Ordinanza della Corte costituzionale 16 luglio 2013, n. 235

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G.U. 31 luglio 2013, n. 31

Con l’ordinanza 235/2013, la Corte ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4 ter del d. l. n. 82/2000 (Modificazioni alla disciplina dei termini di custodia cautelare nella fase del giudizio abbreviato), convertito, con modificazioni, dalla l. n. 144/2000, sollevata dal Tribunale di Lecce in riferimento agli artt. 3 e 117 della Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 6 e 7 della CEDU. Al riguardo, il Tribunale rimettente richiama la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo sul caso Scoppola c. Italia del 17 settembre 2009, in cui è affermato il principio di retroattività della legge penale più favorevole al reo ritenuto insito nell’art. 7 della CEDU. Tale sentenza è stata peraltro richiamata dalla stessa Corte costituzionale nella sentenza n. 210/2013 con la quale la Corte ha affermato, sulla base dell’art. 46 della CEDU, l’obbligo dello Stato italiano di porre rimedio alla violazione riscontrata a livello normativo e di rimuoverne gli effetti nei confronti di tutti i condannati che si trovino nelle medesime condizioni. La Corte ha ritenuto tuttavia  che il caso di specie non rientrava in una situazione identica o simile a quella della sentenza Scoppola, differenziandosi sotto il profilo sostanziale dal momento che l’imputato non è mai stato ammesso al giudizio abbreviato ed è stato giudicato e condannato in via definitiva con rito ordinario. Su tali basi, la Corte ha dichiarato la questione manifestamente priva di rilevanza.

Ordinanza

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 4-ter del decreto-legge 7 aprile 2000, n. 82 (Modificazioni alla disciplina dei termini di custodia cautelare nella fase del giudizio abbreviato), convertito, con modificazioni, dalla legge 5 giugno 2000, n. 144, promosso dal Tribunale di Lecce nel procedimento penale a carico di P.G. con ordinanza del 26 marzo 2012, iscritta al n. 7 del registro ordinanze 2013 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 6, prima serie speciale, dell’anno 2013.

Visti l’atto di costituzione di P.G. nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 2 luglio 2013 il Giudice relatore Giuseppe Frigo;

udito l’avvocato dello Stato Attilio Barbieri per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto che, con ordinanza depositata il 26 marzo 2012, pervenuta alla Corte il 14 gennaio 2013, il Tribunale di Lecce ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’articolo 4-ter del decreto-legge 7 aprile 2000, n. 82 (Modificazioni alla disciplina dei termini di custodia cautelare nella fase del giudizio abbreviato), convertito, con modificazioni, dalla legge 5 giugno 2000, n. 144, «nella parte in cui non prevede la riammissione in termini per richiedere il giudizio abbreviato per gli imputati il cui processo penda o pendesse davanti alla Corte di Cassazione», deducendo la violazione degli articoli 3 e 117 della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli articoli 6 e 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 (d’ora in avanti: «CEDU»);

che il giudice a quo premette di essere investito, quale giudice dell’esecuzione – competente ai sensi dell’art. 665, comma 4, del codice di procedura penale – dell’istanza con la quale un condannato ha chiesto di essere «rimesso in termini, al fine di poter ottenere la riduzione di pena per il rito abbreviato» negatagli nel giudizio di cognizione;

che l’istante era stato a suo tempo sottoposto a procedimento penale per tre omicidi aggravati, punibili con la pena dell’ergastolo a norma degli artt. 576 e 577 del codice penale, commessi il 17 ottobre 1990, il 21 gennaio 1991 e il 20 agosto 1991, in concorso con altri reati;

che all’udienza preliminare del 5 marzo 1997 l’imputato aveva chiesto di definire il processo con giudizio abbreviato;

che l’istanza era stata peraltro rigettata, in quanto, con sentenza n. 176 del 1991, la Corte costituzionale aveva dichiarato illegittimo per eccesso di delega l’art. 442, comma 2, cod. proc. pen., nella parte in cui consentiva di definire con giudizio abbreviato anche i processi relativi a reati puniti con la pena dell’ergastolo, prevedendone, in caso di condanna, la sostituzione con la pena di trenta anni di reclusione;

