G.U. 10 maggio 2017, n. 19
Con questa ordinanza, la Corte costituzionale ha dichiarato manifestamente inammissibili le questioni di legittimità costituzionale (giudizi riuniti) relative all’art. 74 d. lgs. n. 151/2001 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’art. 15 della l. n. 53/2000). Secondo i Tribunali ordinari di Reggio Calabria e di Bergamo, in funzione di giudice del lavoro, la norma censurata violava, tra gli altri, l’art. 117, co. 1, Cost., in relazione agli artt. 14 CEDU (divieto di discriminazione), 1 del Primo Protocollo addizionale alla CEDU (protezione della proprietà) e 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE (non discriminazione). Ciò con riferimento, in particolare, alla parte in cui la norma censurata stabilisce che la titolarità del permesso di soggiorno di lungo periodo è un requisito per la concessione dell’assegno di maternità, operando quindi una discriminazione tra cittadini e stranieri legalmente soggiornanti sul territorio dello Stato. La questione è stata ritenuta inammissibile per insufficienza della motivazione dell’ordinanza di rinvio.
Ordinanza
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 74 del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53), promossi con ordinanza del 30 marzo 2015 dal Tribunale ordinario di Reggio Calabria, in funzione di giudice del lavoro, e con due ordinanze del 30 novembre 2015 dal Tribunale ordinario di Bergamo, in funzione di giudice del lavoro, rispettivamente iscritte al n. 202 del registro ordinanze 2015 e ai nn. 56 e 57 del registro ordinanze 2016, pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 41, prima serie speciale, dell’anno 2015 e n. 12, prima serie speciale, dell’anno 2016.
Visti gli atti di costituzione dell’Istituto nazionale della previdenza sociale, di D.B., di E.B. e di S.S. nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 7 marzo 2017 il Giudice relatore Alessandro Criscuolo;
uditi gli avvocati Alberto Guariso per D.B., E.B. e S.S., Antonietta Coretti per l’INPS e l’avvocato dello Stato Massimo Giannuzzi per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto che con ordinanza del 30 marzo 2015 il Tribunale ordinario di Reggio Calabria, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 74 del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53), «nella parte in cui, nel subordinare il diritto a prestazioni previdenziali che costituiscono diritti soggettivi e siano dirette a soddisfare bisogni primari della persona, fra i quali appunto l’assegno di maternità, al possesso di carta di soggiorno», introduce «un requisito idoneo a generare una irragionevole discriminazione dello straniero nei confronti del cittadino», in riferimento agli artt. 2, 3, 10, 31, 38 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, 1 del Primo Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, e 6 del Trattato sull’Unione europea;
che il giudice a quo ha premesso di essere stato investito del ricorso proposto nei confronti del Comune di Botricello (Provincia di Catanzaro) e dell’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) da una cittadina eritrea, titolare di permesso di soggiorno per motivi umanitari, alla quale, a norma della disposizione qui denunciata, era stato negato l’assegno di maternità per via del mancato possesso della carta di soggiorno (ora permesso di soggiorno di lungo periodo);
che, secondo il rimettente, tale disposizione si pone in contrasto con l’art. 2 della Costituzione, sotto il profilo della violazione del dovere di solidarietà; con l’art. 3 Cost., per violazione del principio di eguaglianza, poiché disciplina situazioni identiche in modo diverso a seconda che si tratti di cittadine italiane e comunitarie ovvero di donne straniere prive di carta di soggiorno; con l’art. 10 Cost., in quanto tra le norme del diritto internazionale generalmente riconosciute, che costituiscono un limite alla discrezionalità del legislatore, vi sono quelle che, nel garantire i diritti inviolabili indipendentemente dalla appartenenza a determinate entità politiche, vietano la discriminazione nei confronti degli stranieri legittimamente soggiornanti nel territorio dello Stato; con l’art. 31 Cost., in quanto la preclusione sarebbe incompatibile con il principio secondo cui la Repubblica «protegge la maternità»; con l’art. 38 Cost., per lesione del diritto all’assistenza sociale e, infine, con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, e all’art. 1 del relativo Primo Protocollo addizionale – «così come interpretati dalla Corte stessa e replicati nell’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, a sua volta richiamato dall’art. 6 del Trattato sull’Unione Europea» – in quanto opera una discriminazione tra cittadini e stranieri legalmente soggiornanti sul territorio dello Stato fondata su requisiti diversi da quelli previsti per la generalità dei soggetti;
