Ordinanza della Corte costituzionale 12 aprile 2017, n. 97

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G.U. 10 maggio 2017, n. 19

Con questa ordinanza, la C. cost. ha dichiarato manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale proposta in relazione all’attuale rito divorzile, il quale, secondo il giudice rimettente, nella fase contenziosa pone un eccessivo aggravio dell’onere difensivo in capo al resistente. Ciò contrasterebbe, tra gli altri, con l’art. 117, co. 1, della Costituzione (rispetto degli obblighi internazionali), in relazione all’art. 6 della CEDU (giusto processo) che ‘pone condizioni di parità tra le parti nonché chiarezza delle fasi procedimentali’. La questione è stata dichiarata inammissibile perché il giudice remittente, discostandosi da pregressa giurisprudenza, aveva omesso di interpretare la norma in modo costituzionalmente orientato.

Ordinanza

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 10, della legge 1° dicembre 1970, n. 898 (Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio), come sostituito dall’art. 2 (recte: art. 2, comma 3-bis), del decreto-legge 13 (recte: 14) marzo 2005, n. 35 (Disposizioni urgenti nell’ambito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale), convertito, con modificazioni, dalla legge 14 maggio 2005, n. 80, promosso dal Tribunale ordinario di Crotone nel procedimento vertente tra V. S. e R. V., con ordinanza del 24 febbraio 2016, iscritta al n. 189 del registro ordinanze 2016 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 40, prima serie speciale, dell’anno 2016.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 12 aprile 2017 il Giudice relatore Mario Rosario Morelli.

Ritenuto che, nel corso di un giudizio di cessazione degli effetti civili di un matrimonio concordatario, il giudice monocratico del Tribunale ordinario di Crotone, adito nella fase contenziosa successiva a quella presidenziale − premesso che il coniuge convenuto aveva reiterato tardivamente, in detta seconda fase, la domanda riconvenzionale, volta all’ottenimento di un assegno divorzile, proposta con la comparsa di risposta innanzi al Presidente, e considerato che ciò avrebbe comportato, a suo avviso, l’inammissibilità di tale domanda, per intervenuta decadenza ex art. 167 del codice di procedura civile − ha reputato di conseguenza rilevante, ed ha perciò sollevato, con l’ordinanza in epigrafe, questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 10, della legge 1° dicembre 1970, n. 898 (Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio), come sostituito dall’art. 2 (recte: art. 2, comma 3-bis), del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35 (Disposizioni urgenti nell’ambito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale), convertito, con modificazioni, dalla legge 14 maggio 2005, n. 80, «nella parte in cui non prevede che la domanda riconvenzionale eventualmente rassegnata dal convenuto in memoria difensiva ex art. 4 comma 5 l.div. debba ritenersi tempestivamente proposta anche nella successiva fase contenziosa avanti al G.I. […] nella parte in cui non prevede che la memoria integrativa, avente il contenuto dell’art. 163 c.p.c., debba intendersi ai fini della costituzione in giudizio avanti al G.I. ai sensi dell’art. 165 c.p.c., come invece previsto espressamente per il convenuto», in riferimento agli artt. 3, 111 e 117, primo comma, della Costituzione, in relazione (quanto a quest’ultimo) all’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU);

che, nel motivare la non manifesta infondatezza della questione in riferimento ai parametri evocati, sostiene il rimettente che «l’attuale rito divorzile nella fase contenziosa pone un eccessivo aggravio dell’onere difensivo in capo al resistente, situazione che appare irragionevole e iniqua a fronte del principio del giusto processo (art. 111 Cost.), che pone condizioni di parità tra le parti, nonché chiarezza delle fasi procedimentali, allo stato fortemente adombrata dalla ibrida posizione del ricorrente, che sarebbe costituito ad oltranza, a fronte di una dubbia posizione del resistente, onerato, stando alla lettera della norma, ad una sorta di doppia costituzione», per cui il delineato assetto processuale risulterebbe anche «lesivo del principio sovranazionale dell’equità del processo (cfr. art. 6 CEDU e art. 117 comma 1 Cost.)»;

che, nel giudizio innanzi a questa Corte, si è costituito il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per la dichiarazione di manifesta infondatezza della riferita questione, all’uopo richiamando l’indirizzo della Corte di legittimità (sezione prima civile, sentenza 12 settembre 2005, n. 18116), secondo cui, nel giudizio di divorzio, il termine di venti giorni prima dell’udienza di comparizione dinanzi al giudice istruttore segna il limite massimo per la proposizione della domanda riconvenzionale di riconoscimento dell’assegno divorzile, senza che ciò escluda le ritualità della richiesta di assegno proposta con la comparsa di risposta dinanzi al Presidente del tribunale, in tempo antecedente alla udienza di prima comparizione dinanzi al giudice istruttore.

Considerato che la Corte di cassazione ha ribadito, anche con pronunzie successive a quella richiamata dalla difesa dello Stato, il principio, che può ritenersi consolidato in termini di diritto vivente, per cui il coniuge resistente nel giudizio di separazione o divorzio, che compaia assistito da difensore nella fase presidenziale, depositando uno scritto difensivo con il quale formuli (come nella specie) anche domande riconvenzionali, deve considerarsi costituito in giudizio sin da tale momento e le domande riconvenzionali debbono considerarsi ritualmente e tempestivamente proposte, senza che ne occorra la riproposizione nella successiva fase innanzi al giudice istruttore (sezione prima civile, sentenze 28 marzo 2007, n. 7653 e 11 novembre 2009, n. 23910; ordinanza 17 dicembre 2010, n. 25558);

che il giudice a quo non ignora tale orientamento della Corte di legittimità, ma ritiene di doversene discostare, non reputandolo coerente alla natura attualmente bifasica del procedimento divorzile;

che, così posta e motivata, la questione in esame, prima ancora che manifestamente infondata, è sotto più profili manifestamente inammissibile: poiché il rimettente sostanzialmente chiede a questa Corte un avallo interpretativo, con utilizzo improprio dell’incidente di costituzionalità (ordinanze n. 87 e n. 33 del 2016, da ultimo); perché omette di verificare la possibilità di una interpretazione della norma censurata costituzionalmente conforme (ancorché individuabile nell’esegesi giurisprudenziale da cui si discosta); e perché l’intervento additivo che auspica (per conseguire, per altro, il medesimo risultato, di pari tutela difensiva del coniuge convenuto, conseguibile, e già conseguito, in via interpretativa) è, per di più, prospettato in termini di irrisolta alternatività (ex plurimis, sentenza n. 22 del 2016, ordinanze n. 4 e n. 46 del 2016).

per questi motivi

La Corte Costituzionale

dichiara manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 10, della legge 1° dicembre 1970, n. 898 (Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio), come sostituito dall’art. 2, comma 3-bis, del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35 (Disposizioni urgenti nell’ambito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale), convertito, con modificazioni, dalla legge 14 maggio 2005, n. 80, sollevata – in riferimento agli artt. 3, 111 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) – dal giudice monocratico del Tribunale ordinario di Crotone, con l’ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 12 aprile 2017.