che l’imputato era stato, quindi, rinviato a giudizio e condannato, tanto in primo che in secondo grado, alla pena dell’ergastolo con isolamento diurno (applicabile ai sensi dell’art. 72 cod. pen., stante il concorso di reati);

che nelle more del giudizio di cassazione – conclusosi con sentenza del 23 aprile 2001, che, rigettando il ricorso, ha reso definitiva la condanna – era sopravvenuta la legge 16 dicembre 1999, n. 479 (Modifiche alle disposizioni sul procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica e altre modifiche al codice di procedura penale. Modifiche al codice penale e all’ordinamento giudiziario. Disposizioni in materia di contenzioso civile pendente, di indennità spettanti al giudice di pace e di esercizio della professione forense), il cui art. 30, comma 1, lettera b), aveva ripristinato, nei termini originari, la possibilità di accedere al rito speciale in rapporto ai reati puniti con l’ergastolo;

che, relativamente ai processi in corso per detti reati, l’art. 4-ter del decreto-legge n. 82 del 2000, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 144 del 2000, aveva previsto la riapertura dei termini per la proposizione della richiesta del rito speciale, ove già scaduti (comma 2): ciò, tuttavia, limitatamente ai processi pendenti in primo grado, in grado di appello o in sede di rinvio, nei quali non fosse ancora conclusa l’istruzione dibattimentale o la sua rinnovazione (comma 3);

che l’imputato non aveva potuto, dunque, riproporre la richiesta, in quanto il processo a suo carico pendeva dinanzi alla Corte di cassazione;

che con l’istanza della quale il Tribunale rimettente è investito, il condannato ha chiesto che la pena dell’ergastolo con isolamento diurno, a lui inflitta, venga sostituita con quella di trenta anni di reclusione, in applicazione dei principi affermati dalla Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza 17 settembre 2009, relativa al caso Scoppola contro Italia;

che, al fine di conseguire tale risultato, l’interessato ha chiesto, in via alternativa, di essere rimesso in termini per proporre la richiesta di giudizio abbreviato al giudice dell’udienza preliminare, ovvero l’immediata applicazione della riduzione di pena da parte dello stesso giudice dell’esecuzione adito;

che, al riguardo, il giudice a quo rileva come, con la citata sentenza sul caso Scoppola, la Corte di Strasburgo abbia affermato che l’art. 442 cod. proc. pen. – nella parte in cui prevede la diminuzione di pena per il giudizio abbreviato – assume la natura di norma di diritto penale sostanziale: con la conseguenza che in relazione ad essa operano tanto il principio di retroattività della legge penale più favorevole – implicitamente riconosciuto, secondo la Corte europea, dall’art. 7 della CEDU – quanto l’opposto principio di irretroattività della legge penale meno favorevole, sancito in modo espresso sia dallo stesso art. 7 della CEDU che dall’art. 25 Cost.;

che, nel caso deciso dalla sentenza Scoppola, la Corte europea ha ritenuto violato anche l’art. 6 della CEDU, ritenendo non equo un processo nel quale, in corso di causa, vengano mutati in peius gli effetti del rito richiesto dall’imputato;

che, per giurisprudenza costituzionale ormai costante, le norme della CEDU, nell’interpretazione datane dalla Corte di Strasburgo, assumono carattere integrativo dell’art. 117, primo comma, Cost., nella parte in cui impone l’adeguamento dell’ordinamento interno ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali: con la conseguenza che l’eventuale contrasto della disciplina interna con quella convenzionale, non componibile per via di interpretazione, va denunciata dal giudice ordinario tramite proposizione di questione incidentale di legittimità costituzionale;

che la vicenda che forma oggetto del procedimento a quo si differenzia, peraltro, da quella esaminata dalla Corte europea nella sentenza Scoppola, giacché, nella specie, il condannato non è stato ammesso al giudizio abbreviato e, pertanto, il processo nei suoi confronti si è svolto con rito ordinario;

che l’evidenziato tratto differenziale non renderebbe, tuttavia, manifestamente infondata l’istanza;

