G.U. 11 June 2014 No. 25
The Constitutional Court examined the legitimacy of Article 38.1, letter a), of law decree No. 98/2011 (urgent measures for the budget stabilisation), converted into law No. 111/2011, in respect of Articles 3, 24, 38, 97, 102, 111, and 117.1 of the Constitution, latter in conjunction with Articles 6 and 14 of ECHR. For the Court, the question was unfounded. The contested provision, establishing the extinction by law of certain proceedings in which the National Institute for Social Security (INPS) was involved (together with acceptance of the economic claims brought against the Institute) was not in violation of the right to a fair trial, or the prohibition of discrimination. The Court further remembered that the European Court of Human Rights has affirmed in many decisions that the States have a margin of appreciation with regard to the ways and means for ensuring the right to social security in the country.
Ordinanza
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 38, comma 1, lettera a), del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 15 luglio 2011, n. 111, promosso dal Tribunale ordinario di Lucera nel procedimento vertente tra Cipriano Nicola e l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) con ordinanza del 4 aprile 2012, iscritta al n. 127 del registro ordinanze 2012 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 26, prima serie speciale, dell’anno 2012.
Visti gli atti di costituzione di Cipriano Nicola e dell’INPS nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 15 aprile 2014 il Giudice relatore Paolo Maria Napolitano;
uditi gli avvocati Vincenzo De Michele per Cipriano Nicola, Antonietta Coretti per l’INPS e l’avvocato dello Stato Filippo Bucalo per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto che nel corso di un procedimento civile, relativo al ricalcolo dell’indennità di disoccupazione liquidata dall’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), il Tribunale ordinario di Lucera ha sollevato – in riferimento agli artt. 3, 24, 38, primo e secondo comma, 97, 102 e 111 della Costituzione, ritenendo di interpretarlo alla luce dell’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, nonché all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 6 e 14 della predetta Convenzione – questione di legittimità costituzionale dell’art. 38, comma 1, lettera a), del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 15 luglio 2011, n. 111;
che la norma impugnata – «Al fine di realizzare una maggiore economicità dell’azione amministrativa e favorire la piena operatività e trasparenza dei pagamenti, nonché deflazionare il contenzioso in materia previdenziale, di contenere la durata dei processi in materia previdenziale, nei termini di durata ragionevole dei processi, previsti ai sensi della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata ai sensi della legge 4 agosto 1955, n. 848» – prevede che «i processi in materia previdenziale nei quali sia parte l’INPS, pendenti nel primo grado di giudizio alla data del 31 dicembre 2010, per i quali, a tale data, non sia intervenuta sentenza, il cui valore non superi complessivamente euro 500,00, si estinguono di diritto, con riconoscimento della pretesa economica a favore del ricorrente.
L’estinzione è dichiarata con decreto dal giudice, anche d’ufficio. Per le spese del processo si applica l’articolo 310, quarto comma, del codice di procedura civile»;
che il rimettente rappresenta che la controversia di cui è investito, avente ad oggetto la domanda di un operaio agricolo a tempo determinato che chiede il ricalcolo dell’indennità di disoccupazione liquidata dall’INPS, ha un valore quantificato in euro 443,12 e deve essere necessariamente definita con una pronuncia processuale di estinzione, e che la decisione della domanda, nel merito, dipende dall’accoglimento della prospettata questione di legittimità costituzionale;
