Decision of the Constitutional Court No. 63 of 23 February 2016

In:

G.U. 30 March 2016, No. 13

By judgment No. 63/2016, the Constitutional Court declared inadmissible a recourse from the government concerning the legitimacy of certain provisions of law No. 12/2005 of Lombardia Region as amended by law No. 2/2015, on religious buildings with regard to Article 117.1 and 2 of the Constitution. The reason was that the government omitted to specify, in its recourse, which provisions, and for which reasons, were allegedly in breach of certain international law provisions. The government limited itself to mention, on very general terms, the EU Charter of Fundamental Rights (Articles 10, on freedom of thought, conscience and religion, 21 on non-discrimination, 22 on cultural, religious and linguistic diversity) and Article 18 of the International Covenant on Civil and Political Rights. Recalling its previous jurisprudence, the Court further pointed out that, in line with Article 51 of the EU Charter, the Charter’s provisions can be invoked for assessing internal norms’ constitutionality only in the event that the implementation of the EU law is involved.

Sentenza

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 70, commi 2, 2-bis, 2-ter e 2-quater, e 72, commi 4, 5 e 7, lettere e) e g), della legge della Regione Lombardia 11 marzo 2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio), come modificati dall’art. 1, comma 1, lettere b) e c), della legge della Regione Lombardia 3 febbraio 2015, n. 2, recante «Modifiche alla legge regionale 11 marzo 2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio) – Principi per la pianificazione delle attrezzature per servizi religiosi», promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 3-7 aprile 2015, depositato in cancelleria il 9 aprile 2015 ed iscritto al n. 47 del registro ricorsi 2015.

Visto l’atto di costituzione della Regione Lombardia, nonché l’atto di intervento dell’Associazione VOX – Osservatorio italiano sui Diritti;

udito nell’udienza pubblica del 23 febbraio 2016 il Giudice relatore Marta Cartabia;

uditi l’avvocato dello Stato Massimo Giannuzzi per il Presidente del Consiglio dei ministri e l’avvocato Pio Dario Vivone per la Regione Lombardia.

Ritenuto in fatto

1.– Con ricorso notificato il 3-7 aprile 2015 e depositato il 9 aprile 2015 (reg. ric. n. 47 del 2015), il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha impugnato gli artt. 70, commi 2, 2-bis, 2-ter e 2-quater, e 72, commi 4, 5 e 7, lettere e) e g), della legge della Regione Lombardia 11 marzo 2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio), come modificati dall’art. 1, comma 1, lettere b) e c), della legge della Regione Lombardia 3 febbraio 2015, n. 2, recante «Modifiche alla legge regionale 11 marzo 2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio) – Principi per la pianificazione delle attrezzature per servizi religiosi».

1.1.– In premessa, il ricorrente riporta il contenuto dei citati artt. 70 e 72 della l. reg. Lombardia n. 12 del 2005, nel testo anteriore e successivo alle modifiche oggetto di censura.

1.1.1.– Prima delle modifiche, l’art. 70, comma 2, regolava l’applicazione agli enti delle confessioni religiose diverse da quella cattolica delle disposizioni del capo della legge regionale n. 12 del 2005, del quale lo stesso art. 70 faceva (e fa) parte: il Capo III del Titolo IV della Parte II, intitolato «Norme per la realizzazione di edifici di culto e di attrezzature destinate a servizi religiosi», il quale comprende gli articoli da 70 a 73 e dispone, tra l’altro, in merito alla pianificazione di tali edifici e attrezzature (art. 72), nonché ai finanziamenti per la loro realizzazione, per gli interventi su di essi e per l’acquisto delle aree necessarie (art. 73).

Nella versione anteriore alle modifiche in questione, l’art. 70, comma 2, affermava l’applicabilità delle norme citate agli enti delle confessioni religiose diverse da quella cattolica, «come tali qualificate in base a criteri desumibili dall’ordinamento ed aventi una presenza diffusa, organizzata e stabile nell’ambito del comune ove siano effettuati gli interventi disciplinati [dal Capo III], ed i cui statuti [esprimessero] il carattere religioso delle loro finalità istituzionali e previa stipulazione di convenzione tra il comune e le confessioni interessate».

L’art. 1, comma 1, lettera b), della legge regionale n. 2 del 2015 ha sostituito l’art. 70, comma 2, e ha inserito, dopo di esso, i commi 2-bis, 2-ter e 2-quater.

In seguito a tali modifiche, le disposizioni del più volte citato Capo III si applicano, oltre che agli enti di culto della Chiesa cattolica (art. 70, comma 1), anche a quelli delle confessioni religiose per le quali lo Stato ha già approvato con legge la relativa intesa, ai sensi dell’art. 8, terzo comma, della Costituzione (art. 70, comma 2), nonché agli enti delle altre confessioni che presentino i seguenti requisiti: una «presenza diffusa, organizzata e consistente a livello territoriale» e «un significativo insediamento nell’ambito del comune nel quale vengono effettuati gli interventi» (art. 70, comma 2-bis, lettera a); statuti che esprimano il carattere religioso degli enti stessi «e il rispetto dei principi e dei valori della Costituzione» (art. 70, comma 2-bis, lettera b).

Ai fini dell’applicazione di quanto previsto nel Capo III, gli enti delle confessioni religiose diverse da quella cattolica devono stipulare una «convenzione a fini urbanistici» con il Comune interessato (art. 70, comma 2-ter, primo periodo), la quale deve a sua volta prevedere espressamente la possibilità di risoluzione o revoca «in caso di accertamento da parte del Comune di attività non previste nella convenzione (art. 70, comma 2-ter, secondo periodo).