che la Corte costituzionale ha dichiarato, infatti, a più riprese illegittima la disciplina del giudizio abbreviato, nella parte in cui non riconosceva il diritto allo sconto di pena all’imputato cui l’accesso al rito fosse stato ingiustificatamente negato (sentenze n. 169 del 2003, n. 23 del 1992 e n. 81 del 1991);

che, in tali occasioni, la Corte ha affermato che il giudice del successivo segmento processuale deve poter sindacare il diniego dell’ammissione al rito speciale e, ove lo ritenga ingiustificato, procedere egli stesso alla riduzione di pena: principio del quale il Tribunale rimettente assume di poter fare «senza problema alcuno» diretta applicazione anche nel caso sottoposto al suo vaglio;

che, a questo proposito, si imporrebbe, tuttavia, una considerazione differenziata dei tre omicidi per i quali l’istante ha riportato condanna;

che i primi due omicidi sono stati, infatti, commessi in date anteriori alla sentenza n. 176 del 1991 della Corte costituzionale e, dunque, in un momento nel quale il codice di rito consentiva di accedere al giudizio abbreviato anche per i delitti puniti con la pena dell’ergastolo e così di contenere nei limiti di trenta anni di reclusione il relativo trattamento sanzionatorio;

che in relazione a detti reati, pertanto, il diniego dell’accesso al rito speciale da parte del Giudice dell’udienza preliminare in ragione della sopravvenuta dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 442, comma 2, cod. proc. pen. risulterebbe illegittimo, essendosi risolto nell’applicazione retroattiva di una norma penale sfavorevole, in violazione del divieto sancito dall’art. 25 Cost. e dall’art. 7 della CEDU: divieto da reputare operante anche quando la disciplina penale più severa derivi da una declaratoria di illegittimità costituzionale;

che il terzo omicidio, al contrario, risulta commesso in data posteriore alla sentenza n. 176 del 1991 e, dunque, in un momento nel quale la legge in vigore non permetteva il giudizio abbreviato per i reati puniti con l’ergastolo: sicché, rispetto ad esso, il rigetto della richiesta in sede di udienza preliminare non potrebbe essere ritenuto illegittimo;

che, con riguardo a detto episodio criminoso, si porrebbe, tuttavia, il diverso problema della violazione del principio di retroattività della norma più favorevole sopravvenuta, rappresentata dall’art. 30, comma 1, lettera b), della legge n. 479 del 1999, che ha reintrodotto la possibilità di definire con giudizio abbreviato i processi per i reati in questione;

che nessun rilievo avrebbe, a questo proposito, il successivo intervento del decreto-legge 24 novembre 2000, n. 341 (Disposizioni urgenti per l’efficacia e l’efficienza dell’amministrazione della giustizia), convertito, con modificazioni, dalla legge 19 gennaio 2001, n. 4, il cui art. 7 – aggiungendo un ulteriore periodo all’art. 442, comma 2, cod. proc. pen. – ha previsto che, in caso di giudizio abbreviato, la pena dell’ergastolo con isolamento diurno (inflitta nella specie all’imputato) è sostituita da quella dell’ergastolo, anziché dalla pena detentiva temporanea: alla stregua dei principi affermati nella sentenza Scoppola, tale disciplina resterebbe infatti inoperante nel caso in esame, trattandosi di normativa penale sfavorevole sopravvenuta, insuscettibile di applicazione retroattiva;

che, ciò posto, nel caso di specie la mancata fruizione della diminuzione di pena reintrodotta dalla legge n. 479 del 1999 sarebbe imputabile alla disciplina transitoria recata dall’art. 4-ter del decreto-legge n. 82 del 2000, che – come detto – ha riaperto i termini per la proposizione della richiesta di giudizio abbreviato solo nei processi pendenti nei gradi di merito e nei quali rimanessero da compiere atti di istruzione dibattimentale;

che il giudice a quo dubita, tuttavia, della legittimità costituzionale di tale disposizione, nella parte in cui non ha esteso la riammissione in termini anche ai processi che – come nella specie – pendessero davanti alla Corte di cassazione;

