Ordinanza della Corte costituzionale 11 giugno 2014, n. 183

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G.U. 25 giugno 2014, n. 27

Con l’ordinanza n. 183/2014, la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 625 bis c.p.p. proposta dalla Corte di cassazione con riferimento agli artt. 3, 24, 11, 117, co. 1, Cost. quest’ultimo in relazione all’art. 6 della CEDU sul giusto processo. Il giudice rimettente, investito di un ricorso per errore di fatto ai sensi dell’art. 625 bis, sollevava questione di legittimità in quanto tale norma non consentiva alla persona indagata di attivare la procedura di correzione dell’errore materiale o di fatto commesso dalla Corte di cassazione in sede di procedimento ‘de libertate’. La Corte costituzionale ha dichiarato inammissibile la questione in quanto l’ordinanza di rimessione risultava carente sotto il profilo della descrizione dei fatti e dei motivi di ricorso.

Ordinanza

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 625-bis, commi 1 e 2, del codice di procedura penale, promosso dalla Corte di cassazione nel procedimento penale a carico di D.M.L., con ordinanza del 15 ottobre 2013, iscritta al n. 273 del registro ordinanze 2013 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 52, prima serie speciale, dell’anno 2013.

Visti l’atto di costituzione di D.M.L., nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica dell’8 aprile 2014 il Giudice relatore Giorgio Lattanzi;

uditi l’avvocato Giovanni Esposito Fariello per D.M.L. e l’avvocato dello Stato Massimo Giannuzzi per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto che, con ordinanza del 15 ottobre 2013 (r.o. n. 273 del 2013), la Corte di cassazione, terza sezione penale, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 111 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (d’ora in avanti: «CEDU»), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848, questione di legittimità costituzionale dell’art. 625-bis del codice di procedura penale, «nella parte in cui non consente alla persona indagata di attivare la procedura di correzione dell’errore materiale o di fatto commesso dalla Corte Suprema di Cassazione decidendo nel procedimento “de libertate”»;

che la Corte rimettente premette di essere investita di un ricorso per errore di fatto, ai sensi dell’art. 625-bis cod. proc. pen., proposto dal difensore dell’indagato;

che, come riferisce la Corte di cassazione, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Napoli aveva disposto con ordinanza «la sostituzione della misura cautelare della custodia domiciliare con quella della custodia in carcere» per il reato previsto dall’art. 73 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza);

che l’indagato aveva impugnato tale provvedimento davanti al Tribunale ordinario di Napoli, sezione del riesame, il quale, con ordinanza dell’8 novembre 2012, aveva confermato la decisione censurata;

che la Corte di cassazione, quarta sezione penale, con sentenza n. 21325 del 12 febbraio 2013, decidendo su ricorso dell’indagato, aveva respinto l’impugnazione, sì che la misura della custodia in carcere aveva «avuto esecuzione»;

che il difensore dell’indagato aveva proposto ricorso straordinario per errore di fatto, a norma dell’art. 625-bis cod. proc. pen., deducendo di non aver potuto partecipare all’udienza in cassazione perché non aveva ricevuto il relativo avviso, notificato per errore, mediante fax, a un diverso destinatario;

che in precedenza l’indagato aveva proposto un altro ricorso ai sensi dell’art. 625-bis cod. proc. pen., «avente contenuto nella sostanza analogo» a quello che ha dato luogo al presente procedimento;

che tale ricorso era stato dichiarato inammissibile con l’ordinanza della Corte di cassazione, terza sezione penale, n. 20931 del 26 aprile 2013, perché non era stato proposto da una persona “condannata” contro una sentenza che definisce il processo, come è previsto dall’art. 625-bis, commi 1 e 2, cod. proc. pen., ma contro un’ordinanza cautelare;

che, successivamente, erano stati proposti un nuovo ricorso ex art. 625-bis cod. proc. pen. e inoltre un ricorso, ai sensi dell’art. 130 cod. proc. pen., per correzione di errore materiale;

che la Corte di cassazione ha riconosciuto che il vizio lamentato, consistente nell’omessa notificazione al difensore dell’avviso dell’udienza, con conseguente svolgimento del procedimento camerale in assenza del contraddittorio, era effettivamente esistente, dato che la notificazione al difensore di fiducia era stata «effettuata a numero di telefono» diverso da quello del suo studio, che l’udienza si era svolta senza la sua presenza e che il Collegio non aveva rilevato l’invalidità;