che il giudice a quo sostiene che la norma impugnata violerebbe l’art. 3 Cost. sotto il profilo dell’irragionevolezza dell’intervento del legislatore, in quanto se per le controversie che presuppongono un’attività processuale complessa l’estinzione ope legis e il riconoscimento della pretesa possono ritenersi coerenti con la dichiarata finalità deflattiva della legge, i medesimi effetti sarebbero del tutto illogici in caso di domanda manifestamente inammissibile, improponibile o infondata, laddove «l’impegno dell’autorità giudiziaria chiamata a pronunciarsi per definire il giudizio non è maggiore o diverso da quello che richiede la norma in questione per dichiararne l’estinzione». La disposizione censurata concretizzerebbe, altresì, un’ingiustificata disparità di trattamento poiché l’indiscriminata estinzione di tutti i processi di valore non superiore a 500,00 euro comporterebbe l’effetto del pagamento della prestazione tanto nei confronti di chi si era legittimamente rivolto all’autorità giudiziaria per ottenere il riconoscimento di una giusta pretesa, quanto a favore di chi non ne aveva diritto. Sarebbe, infine, immotivata l’opzione legislativa avente un ambito di applicabilità circoscritto alle sole controversie in cui è parte l’INPS, restando estranei alla disciplina tutti gli altri enti previdenziali;
che, ad avviso del Tribunale ordinario di Lucera, la norma violerebbe l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione ai principi della CEDU come interpretati dalla Corte di Strasburgo, ponendosi in contrasto con l’art. 14 sul divieto di discriminazioni basati sull’origine sociale o sulla ricchezza dell’individuo, in quanto la maggioranza dei giudizi destinati all’estinzione sono stati introdotti da braccianti agricoli precari che grazie alla norma impugnata otterrebbero il riconoscimento di prestazioni non riconosciute a tutti gli altri lavoratori dipendenti, e con l’art. 6, che sancisce la preminenza dell’equo processo, poiché non sarebbero ravvisabili, nel caso in esame, «motivi imperativi di interesse generale» idonei a giustificare l’intervento legislativo incidente sui giudizi in corso;
che il giudice a quo prospetta anche la violazione l’art. 102 Cost., sostenendo che la norma censurata avrebbe indebitamente invaso la sfera di competenza dell’ordine giudiziario, imponendo l’estinzione dei processi in corso ed impedendo l’esercizio della funzione giurisdizionale anche in relazione alle domande palesemente inammissibili, improponibili o infondate;
che il rimettente profila, altresì, il contrasto della norma con l’art. 111 Cost., ritenendo di interpretarlo alla luce dell’art. 6 della CEDU – poiché l’imposizione di una determinata soluzione soltanto in relazione ad una categoria di controversie lederebbe ancora una volta il principio del giusto processo sotto il profilo della parità delle parti – e con l’art. 24 Cost., in quanto il riconoscimento automatico della pretesa anche nelle ipotesi di domanda palesemente inammissibile, improponibile o infondata, sarebbe lesiva del diritto di difesa dell’INPS, imponendone, di fatto, la soccombenza, anche nei casi in cui l’esito del giudizio sarebbe stato diverso;
che la disposizione censurata violerebbe, infine, l’art. 97 Cost., in relazione sia all’art. 38, primo comma, Cost., in quanto non sarebbe conforme ai principi di buon andamento e imparzialità dell’amministrazione una previsione che impone il pagamento di prestazioni di natura pubblicistica anche nei casi in cui il beneficiario non ne abbia diritto, sia all’art. 38, secondo comma, Cost., poiché il compito del legislatore di prevedere mezzi adeguati in caso di impossibilità allo svolgimento dell’attività lavorativa non dovrebbe prescindere dalla verifica dei presupposti dell’intervento previdenziale, né operare a favore di coloro che potrebbero non trovarsi nella situazione giuridicamente protetta;
che si è costituito in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha eccepito l’inammissibilità del ricorso per generica motivazione dell’ordinanza sotto il profilo della rilevanza della questione nel giudizio a quo, e, nel merito, ne ha invocato il rigetto rimarcando la ragionevolezza della scelta legislativa tesa a deflazionare il contenzioso previdenziale in base ai minori costi correlati al riconoscimento delle pretese all’infuori di ogni distinzione tra le situazioni soggettive fatte valere in via giudiziaria;