che la norma censurata si porrebbe, per tal verso, in contrasto con l’art. 3 Cost., avendo sottoposto gli imputati nei suddetti processi ad un trattamento deteriore rispetto a coloro che avessero commesso reati dello stesso tipo;

che tale disparità di trattamento non potrebbe essere giustificata con considerazioni connesse alla finalità deflattiva del rito speciale: anche nei giudizi di cassazione, infatti, la riapertura dei termini avrebbe potuto essere fonte di benefici in termini di economia processuale, posto che, alla luce dei correnti orientamenti giurisprudenziali, la richiesta del rito abbreviato comporta la sanatoria per accettazione di tutte le nullità non assolute, il superamento delle questioni di competenza e l’irrilevanza delle questioni di inutilizzabilità «non patologica»;

che la disposizione denunciata violerebbe, inoltre, l’art. 117 Cost., in riferimento agli artt. 6 e 7 della CEDU, ponendosi in contrasto tanto con il principio di retroattività della lex mitior che con il diritto all’equo processo;

che non potrebbe ritenersi, in effetti, rispondente a quest’ultimo paradigma una disciplina processuale che, nel caso di rimozione di un ostacolo normativo all’accesso ad un rito speciale, non ne consenta la fruizione all’imputato che avesse tempestivamente formulato in precedenza la relativa richiesta, vedendola respinta proprio a causa dell’ostacolo normativo rimosso;

che la possibilità di far valere i denunciati vizi di illegittimità costituzionale non sarebbe, d’altro canto, preclusa dall’avvenuta formazione del giudicato;

che la sentenza della Corte europea sul caso Scoppola si atteggerebbe, infatti, alla stregua di un fatto normativo sopravvenuto «di rilievo costituzionale», ai sensi dell’art. 117 Cost., posto che, prima di essa, l’incostituzionalità della disciplina in esame non sarebbe stata agevolmente sostenibile: prospettiva nella quale non potrebbe ammettersi che la «cortina del giudicato» cali «su di una incostituzionale situazione di trattamento deteriore dell’imputato»;

che la questione sarebbe, infine, rilevante nel giudizio a quo, giacché solo in caso di suo accoglimento sarebbe possibile sostituire la pena irrogata all’istante con quella di trenta anni di reclusione, conformemente alla sua richiesta: in caso contrario, infatti, la riduzione diretta, da parte dello stesso Tribunale rimettente, della pena inflitta per i primi due omicidi non sortirebbe alcun effetto concreto, giacché il condannato – in forza del disposto dell’art. 72, terzo comma, cod. pen. – dovrebbe comunque scontare la pena dell’ergastolo con isolamento diurno in relazione all’omicidio commesso il 20 agosto 1991, in continuazione con gli altri omicidi;

che la rideterminazione della pena chiesta dal condannato troverebbe, d’altronde, la sua «sede naturale» proprio nell’ambito dell’incidente di esecuzione, risultando ogni soluzione alternativa irrazionale e «diseconomica»;

che non avrebbe senso, infatti, rimettere in termini il condannato per una nuova richiesta di giudizio abbreviato davanti al giudice dell’udienza preliminare, posto che la sua responsabilità penale non è in discussione e si tratta soltanto di procedere ad un automatico adeguamento della pena inflittagli in base ai criteri di cui all’art. 442 cod. proc. pen.;

che parimenti impraticabile sarebbe l’ipotesi di affidare la soluzione del problema all’istituto della revisione, del quale non ricorrerebbe alcun presupposto, a cominciare dall’astratta possibilità di un esito diverso del giudizio di responsabilità;

che, a maggior ragione, si dovrebbe escludere che l’interessato sia tenuto a ricorrere preventivamente alla Corte europea, giacché detto ricorso rappresenta, nel sistema della Convenzione, uno strumento sussidiario, attivabile solo quando i rimedi interni si siano rivelati inidonei a garantire il soddisfacimento dei diritti fondamentali;