che, osserva il giudice a quo, la presenza in Italia della ricorrente non ha carattere episodico in quanto trattasi di «soggetto residente e legalmente presente sul territorio nazionale in virtù di permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui all’art. 5, 6° comma del d.lgs. n. 286 del 1998, rilasciato in data 11.09.2013 valido fino al 10.09.2014 e prorogato»;
che, in punto di rilevanza, espone il giudice, la cittadina eritrea possiede tutti i requisiti per il riconoscimento del beneficio domandato, ad eccezione di quello richiesto dalla disposizione censurata;
che, quanto alla non manifesta infondatezza, il rimettente ha ricordato che «la giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo ha reiteratamente affermato che tra i diritti patrimoniali tutelati dall’art. l del Protocollo addizionale I alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, si intendono anche le prestazioni sociali, comprese quelle cui non corrisponde il versamento di contributi, e che per tali diritti vige il divieto di discriminazione di cui all’art. 14 della Convenzione»;
che, inoltre, secondo il giudice, è manifestamente irragionevole l’introduzione di «un trattamento differenziato basato, seppure indirettamente, sulla nazionalità rispetto ai cittadini comunitari e sulla base del solo dato temporale di durata della residenza rispetto ad alcune categorie di stranieri extracomunitari, senza prendere in considerazione condizioni di grave bisogno della persona soggiornante, legalmente autorizzata, e che versi in oggettiva e conclamata debolezza economica e fisica da non poter adeguatamente provvedere al proprio sostentamento e di quello del figlio»;
che, ad avviso del rimettente, «dall’esame complessivo del diritto dell’Unione Europea non è dato rinvenire una disposizione normativa che in quanto munita di completezza, precisione, chiarezza e assenza di condizioni da non richiedere misure complementari di carattere nazionale o europeo, abbia effetto diretto volto al riconoscimento di un diritto all’assegno in questione anche a chi goda dello status di straniero soggiornante per motivi umanitari»;
che il Tribunale ordinario di Bergamo, in funzione di giudice del lavoro, con due ordinanze, entrambe del 30 novembre 2015, sostanzialmente identiche tra loro e di tenore analogo rispetto all’ordinanza emessa dal Tribunale ordinario di Reggio Calabria, ha sollevato questione di legittimità costituzionale della medesima disposizione in riferimento agli stessi parametri;
che, con la prima ordinanza, il giudice a quo ha premesso di essere stato investito del ricorso proposto da due cittadine provenienti dal Burkina Faso e dal Ghana nei confronti del Comune di Azzano San Paolo (Provincia di Bergamo) e dell’INPS e, con la seconda ordinanza, di essere stato investito del ricorso proposto da una cittadina marocchina nei confronti del Comune di Gorle (Provincia di Bergamo) e dell’INPS;
che il rimettente, con la prima ordinanza, ha riferito che il Comune di Azzano San Paolo aveva negato la prestazione in favore delle due cittadine dell’Africa occidentale «stante l’intervenuto diniego della carta di soggiorno e dunque l’insussistenza del requisito di cui all’art. 74 d.lgs. 151/01», mentre, con la seconda ordinanza, ha riferito che il Comune di Gorle aveva inizialmente erogato la prestazione in favore della cittadina marocchina essendo in corso la procedura per il rilascio della carta di soggiorno, ma poi, a fronte del sopravvenuto diniego, aveva dato disposizione all’INPS di procedere alla revoca del beneficio;
che, ha osservato il giudice, in entrambi i casi esaminati la presenza in Italia delle cittadine extracomunitarie non ha carattere episodico in quanto, al momento della domanda volta ad ottenere l’assegno di maternità, le stesse risultavano titolari di un permesso di soggiorno per motivi familiari correlato al permesso di soggiorno per lungo-soggiornanti rilasciato ai mariti e ai figli;
che, in punto di rilevanza, le ricorrenti possiedono tutti i requisiti per il riconoscimento del beneficio domandato, ad eccezione di quello richiesto dalla disposizione censurata;
che, quanto alla non manifesta infondatezza, il rimettente, dopo aver ripercorso l’iter argomentativo sviluppato dal Tribunale reggino, ha osservato a sua volta che «dall’esame complessivo del diritto dell’Unione Europea non è rinvenibile una disposizione normativa munita di completezza, precisione, chiarezza e assenza di condizioni, tale da consentire di riconoscere il diritto all’assegno in questione anche allo straniero soggiornante per motivi familiari, non in possesso dei requisiti per il conseguimento del permesso di soggiorno di lunga durata»;
che nei giudizi si è costituito l’INPS con tre memorie di analogo tenore riferite, rispettivamente, ad ognuna delle ordinanze di rimessione, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata;