che è intervenuto in giudizio l’INPS, che ha concluso per l’infondatezza della questione, rappresentando come la disciplina censurata realizzi «un equo bilanciamento fra l’interesse soddisfatto con il riconoscimento delle pretese economiche di valore non superiore ad euro cinquecento in favore dei ricorrenti di giudizi instaurati nei confronti dell’INPS e pendenti in primo grado alla data del 31.12.2000 e l’interesse a non gravare sia la posizione dell’ente che quella dello Stato più in generale per il caso in cui detti giudizi dovessero ostacolare oltremodo la ragionevole durata dei processi presso quelle strutture giudiziarie oberate da tale tipo di contenzioso» e rimarcando come il legislatore abbia voluto attuare «l’estinzione in massa» di un contenzioso avente determinate caratteristiche, senza realizzare alcuna illecita interferenza nell’amministrazione della giustizia e circoscrivendo il proprio intervento in relazione al dato fattuale dell’esistenza di un rilevante numero di cause di esiguo valore proprio nei confronti di esso Istituto;
che è intervenuta la parte ricorrente nel giudizio a quo, che ha inquadrato le origini del contenzioso in materia di ricalcolo delle prestazioni di disoccupazione agricola ed ha insistito per la declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 38, comma 1, lettera a), del d.l. n. 98 del 2011;
Considerato che il Tribunale ordinario di Lucera dubita – in riferimento agli artt. 3, 24, 38, primo e secondo comma, 97, 102 e 111 della Costituzione, ritenendo di interpretarlo alla luce dell’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, nonché all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 6 e 14 della predetta Convenzione – della legittimità costituzionale dell’art. 38, comma 1, lettera a), del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 15 luglio 2011, n. 111;
che, secondo il rimettente, l’estinzione del giudizio e il riconoscimento della pretesa ope legis sarebbero, alla luce dell’art. 3 Cost., effetti irragionevoli in ipotesi di domande manifestamente inammissibili, improponibili o infondate, operando anche a favore di coloro che non avrebbero diritto alla prestazione previdenziale ed essendo immotivatamente circoscritti alle sole controversie in cui è parte l’INPS;
che, sempre ad avviso del giudice a quo, la norma censurata si porrebbe in contrasto con ulteriori parametri costituzionali, e segnatamente con l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 14 della CEDU, riconoscendo prestazioni solo a favore della categoria di lavoratori che sono parte nei giudizi destinati all’estinzione, ed all’art. 6 della CEDU, per l’ipotizzata assenza dei «motivi imperativi di interesse generale» idonei a giustificare l’intervento legislativo incidente sui giudizi in corso; con l’art. 102 Cost., poiché avrebbe indebitamente invaso la sfera di competenza dell’ordine giudiziario; con l’art. 111 Cost., che dovrebbe essere interpretato alla luce dell’art. 6 della CEDU, in quanto lesiva del principio del giusto processo sotto il profilo della parità delle parti, e con l’art. 24 Cost., in quanto lesiva del diritto di difesa dell’INPS, imponendone la soccombenza anche nei casi in cui l’esito del giudizio sarebbe stato diverso; con l’art. 97 Cost., in relazione all’art. 38, primo e secondo comma, Cost., non essendo, ad avviso del Tribunale ordinario di Lucera, conforme ai principi di buon andamento e imparzialità dell’amministrazione l’imposizione del pagamento di prestazioni di natura pubblicistica prescindendo dalla verifica dei relativi presupposti, e finanche nei casi in cui il beneficiario non ne abbia diritto;
che l’eccezione di inammissibilità sollevata dal Presidente del Consiglio dei ministri non può essere accolta, in quanto l’ordinanza di rimessione è sorretta da un adeguato impianto argomentativo circa la rilevanza e la non implausibilità delle ragioni indicate a sostegno della non manifesta infondatezza della questione (per tutte, sentenze n. 273 e n. 225 del 2013);
che devono essere dichiarate inammissibili le argomentazioni e le censure svolte dalla difesa della parte ricorrente nel giudizio a quo, con riferimento ai profili non evocati dal giudice rimettente (sentenza n. 349 del 2007);