che l’esistenza di un giudicato sulla quantità della pena non costituirebbe, per altro verso, un limite ai poteri di intervento del giudice dell’esecuzione, come si desumerebbe dagli artt. 671 cod. proc. pen. e 188 disp. att. cod. proc. pen., oltre che dagli artt. 130 e 625-bis cod. proc. pen.;

che è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o infondata;

che, ad avviso della difesa dello Stato, la questione sarebbe inammissibile, non avendo l’imputato mai richiesto, a suo tempo, nel corso del giudizio di cassazione – con riguardo al quale soltanto la questione stessa risulterebbe rilevante – di essere ammesso al giudizio abbreviato ai sensi della norma denunciata e nei termini da questa previsti (ossia nella «prima udienza utile» successiva all’entrata in vigore della legge n. 144 del 2000);

che, nel merito, la questione sarebbe comunque infondata, apparendo la norma censurata pienamente coerente con la finalità di deflazione processuale propria del giudizio abbreviato, il quale assicura uno sconto di pena all’imputato che, rinunciando alla fase dibattimentale, eviti una lunga e dispendiosa attività istruttoria: nel giudizio di cassazione – diversamente che in quelli di primo grado e di appello – non si procede, infatti, ad alcuna attività istruttoria cui l’imputato possa rinunciare;

che i benefici che, a parere del rimettente, l’applicazione del giudizio abbreviato sarebbe in grado di assicurare anche nel giudizio di cassazione, in termini di deflazione del contenzioso, risulterebbero, d’altra parte, meramente eventuali e comunque non equiparabili al vantaggio derivante dalla rinuncia ad un’intera fase processuale, quale appunto l’istruzione dibattimentale;

che, alla luce di tali considerazioni, dovrebbe dunque escludersi tanto la dedotta violazione dell’art. 3 Cost. che quella dell’art. 117 Cost., in relazione all’art. 7 della CEDU, avendo la stessa Corte europea riconosciuto che il principio di retroattività in mitius può subire delle deroghe, purché – come nella specie – sorrette da ragionevoli giustificazioni;

che parimenti insussistente risulterebbe, infine, la violazione dello stesso art. 117 Cost., per contrasto con l’art. 6 della CEDU, non essendo ravvisabile alcuna lesione del diritto all’equo processo, «sub specie di affidamento nell’applicazione di una norma favorevole», in capo a chi – per le ragioni indicate – non si trovi nelle condizioni per rientrare nel campo di applicazione di detta norma;

che si è costituito, altresì, P. G., istante nel procedimento a quo, il quale ha svolto argomentazioni adesive alla prospettazione del giudice rimettente, chiedendo che la questione venga accolta.

Considerato che il Tribunale di Lecce, in veste di giudice dell’esecuzione, dubita della legittimità costituzionale della disciplina transitoria recata dall’articolo 4-ter del decreto-legge 7 aprile 2000, n. 82 (Modificazioni alla disciplina dei termini di custodia cautelare nella fase del giudizio abbreviato), aggiunto dalla legge di conversione 5 giugno 2000, n. 144;

che detta disciplina si correla, per la parte censurata, alla disposizione dell’art. 30, comma 1, lettera b), della legge 30 dicembre 1999, n. 479, che ha aggiunto all’art. 442, comma 2, del codice di procedura penale il periodo «Alla pena dell’ergastolo è sostituita quella della reclusione di anni trenta»: ripristinando, in tal modo, la possibilità di definire con giudizio abbreviato i processi per i reati punibili con la pena detentiva perpetua, venuta meno a seguito della sentenza n. 176 del 1991 di questa Corte, che aveva dichiarato costituzionalmente illegittima, per eccesso di delega, l’originaria previsione in tal senso del codice di rito;

che, con riguardo ai processi in corso per i suddetti reati, il comma 2 del denunciato art. 4-ter ha previsto la riapertura dei termini già scaduti per la proposizione della richiesta del rito alternativo, stabilendo che detta richiesta potesse essere presentata dall’imputato nella «prima udienza utile successiva» all’entrata in vigore della legge n. 144 del 2000;