che, secondo l’Istituto resistente, alla luce della giurisprudenza costituzionale, deve considerarsi legittima l’introduzione di limitazioni all’attribuzione di prestazioni assistenziali e pensionistiche in relazione al requisito della stabile permanenza nel territorio dello Stato (sono citate le sentenze n. 141 del 2014; n. 222, n. 178, n. 4 e n. 2 del 2013);
che, quanto all’adempimento dei doveri di solidarietà, l’art. 35, comma 3, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero) assicura alle cittadine straniere presenti sul territorio nazionale, non in regola con le norme relative all’ingresso ed al soggiorno, la tutela sociale della gravidanza e della maternità, a parità di trattamento con le cittadine italiane;
che nel giudizio si sono costituite le parti ricorrenti dinanzi al Tribunale ordinario di Bergamo con due memorie di analogo tenore riferite, rispettivamente, ad ognuna delle ordinanze di rimessione, chiedendo, previa riunione dei giudizi, in via principale l’accoglimento della questione e, in via subordinata, la restituzione degli atti al giudice per consentire una valutazione in ordine alla diretta applicabilità dell’art. 12 della direttiva 13 dicembre 2011, n. 2011/98/UE (Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa a una procedura unica di domanda per il rilascio di un permesso unico che consente ai cittadini di paesi terzi di soggiornare e lavorare nel territorio di uno Stato membro e a un insieme comune di diritti per i lavoratori di paesi terzi che soggiornano regolarmente in uno Stato membro) ovvero la dichiarazione di inammissibilità della questione per omessa considerazione del diritto europeo applicabile;
che, con esclusivo riferimento alla questione sollevata nel corso del giudizio promosso dinanzi al Tribunale ordinario di Bergamo dalla cittadina marocchina (r.o. n. 57 del 2016), la difesa ha lamentato che il giudice non ha tenuto in considerazione l’art. 65 dell’Accordo euromediterraneo che istituisce un’associazione tra le Comunità europee e i loro Stati membri, da una parte, e il Regno del Marocco, dall’altra, firmato a Bruxelles il 26 febbraio 1996, approvato a nome di tali Comunità con la decisione 2000/204/CE, CECA del Consiglio e della Commissione, del 24 gennaio 2000, entrato in vigore il 1° marzo 2000 e ratificato dall’Italia con legge 2 agosto 1999, n. 302, ove si prevede che «[…] i lavoratori di cittadinanza marocchina ed i loro familiari conviventi godono in materia di previdenza sociale, di un regime caratterizzato dall’assenza di qualsiasi discriminazione basata sulla cittadinanza rispetto ai cittadini degli Stati membri nei quali essi sono occupati» e si specifica che «[l]’espressione “previdenza sociale” copre gli aspetti della previdenza sociale attinenti alle prestazioni in caso di malattia e di maternità, di invalidità, di vecchiaia, di reversibilità, le prestazioni per infortuni sul lavoro e per malattie professionali, le indennità in caso di decesso, i sussidi di disoccupazione e prestazioni familiari»;
che, ha osservato ancora la difesa, «in proposito la Corte di Giustizia ha affermato che “le norme dell’Accordo euromediterraneo tra l’Unione europea e il Marocco fondano posizioni soggettive direttamente tutelabili dinanzi al giudice nazionale” (Corte di giustizia 2 marzo 1999, in causa C-416/96, NourEddlineEl-Yassini contro Secretary of State for the Home Department)»;
che, con riferimento all’ordinanza di rimessione pronunciata dal Tribunale ordinario di Reggio Calabria, è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per l’inammissibilità della questione per omessa verifica in ordine alla possibilità di una interpretazione conforme al dettato costituzionale;
che, secondo la difesa statale, il giudice a quo non avrebbe tenuto debitamente conto della circostanza, non contestata dalla parti, che la ricorrente risulta titolare del permesso di soggiorno per motivi umanitari previsto dall’art. 5, comma 6, del d.lgs. n. 286 del 1998 e che l’art. 34, comma 5, del decreto legislativo 19 novembre 2007, n. 251 (Attuazione della direttiva 2004/83/CE recante norme minime sull’attribuzione, a cittadini di Paesi terzi o apolidi, della qualifica del rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta) riconosce agli stranieri con permesso di soggiorno umanitario «i medesimi diritti» attribuiti dal decreto stesso ai titolari dello status di «protezione sussidiaria» tra i quali, ai sensi dell’art. 27, comma 1, è annoverato il diritto «al medesimo trattamento riconosciuto al cittadino italiano in materia di assistenza sociale e sanitaria»;
che, pertanto, anche alla luce delle indicazioni provenienti dalla giurisprudenza costituzionale (sono citate le sentenze n. 22 del 2015 e n. 40 del 2013), il giudice «avrebbe dovuto sperimentare una lettura della norma costituzionalmente orientata, tale da sottrarla alla ipotizzata incostituzionalità»;
che, con memorie di analogo tenore, depositate il 3 gennaio 2017, le parti ricorrenti dinanzi al Tribunale ordinario di Bergamo hanno ribadito le proprie conclusioni.