che sarebbe stato violato il diritto dell’indagato di essere rappresentato in giudizio e assistito tecnicamente, con conseguente vizio del procedimento, integrante una nullità di ordine generale, prevista dall’art. 178, lettera c), cod. proc. pen.;

che, secondo la stessa Corte di cassazione, l’ordinanza di inammissibilità n. 20931 del 2013, definendo la fase incidentale, aveva determinato la formazione di un “giudicato cautelare”, con possibile effetto preclusivo nei confronti della nuova impugnazione, avente analogo contenuto e fondata sulla medesima disposizione di legge;

che, tuttavia, la Corte di cassazione, dopo aver escluso di poter sanare il vizio che si era verificato con un provvedimento di correzione dell’errore materiale, ai sensi dell’art. 130 cod. proc. pen., ha ritenuto di poter superare l’effetto preclusivo della precedente decisione di inammissibilità con argomenti analoghi a quelli adottati dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 113 del 2011;

che, tanto premesso, a giudizio della Corte rimettente, la disposizione dell’art. 625-bis cod. proc. pen. non potrebbe essere interpretata nel senso che anche la persona non “condannata” possa essere ammessa a richiedere la correzione dell’errore di fatto commesso dalla Corte di cassazione e quindi non sarebbe sostenibile un’interpretazione adeguatrice, costituzionalmente conforme, di tale disposizione;

che l’omessa previsione di rimedi processuali per ovviare all’errore di fatto commesso dalla Corte di cassazione nel procedimento de libertate determinerebbe la violazione dell’art. 111 Cost., per l’ineffettività delle garanzie apprestate dai commi secondo e settimo di tale articolo; sarebbero altresì violati l’art. 24, secondo comma, Cost., in considerazione della non giustificata compressione del diritto «dell’indagato e del suo difensore di essere informati della celebrazione del giudizio di cassazione e di essere posti in condizione di parteciparvi utilmente», e inoltre l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione ai principi del giusto processo contenuti nell’art. 6, comma 3, della CEDU;

che, infine, sarebbe non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 625-bis cod. proc. pen. in riferimento all’art. 3 Cost., posto che la eventuale impossibilità di correggere l’errore in cui la Corte di cassazione sia incorsa condurrebbe alla ingiustificata differenza di trattamento «nel regime attinente la libertà tra persone che, trovandosi in situazione analoga, hanno sollecitato il controllo del giudice di legittimità e partecipato [a] giudizi svoltisi, in un caso, nel rispetto del contraddittorio e, nell’altro, senza che la persona e il suo difensore siano stati posti in condizione di partecipare all’udienza camerale»;

che nel giudizio di legittimità costituzionale è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, e ha chiesto che la questione sia dichiarata infondata;

che in primo luogo, secondo l’Avvocatura, dovrebbe escludersi l’incompatibilità della disciplina censurata con il principio del giusto processo, di cui all’art. 111, primo comma, Cost., e con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 6 della CEDU;

che entrambe le norme evocate quali parametri di costituzionalità dovrebbero essere interpretate, infatti, come riferibili al merito del processo e non anche alla fase incidentale del giudizio di legittimità delle misure cautelari;

che neanche sarebbe prospettabile la violazione dell’art. 24, secondo comma, Cost., con riferimento all’ingiustificata compressione «del diritto dell’indagato e del suo difensore di essere informati del giudizio di cassazione e di essere posti in condizione di parteciparvi utilmente»;

che tale presunta limitazione del diritto di difesa non discenderebbe da una previsione legislativa «tale da non attribuire» il diritto alla notificazione o alla comunicazione dell’avviso dell’udienza;

che la scelta del legislatore di riservare il rimedio straordinario di cui all’art. 625-bis cod. proc. pen. ai soli casi di provvedimenti emessi nei confronti di un condannato non sarebbe censurabile sotto il profilo dell’art. 24, secondo comma, Cost., perché la posizione giuridica di una persona soggetta a una misura cautelare non avrebbe carattere di definitività, a differenza di quella di un condannato;