che le censure del rimettente si appuntano specificamente sulle condizioni limitative poste dal successivo comma 3, di riflesso – nell’intento del legislatore – alle connotazioni strutturali tipiche del giudizio abbreviato: rito che assicura all’imputato una riduzione di pena, nel caso di condanna, quale “contropartita” per la sua rinuncia alla garanzia della formazione della prova in contraddittorio, in quanto idonea a determinare un significativo risparmio di energie processuali;

che, in questa prospettiva, il legislatore ha ritenuto di dover circoscrivere la riapertura dei termini ai processi pendenti nei gradi di merito (primo grado, appello e giudizio di rinvio), nei quali rimanessero ancora da compiere atti di istruzione dibattimentale;

che, con la questione sollevata, il Tribunale salentino – denunciando la violazione degli artt. 3 e 117 della Costituzione, quest’ultimo in riferimento agli artt. 6 e 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali – vorrebbe estendere la riammissione in termini anche ai processi che all’epoca pendessero davanti alla Corte di cassazione;

che la questione è manifestamente priva di rilevanza, in quanto il giudice a quo non è chiamato a fare applicazione della norma censurata;

che il Tribunale rimettente è stato, infatti, adito in sede di incidente di esecuzione da un soggetto condannato, con sentenza passata in giudicato nel 2001, all’ergastolo con isolamento diurno per tre omicidi aggravati commessi negli anni 1990-1991;

che l’istante assume di avere diritto alla sostituzione di detta pena con quella di trenta anni di reclusione sulla base dei principi affermati dalla Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia;

che, tuttavia – come lo stesso giudice a quo riconosce – l’interessato non versa affatto in una situazione identica o similare a quella presa in esame dalla sentenza ora citata;

che nel caso vagliato dalla Corte europea, l’imputato aveva chiesto il giudizio abbreviato dopo l’entrata in vigore dalla legge n. 479 del 1999 e sulla base della disciplina da essa introdotta; egli era stato quindi ammesso al rito speciale e condannato in primo grado a trenta anni di reclusione;

che lo stesso giorno della condanna era entrato, peraltro, in vigore il decreto-legge 24 novembre 2000, n. 341 (Disposizioni urgenti per l’efficacia e l’efficienza dell’amministrazione della giustizia), convertito, con modificazioni, dalla legge 19 gennaio 2001, n. 4, il cui art. 7 ha stabilito che nel secondo periodo dell’art. 442, comma 2, cod. proc. pen. «l’espressione “pena dell’ergastolo” deve intendersi riferita all’ergastolo senza isolamento diurno» (comma 1) e ha aggiunto allo stesso art. 442, comma 2, un ulteriore periodo, in forza del quale «Alla pena dell’ergastolo con isolamento diurno, nei casi di concorso di reati e di reato continuato, è sostituita quella dell’ergastolo» (comma 2);

che, in applicazione di tale norma sopravvenuta, l’imputato era stato, quindi, condannato in appello all’ergastolo “semplice”, con sentenza poi confermata dalla Corte di cassazione;

che, in relazione alla fattispecie ora descritta, la Corte europea ha rilevato, da un lato, che l’art. 442, comma 2, cod. proc. pen. ha natura di norma penale sostanziale, attenendo all’entità della pena da infliggere (natura già riconosciutagli, peraltro – come lo stesso rimettente ricorda – dalle Sezioni unite della Corte di cassazione con la sentenza 6 marzo 1992-17 marzo 1992, n. 2977); dall’altro, che l’art. 7, comma 1, del decreto-legge n. 341 del 2000, nonostante la sua formulazione, non è una norma interpretativa, ma ha carattere innovativo;

che i Giudici di Strasburgo hanno ravvisato, di conseguenza, la violazione del principio di retroattività della legge penale più favorevole al reo, ritenuto insito – con innovativo arresto – nella previsione dell’art. 7, paragrafo 1, della CEDU: principio alla luce del quale l’imputato avrebbe dovuto beneficiare – pur avendo commesso il fatto anteriormente – della più favorevole previsione dell’art. 30 della legge n. 479 del 1999;

che la Corte europea ha ravvisato, altresì, la violazione dell’art. 6 della CEDU, reputando lesiva del diritto a un processo equo la modifica a posteriori delle condizioni dell’«accordo» insito nel giudizio abbreviato, che implica uno scambio tra la rinuncia a determinate garanzie processuali e la diminuzione della pena;