Considerato che il Tribunale ordinario di Reggio Calabria, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 74 del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53), «nella parte in cui, nel subordinare il diritto a prestazioni previdenziali che costituiscono diritti soggettivi e siano dirette a soddisfare bisogni primari della persona, fra i quali appunto l’assegno di maternità, al possesso di carta di soggiorno», introduce «un requisito idoneo a generare una irragionevole discriminazione dello straniero nei confronti del cittadino», in riferimento agli artt. 2, 3, 10, 31, 38 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, 1 del Primo Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, e 6 del Trattato sull’Unione europea;
che il Tribunale ordinario di Bergamo, in funzione di giudice del lavoro, con due ordinanze, entrambe del 30 novembre 2015, sostanzialmente identiche tra loro e di tenore analogo rispetto all’ordinanza emessa dal Tribunale ordinario di Reggio Calabria, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale della medesima disposizione in riferimento agli stessi parametri;
che per la identità dell’oggetto, considerando che i rimettenti sollevano censure analoghe, con argomentazioni coincidenti e con riferimento ai medesimi parametri costituzionali, i giudizi vanno riuniti e decisi con un’unica pronuncia;
che, quanto alla questione sollevata dal Tribunale ordinario di Reggio Calabria, il giudice a quo ha premesso di essere stato investito del ricorso proposto da una cittadina eritrea, titolare di permesso di soggiorno per motivi umanitari;
che il rimettente ha mostrato di non essersi posto il problema della eventuale applicabilità, anche solo per escluderla, al caso della ricorrente, della disciplina dettata dall’art. 34, comma 5, del decreto legislativo del 19 novembre 2007, n. 251 (Attuazione della direttiva 2004/83/CE recante norme minime sull’attribuzione, a cittadini di Paesi terzi o apolidi, della qualifica del rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta), che riconosce agli stranieri con permesso di soggiorno umanitario «i medesimi diritti» attribuiti dal decreto stesso ai titolari dello status di «protezione sussidiaria», tra i quali, ai sensi dell’art. 27, comma 1, è annoverato il diritto «al medesimo trattamento riconosciuto al cittadino italiano in materia di assistenza sociale e sanitaria»;
che, pertanto, la questione proposta deve essere dichiarata manifestamente inammissibile (ordinanze n. 180 del 2016 e n. 197 del 2013);
che, quanto alle due questioni sollevate dal Tribunale ordinario di Bergamo il giudice a quo ha premesso di essere stato investito del ricorso proposto da cittadine africane titolari di permesso di soggiorno per motivi familiari correlato al permesso di soggiorno per lungo-soggiornanti rilasciato ai mariti ed ai figli;
che il rimettente ha mostrato di non essersi posto il problema della eventuale applicabilità, anche solo per escluderla, al caso delle ricorrenti, della disciplina dettata
dall’art. 12 della direttiva 13 dicembre 2011, n. 2011/98/UE, che, attraverso il richiamo all’art. 3, paragrafo 1, lettera b), riconosce lo stesso trattamento riservato ai cittadini dello Stato membro per quanto concerne i settori della sicurezza sociale come definiti dal regolamento (CE) n. 883/2004 «ai cittadini di paesi terzi che sono stati ammessi in uno Stato membro a fini diversi dall’attività lavorativa a norma del diritto dell’Unione o nazionale, ai quali è consentito lavorare e che sono in possesso di un permesso di soggiorno ai sensi del regolamento (CE) n. 1030/2002»;
che questa Corte ha già avuto modo di chiarire che «il rimettente deve espressamente indicare i motivi che osterebbero alla non applicazione del diritto interno in contrasto con il diritto dell’Unione europea, venendo altrimenti meno la sufficienza della motivazione in ordine alla rilevanza della questione» (ordinanza n. 298 del 2011, che richiama le sentenze n. 288 e n. 227 del 2010, n. 125 del 2009 e n. 284 del 2007);
che, pertanto, entrambe le questioni sono manifestamente inammissibili.
per questi motivi
La Corte Costituzionale
riuniti i giudizi,
dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 74 del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53), sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 10, 31, 38 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, 1 del Primo Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, e 6 del Trattato sull’Unione europea, dal Tribunale ordinario di Reggio Calabria, in funzione di giudice del lavoro, e dal Tribunale ordinario di Bergamo, in funzione di giudice del lavoro, con le ordinanze indicate in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 marzo 2017.