che la disposizione impugnata si colloca in un quadro normativo connotato dalla finalità – espressamente dichiarata dal legislatore statale – di «realizzare una maggiore economicità dell’azione amministrativa e favorire la piena operatività e trasparenza dei pagamenti, nonché deflazionare il contenzioso in materia previdenziale, di contenere la durata dei processi in materia previdenziale, nei termini di durata ragionevole dei processi, previsti ai sensi della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata ai sensi della legge 4 agosto 1955, n. 848», e si è limitata ad introdurre «una misura di carattere processuale con chiari intenti di deflazione del contenzioso» (sentenza n. 173 del 2010);
che, in particolare, la realizzazione di economie di spesa nel settore previdenziale – descritta con chiarezza nella relazione tecnica che ha accompagnato l’approvazione della norma – è stata ritenuta da questa Corte idonea a giustificare, nell’ottica del bilanciamento dei valori costituzionali, soluzioni atte a «rendere sostenibile l’equilibrio del sistema previdenziale a garanzia di coloro che usufruiscono delle sue prestazioni» (sentenza n. 264 del 2012);
che, sotto connesso profilo, questa Corte ha ribadito, a proposito delle disposizioni in materia di perequazione dei trattamenti pensionistici, che la discrezionalità del legislatore si snoda «attraverso un bilanciamento dei valori contrapposti che tenga conto, accanto alle esigenze di vita dei beneficiari, anche delle concrete disponibilità finanziarie e delle esigenze di bilancio» (sentenza n. 316 del 2010);
che la disposizione in esame costituisce, dunque, lo strumento per attuare l’opzione normativa che il legislatore si era prefisso, e produce, come effetto primario, l’«estinzione di massa» di una determinata categoria di giudizi, senza operare alcuna trasformazione della disciplina applicabile ai rapporti controversi: essa, pertanto, «non tocca la potestà di giudicare ma opera sul piano generale ed astratto delle fonti, costruendo il modello normativo cui la decisione del giudice deve riferirsi» (sentenza n. 303 del 2011 e, nello stesso senso, sentenze n. 94 del 2009 e n. 170 del 2008);
che, una volta inquadrato lo specifico contesto nel quale è intervenuta la norma qui censurata, deve essere dichiarata la manifesta infondatezza della questione in riferimento alla violazione dell’art. 3 Cost. dedotta sotto i profili dell’irragionevolezza e della disparità di trattamento, in quanto la prospettazione del rimettente si fonda sull’erroneo approccio che il «riconoscimento della pretesa economica a favore del ricorrente» venga ad incidere sulla disciplina sostanziale dei rapporti su cui essa è destinata ad operare, finalità che, come si è detto, è del tutto estranea alla ratio legis;
che la ragionevolezza dell’opzione del legislatore neppure può ritenersi vulnerata dalla circostanza che in virtù della norma censurata i braccianti agricoli precari otterrebbero il riconoscimento di una pretesa esclusa per tutti gli altri lavoratori dipendenti, trattandosi di un mero inconveniente di fatto, che secondo la giurisprudenza di questa Corte non è idoneo ad introdurre il giudizio di legittimità di una norma (sentenza n. 117 del 2012 e ordinanza n. 362 del 2008), in quanto non è dalla disposizione in scrutinio che derivano, in via diretta ed immediata, le discriminazioni ipotizzate dal rimettente (sentenza n. 303 del 2011);
che la questione è manifestamente infondata anche per quanto concerne la prospettata violazione dell’art. 24 Cost., sull’assunto che il riconoscimento automatico della pretesa nelle ipotesi di domanda palesemente inammissibile, improponibile o infondata sarebbe lesiva del diritto di difesa dell’INPS, destinato alla soccombenza anche nei casi in cui l’esito del giudizio sarebbe stato diverso. Va infatti ribadito che il legislatore statale ha inteso attuare la deflazione del contenzioso previdenziale ricorrendo allo strumento della generalizzata estinzione di «diritto» dei giudizi di contenuto valore, prescindendo dalla qualifica delle parti e dalla probabile fondatezza delle pretese azionate in giudizio, e ponendosi, come si è detto, in posizione di «estraneità rispetto alla trama normativa» (sentenza n. 173 del 2010);