che questa Corte – avendo riguardo all’accertata violazione di natura sostanziale e tenuto conto della posizione assunta in proposito dalle Sezioni unite della Corte di cassazione – ha ritenuto che la sentenza Scoppola non consenta allo Stato italiano di limitarsi a sostituire la pena dell’ergastolo applicata in quel caso, ma lo obblighi, ai sensi dell’art. 46, paragrafo 1, della CEDU, a porre riparo alla violazione riscontrata a livello normativo e a rimuoverne gli effetti nei confronti di tutti i condannati che si trovino nelle medesime condizioni di Scoppola (sentenza n. 210 del 2013);

che questa Corte ha altresì precisato, nella medesima pronuncia, che detto obbligo non trova ostacolo nell’avvenuta formazione del giudicato e che alla sostituzione della pena – la quale non postula la necessità di una «riapertura del processo» – può procedere il giudice dell’esecuzione: con la conseguenza che, nel procedimento instaurato davanti a quest’ultimo, è rilevante la questione di legittimità costituzionale della norma interna che impedisca l’adeguamento alla sentenza della Corte europea (nella specie, l’art. 7, comma 1, del decreto-legge n. 241 del 2000, in quanto volto a dotare la nuova disciplina da esso introdotta di effetto retroattivo: norma che è stata in effetti dichiarata, per tale ragione, costituzionalmente illegittima);

che questa Corte ha adeguatamente rimarcato, al tempo stesso, come tale conclusione riguardi «esclusivamente l’ipotesi in cui si debba applicare una decisione della Corte europea in materia sostanziale, relativa ad un caso che sia identico a quello deciso e non richieda la riapertura del processo»: ipotesi nella quale soltanto può giustificarsi «un incidente di legittimità costituzionale sollevato nel procedimento di esecuzione nei confronti di una norma applicata nel giudizio di cognizione» (sentenza n. 210 del 2013);

che l’ipotesi ora indicata non ricorre nel caso oggi in esame;

che – a prescindere dalla considerazione che il rimettente evoca anche parametri non attinenti alla necessità di conformarsi a una sentenza della Corte europea (in particolare, l’art. 3 Cost.) – la fattispecie oggetto del procedimento principale, lungi dal replicare la situazione avuta di mira dalla sentenza Scoppola, se ne differenzia sotto il profilo essenziale che l’imputato non è mai stato ammesso al giudizio abbreviato;

che, secondo quanto riferito dal giudice a quo, l’imputato ha fatto bensì richiesta del rito alternativo, ma prima dell’entrata in vigore della legge n. 479 del 1999 e, dunque, in un momento nel quale detto rito non era consentito per i reati puniti con l’ergastolo;

che la richiesta è stata pertanto respinta, con provvedimento che lo stesso giudice a quo riconosce legittimo, almeno per quanto attiene al terzo degli omicidi aggravati ascritti al richiedente (quello commesso dopo la sentenza n. 176 del 1991 di questa Corte, in rapporto al quale soltanto il Tribunale rimettente reputa rilevante la questione sollevata);

che dopo l’entrata in vigore della legge n. 479 del 1999, l’imputato non ha, d’altro canto, ripresentato la richiesta (a quella data, il processo a suo carico pendeva davanti alla Corte di cassazione e non beneficiava, pertanto, della riapertura dei termini): di conseguenza, egli è stato giudicato e condannato in via definitiva con rito ordinario;

che la norma censurata dal giudice a quo non ha, d’altro canto, natura sostanziale, ma processuale: essa non attiene all’entità della riduzione di pena conseguente al giudizio abbreviato, ma ai termini di proposizione della relativa richiesta, limitandosi in particolare a ribadire – nel quadro di una disciplina transitoria – l’impossibilità di introdurre il rito alternativo quando il processo si trova davanti al giudice di legittimità, che non è chiamato ad assumere prove;

