze, dalla medesima Corte d’appello di Reggio Calabria − sul rilievo dell’erroneità del presupposto interpretativo assunto a fondamento della stessa, atteso che il comma 3 dell’art. 2-bis della legge n. 89 del 2001, nella parte in cui prevede che la misura dell’indennizzo liquidabile a titolo di equa riparazione «non può in ogni caso essere superiore […] al valore del diritto accertato dal giudice», deve essere inteso nel senso che si riferisce ai soli casi in cui questi accerti l’esistenza del diritto fatto valere in giudizio dall’attore, il cui valore accertato «costituisce un dato oggettivo, che non muta in ragione della posizione che la parte che chiede l’indennizzo aveva nel processo presupposto», con la conseguenza che detta censurata disposizione, contrariamente a quanto ritenuto dai rimettenti, non comporta l’impossibilità di liquidare un indennizzo a titolo di equa riparazione della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, in favore di chi, attore o convenuto, sia risultato, nello stesso, soccombente;

che, al riguardo, i rimettenti non hanno prospettato, nel merito, profili o argomentazioni diversi rispetto a quelli già esaminati da questa Corte con la citata ordinanza o comunque idonei ad indurre ad una differente pronuncia sulla sollevata questione di legittimità costituzionale;

che resta estranea all’oggetto del presente giudizio ogni valutazione in ordine alla legittimità del limite del valore del diritto accertato dal giudice con riguardo all’applicazione dello stesso nel caso in cui tale diritto sia stato accertato in parte esistente.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, commi 1 e 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

La Corte Costituzionale

riuniti i giudizi,

dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 2-bis, comma 3, della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile), sollevata, in riferimento all’art. 117, primo comma, della Costituzione, dalla Corte d’appello di Reggio Calabria, sezione civile, con le ordinanze indicate in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 luglio 2014.