che, per effetto di tutte le considerazioni svolte, deve escludersi la violazione dell’art. 111 Cost. – che il rimettente ritiene debba essere interpretato alla luce dell’art. 6 della CEDU – ipotizzata dal giudice a quo sul rilievo che la disposizione contenuta nell’art. 38, comma 1, lettera a), del d.l. n. 98 del 2011, imponendo una determinata soluzione in relazione ad una categoria di controversie circoscritta sul piano soggettivo e oggettivo, violerebbe il principio del giusto processo sotto il profilo della parità delle parti, dovendosi, ancora una volta, rimarcare che l’incidenza della disciplina censurata sui giudizi in corso si colloca su un piano diverso da quella che è l’applicazione giudiziale di una norma sostanziale alla singola fattispecie, evenienza che non ricorre nel caso in esame;
che, a sostegno della manifesta infondatezza della questione in riferimento a tutti i profili appena esaminati, non può essere sottaciuto che la soluzione contemplata dalla norma impugnata è di segno certamente positivo (ordinanza n. 52 del 2001) sia per l’INPS – sulla scorta dei previsti benefici economici della chiusura ex lege delle cause pendenti al 31 dicembre 2010 -, sia per le parti ricorrenti, titolari di situazioni giuridiche che non possono considerarsi acquisite nè consolidate, avuto riguardo alla pendenza del giudizio in primo grado ed alle incertezze derivanti dalle contrastanti pronunce della giurisprudenza e dal mutato orientamento dell’Istituto nell’adozione dei criteri di calcolo delle prestazioni agricole (sentenze n. 257 del 2011, n. 55 del 1997 e n. 103 del 1995);
che deve essere parimenti escluso il contrasto della norma censurata con l’art. 102 Cost., avendo questa Corte costantemente affermato che le attribuzioni costituzionali dell’autorità giudiziaria non possono ritenersi violate quando – come è evidente dalla chiara formulazione della finalità della disciplina in esame – il legislatore non risolve, con la forma della legge, specifiche controversie (sentenza n. 94 del 2009), né detta la soluzione delle concrete fattispecie in giudizio (sentenza n. 419 del 2000), ma opera, come si è detto, sul piano delle fonti, delimitando la fattispecie normativa che è presupposto della potestas judicandi (così la già richiamata sentenza n. 303 del 2011 e, nello stesso senso, le sentenze n. 170 del 2008 e n. 432 del 1997, nonché l’ordinanza n. 263 del 2002). Ne consegue che, anche sotto il profilo in esame, la questione è manifestamente infondata; che, per ciò che concerne la lesione dell’art. 97 Cost., la disposizione richiamata dal rimettente è, di per sé, in conferente rispetto al dedotto profilo di incostituzionalità, in quanto, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, il principio di buon andamento è applicabile esclusivamente all’attività della pubblica amministrazione, mentre in questa sede è in discussione lo svolgimento della funzione legislativa in relazione ad un settore che non concerne l’ordinamento degli uffici giudiziari ma l’esercizio della funzione giurisdizionale (sentenze n. 94 del 2009, n. 372 e n. 241 del 2008, n. 182 del 1996);
che quanto precede conduce alla manifesta infondatezza delle censure con cui il rimettente lamenta il contrasto della norma con l’art. 38, primo e secondo comma, Cost., dovendosi rimarcare la natura processuale e non sostanziale della misura dettata con finalità esclusivamente deflattiva, e rammentare che, in ogni caso, l’art. 38, Cost. non esclude neppure «la possibilità di un intervento legislativo che, per una inderogabile esigenza di contenimento della spesa pubblica, riduca un trattamento previdenziale prima spettante in base alla legge, fermo restando il controllo di ragionevolezza sulle singole norme riduttive» (sentenze n. 119 del 2012 e n. 257 del 2011);
che la questione è manifestamente infondata anche con riferimento alla dedotta violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione ai principi dettati dagli artt. 6 e 14 della CEDU, come interpretati dalla Corte di Strasburgo;