che il caso in questione è dunque assimilabile, più che a quello cui si riferisce la sentenza Scoppola, a quello che ha dato luogo alla successiva decisione della Corte europea 27 aprile 2010, Morabito contro Italia, concernente il regime transitorio previsto dal comma 1 dello stesso art. 4-ter del decreto-legge n. 82 del 2000 in rapporto all’avvenuta soppressione, da parte della legge n. 479 del 1999, del requisito del consenso del pubblico ministero;

che, nell’occasione, la Corte europea ha escluso che potesse ravvisarsi alcuna violazione degli artt. 6 e 7 della CEDU, a fronte del fatto che l’applicabilità della nuova e più favorevole disciplina era stata limitata ai processi nei quali non fosse ancora iniziata l’istruzione dibattimentale, in tal modo impedendo al ricorrente di fruire della diminuzione di pena, ancorché egli avesse in precedenza presentato la richiesta di giudizio abbreviato, vedendola respinta proprio a causa del mancato consenso del pubblico ministero;

che, infatti – ha osservato la Corte europea – «gli Stati contraenti non sono obbligati dalla Convenzione a prevedere dei procedimenti semplificati […]: ad essi incombe soltanto l’obbligo, allorquando tali procedure esistono e sono adottate, di non privare un imputato dei vantaggi che vi si collegano»; il che nella specie non era avvenuto, proprio perché il ricorrente – così come nel caso oggi in esame – non era mai stato ammesso al giudizio abbreviato;

che, di conseguenza, non avendo l’istante nel procedimento a quo mai acquisito nel proprio patrimonio giuridico il diritto ad essere giudicato con rito abbreviato sulla base della disciplina recata dalla legge n. 479 del 1999, il Tribunale rimettente non ha alcun titolo per procedere alla ipotizzata sostituzione della pena dell’ergastolo con isolamento diurno con la pena detentiva temporanea, né, tanto meno, per porre in discussione, in sede di incidente di esecuzione, la legittimità costituzionale di una norma che, quale quella sottoposta a scrutinio, attiene al processo di cognizione e, più specificamente, al giudizio di cassazione;

che – come eccepito anche dall’Avvocatura dello Stato – la questione sollevata sarebbe stata, in effetti, rilevante esclusivamente nell’ambito del predetto giudizio (quello appunto di cassazione) e solo alla condizione che, nel corso di esso, l’imputato avesse effettivamente richiesto il giudizio abbreviato con l’osservanza del termine stabilito dalla norma censurata (ossia nella «prima udienza utile» successiva alla sua entrata in vigore): il che, come detto, non è avvenuto;

che del tutto inconferenti, al riguardo, sono le pronunce invocate dal rimettente, con le quali questa Corte ha dichiarato costituzionalmente illegittima, sotto diversi profili, la disciplina del giudizio abbreviato, nella parte in cui non riconosceva al giudice della successiva fase processuale il potere di sindacare il diniego dell’accesso al rito alternativo e di applicare all’imputato la diminuzione di pena, ove risultasse ingiustificato (sentenze n. 169 del 2003, n. 23 del 1992 e n. 81 del 1991);

che, a prescindere da ogni altro possibile rilievo, dette pronunce si riferiscono alla sola fase di cognizione, anteriore alla formazione del giudicato: per giunta, nel caso di specie, non vi è stato alcun provvedimento di rigetto della richiesta di giudizio abbreviato successivo alla legge n. 479 del 1999 sul quale possa esercitarsi il preteso sindacato;

che la questione va dichiarata, pertanto, manifestamente inammissibile (sulla manifesta inammissibilità di questioni aventi ad oggetto norme delle quali il giudice a quo non deve fare applicazione, ex plurimis, ordinanze n. 82 e n. 60 del 2012).

per questi motivi

La Corte Costituzionale

dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’articolo 4-ter del decreto-legge 7 aprile 2000, n. 82 (Modificazioni alla disciplina dei termini di custodia cautelare nella fase del giudizio abbreviato), convertito, con modificazioni, dalla legge 5 giugno 2000, n. 144, sollevata, in riferimento agli articoli 3 e 117 della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli articoli 6 e 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, dal Tribunale di Lecce con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta il 16 luglio 2013.