che infatti, anche nell’ipotesi in cui si sia formato un “giudicato cautelare”, la posizione di tale parte sarebbe suscettibile di nuova valutazione giurisdizionale;

che priva di pregio sarebbe, inoltre, l’ulteriore censura, prospettata con riferimento all’art. 3 Cost., posto che la lamentata disparità di trattamento non costituirebbe la necessaria conseguenza della norma censurata, ma sarebbe meramente eventuale;

che l’indagato nel giudizio principale si è costituito e ha chiesto l’accoglimento della questione, osservando come «una pronuncia di incostituzionalità della norma denunciata – laddove non si prevede né consente all’indagato di attivare tal ricorso straordinario in sede di correzione di errore materiale o di fatto nel procedimento de libertate – sia unico rimedio praticabile»;

che, con memoria depositata il 18 marzo 2014, l’Avvocatura ha ulteriormente sviluppato gli argomenti già enunciati per sostenere l’infondatezza della questione.

Considerato che la Corte di cassazione, terza sezione penale, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 111 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (d’ora in avanti: «CEDU»), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848, questione di legittimità costituzionale dell’art. 625-bis del codice di procedura penale, «nella parte in cui non consente alla persona indagata di attivare la procedura di correzione dell’errore materiale o di fatto commesso dalla Corte Suprema di Cassazione decidendo nel procedimento “de libertate”»;

che la questione è manifestamente inammissibile;

che innanzi tutto l’ordinanza di rimessione presenta carenze di descrizione dei fatti e dei motivi di ricorso sui quali si sarebbe formato il giudicato cautelare e non indica se il provvedimento cautelare che aveva formato oggetto del ricorso per cassazione sia tuttora attuale oppure, come è ben possibile, se sia stato, nelle more, sostituito o revocato;

che la sostituzione o la revoca del provvedimento avrebbero potuto far venire meno l’interesse al ricorso straordinario e quindi la rilevanza della questione;

che, in particolare, l’interesse a coltivare l’impugnazione nei confronti di una misura cautelare revocata permane solo se, ai fini della richiesta di riparazione dell’ingiusta detenzione, la parte intenda servirsi dell’eventuale pronuncia favorevole e ne faccia una specifica e motivata deduzione (Corte di cassazione, sezioni unite penali, 16 dicembre 2010, n. 7931; sesta sezione penale, 21 marzo 2013, n. 19217);

che inoltre un precedente analogo ricorso straordinario è stato dichiarato inammissibile dalla Corte di cassazione con ordinanza n. 20931 del 26 aprile 2013;

che, come riconosce lo stesso giudice rimettente, questa ordinanza «ha definito la fase incidentale, così che può parlarsi di formazione del “giudicato cautelare”; essa costituisce un precedente che può inibire la presentazione di una nuova impugnazione»;

che, secondo la giurisprudenza della stessa Corte di cassazione, deve ritenersi inammissibile il ricorso straordinario per errore materiale o di fatto riproposto per i medesimi motivi dopo una precedente decisione di inammissibilità (terza sezione penale, 3 marzo 2011, n. 23976);

che, secondo il giudice rimettente, la regola di preclusione basata sull’esistenza di una precedente pronuncia dovrebbe essere superata per ragioni analoghe a quelle considerate dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 113 del 2011;

che il riferimento alla sentenza n. 113 del 2011 non è tuttavia pertinente, perché la questione di legittimità costituzionale di cui questa Corte ha riconosciuto l’ammissibilità era ben diversa dalla precedente «in rapporto a tutti e tre gli elementi che compongono la questione», mentre con il ricorso straordinario in esame è stata avanzata per la seconda volta la medesima richiesta, e non può ritenersi che l’oggetto di questa sia cambiato solo perché è stata prospettata una questione di legittimità costituzionale che avrebbe potuto e dovuto essere sollevata nel primo procedimento;

che la questione va dichiarata, pertanto, manifestamente inammissibile.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

La Corte Costituzionale

dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 625-bis del codice di procedura penale, nella parte in cui non consente alla persona indagata di attivare la procedura di correzione dell’errore materiale o di fatto commesso dalla Corte di cassazione decidendo nel procedimento de libertate, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24, 111 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848, dalla Corte di cassazione, terza sezione penale, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l’11 giugno 2014.