che, in particolare, quanto al citato art. 6, la denunciata assenza dei «motivi imperativi di interesse generale» idonei a giustificare un intervento legislativo incidente sui processi in corso è innanzitutto smentita dalla esplicita indicazione dei criteri di calcolo delle economie e dei risparmi effettivi posta in luce dal legislatore statale nel corso dei lavori di approvazione dell’art. 38 del d.l. n. 98 del 2011: tale circostanza, in linea di principio, consente di ritenere che la disposizione censurata ben si armonizza con la definizione di «interesse finanziario» dello Stato offerta dalla Corte di Strasburgo (ex plurimis: sentenze 25 novembre 2010, Lilly France c. Francia, e 21 giugno 2007, Scanner de l’Ouest Lyonnais ed altri c. Francia);
che, nel merito, la palese infondatezza della censura discende dalla più volte evidenziata impossibilità di ravvisare, nel caso in esame, «interferenze» del potere legislativo nell’amministrazione della giustizia, in ragione dell’inidoneità della norma impugnata ad influire sullo jus dicere in relazione alla soluzione giudiziaria delle controversie sulle quali essa incide e che tale rilievo induce ad escludere che la disciplina in scrutinio debba essere assoggettata, in concreto, al vaglio dei «motivi imperativi di interesse generale» nei termini prospettati dal rimettente;
che, diversamente, la disposizione censurata non sfugge al giudizio di compatibilità con l’art. 14 della CEDU;
che deve premettersi, a tale proposito, che la Corte di Strasburgo ha sottolineato l’ampio margine di apprezzamento di cui godono gli Stati membri nel dettare la disciplina per accedere a specifici trattamenti assistenziali, in considerazione della conoscenza diretta delle peculiarità dei rispettivi contesti sociali e dei relativi bisogni, e stante la posizione privilegiata di cui gli Stati stessi godono per stabilire quanto sia di pubblica utilità in materia economica e sociale (sentenza della Grande Camera, 16 marzo 2010, Carson e altri c. Regno Unito; nello stesso senso, sentenza della Grande Camera, 29 aprile 2008, Burden c. Regno Unito);
che la Corte EDU ha precisato che l’articolo 1 del Protocollo n. 1 non limita la libertà degli Stati di decidere se attuare o meno un sistema di sicurezza sociale o di scegliere il tipo o il livello dei benefici concessi sulla base di tale regime, e che una differenziazione di trattamento è discriminatoria, ai sensi dell’articolo 14, se non ha una giustificazione obiettiva e ragionevole, vale a dire se non vi è ragionevole rapporto di proporzionalità tra i mezzi impiegati e lo scopo perseguito (sentenza della Grande Camera, 6 luglio 2005, Stec e altri c. Regno Unito);
che, in tale quadro, non è condivisibile l’assunto del rimettente che prospetta la violazione dell’art. 14 della CEDU in base alla circostanza che la gran parte dei giudizi destinati all’estinzione sono stati introdotti da braccianti agricoli precari i quali, in virtù della norma censurata, riceverebbero prestazioni non riconosciute alle altre categorie di lavoratori, non potendosi far discendere la lesione del principio di non discriminazione da situazioni individuali o dalle condizioni soggettive del singolo ricorrente o dei destinatari del provvedimento censurato (così la sentenza sopra citata del 16 marzo 2010 e, nello stesso senso, le altre pronunce sopra richiamate);
che, pertanto, anche per l’ultimo dei profili in esame la questione è manifestamente infondata;
Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale;
per questi motivi
La Corte Costituzionale
dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 38, comma 1, lettera a), del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 15 luglio 2011, n. 111, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 117, primo comma, della Costituzione, in relazione agli artt. 6 e 14 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, nonché agli artt. 102 e 111 Cost., per violazione dell’art. 6 della predetta Convenzione, e agli artt. 24, 97 e 38, primo e secondo comma, Cost., dal Tribunale ordinario di Lucera, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 maggio 2014.