Allo scopo di consentire ai Comuni la corretta applicazione delle norme per la realizzazione di edifici di culto e attrezzature destinate a servizi religiosi, è previsto che la sussistenza dei requisiti di cui all’art. 70, comma 2-bis sia oggetto di un «parere preventivo e obbligatorio» di una consulta regionale, istituita e nominata con provvedimento della Giunta regionale, che ne disciplina altresì composizione e modalità di funzionamento (art. 70, comma 2-quater).

1.1.2.– L’art. 72 della legge regionale n. 12 del 2005, prima delle modifiche oggetto di censura, demandava al piano dei servizi di ciascun Comune – previa valutazione delle istanze avanzate dagli enti delle confessioni religiose di cui al precedente art. 70 – il compito di individuare, dimensionare e disciplinare le aree che accogliessero attrezzature religiose o fossero a ciò destinate. Tra l’altro, l’art. 72 prescriveva che il piano dei servizi assicurasse nuove aree per le attrezzature religiose in tutti i nuovi insediamenti residenziali, qualunque fosse la dotazione di tali attrezzature già esistente (comma 2); consentiva, altresì, ai Comuni la previsione di aree destinate ad accogliere attrezzature religiose di interesse sovracomunale (comma 3); stabiliva che le aree destinate ad accogliere attrezzature religiose fossero ripartite tra gli enti che ne avessero fatto istanza in base alla consistenza e incidenza sociale delle rispettive confessioni (comma 4).

Dopo la novella di cui all’art. 1, comma 1, lettera c), della legge regionale n. 2 del 2015, l’art. 72 prevede che individuazione, dimensionamento e disciplina delle aree che accolgono, o sono destinate ad accogliere, attrezzature religiose avvenga attraverso il piano delle attrezzature religiose, «atto separato facente parte del piano dei servizi», in base alle esigenze locali e valutate le istanze degli enti di cui all’art. 70 (art. 72, comma 1).

L’installazione di nuove attrezzature religiose presuppone l’approvazione del piano omonimo (art. 72, comma 2), la quale deve avvenire con le stesse procedure previste per gli altri piani che compongono il piano di governo del territorio (art. 72, comma 3, che rinvia all’art. 13 della stessa legge regionale n. 12 del 2005). Nel relativo procedimento, «vengono acquisiti i pareri di organizzazioni, comitati di cittadini, esponenti e rappresentanti delle forze dell’ordine oltre agli uffici provinciali di questura e prefettura al fine di valutare possibili profili di sicurezza pubblica, fatta salva l’autonomia degli organi statali» (art. 72, comma 4, primo periodo). Inoltre, «resta ferma la facoltà per i comuni di indire referendum nel rispetto delle previsioni statutarie e dell’ordinamento statale» (art. 72, comma 4, secondo periodo). «I comuni che intendono prevedere nuove attrezzature religiose sono tenuti ad adottare e approvare il piano delle attrezzature religiose» entro diciotto mesi dall’entrata in vigore della legge regionale n. 2 del 2015 (art. 72, comma 5, primo periodo), avvenuta (a norma dell’art. 2 della stessa legge) il giorno dopo la sua pubblicazione nel Supplemento al Bollettino Ufficiale della Regione Lombardia 5 febbraio 2015, n. 6. Decorso tale termine, il piano delle attrezzature religiose deve essere approvato unitamente al nuovo piano di governo del territorio (art. 72, comma 5, secondo periodo).

L’art. 72, oltre a disporre in merito alla possibile valenza sovracomunale del piano delle attrezzature religiose (comma 6), stabilisce che il piano debba prevedere (comma 7): a) la presenza o, altrimenti, l’esecuzione o adeguamento, con onere a carico dei richiedenti, di strade di collegamento di dimensioni adeguate; b) la presenza o, altrimenti, l’esecuzione o adeguamento, con onere a carico dei richiedenti, di adeguate opere di urbanizzazione primaria; c) distanze adeguate tra aree ed edifici destinati a confessioni diverse, nel rispetto di minimi stabiliti con deliberazione della Giunta regionale; d) spazi da destinare a parcheggi, in misure determinate dalla legge stessa ed eventualmente, in aggiunta, dal piano dei servizi; e) la realizzazione, con onere a carico dei richiedenti, di impianti di videosorveglianza esterni all’edificio che vigilino su ogni punto d’ingresso e siano collegati con uffici di polizia; f) la realizzazione di adeguati servizi igienici e l’accessibilità ai disabili; g) la «congruità architettonica e dimensionale degli edifici di culto previsti con le caratteristiche generali e peculiari del paesaggio lombardo», come individuate nel piano territoriale regionale (di cui agli artt. 19 e seguenti della medesima legge regionale n. 12 del 2005).

Ai sensi del suo comma 8, l’art. 72, come modificato, non si applica alle attrezzature religiose già esistenti all’entrata in vigore della legge regionale n. 2 del 2015.

1.2.– Tanto premesso, il ricorrente formula otto motivi di censura nei confronti di diverse parti degli artt. 70 e 72 della legge regionale n. 12 del 2005, come modificati, rispettivamente, dall’art. 1, comma 1, lettere b) e c) della legge regionale n. 2 del 2015.

1.2.1.– Nel primo motivo si osserva che, nel novellato art. 70, i commi 2 e 2-bis – ed in ispecie la lettera a) del comma 2-bis – contrastano con gli artt. 3, 8 e 19 Cost., in quanto essi «introducono un’irragionevole disparità di trattamento a danno delle confessioni acattoliche prive di intesa o con intesa non ancora approvata con legge, rispetto alla Chiesa Cattolica e alle altre confessioni religiose con intesa già approvata con legge». In proposito, il ricorrente rileva che «la tutela della libertà religiosa per le confessioni diverse dalla cattolica esige cura e attenzione particolari nella considerazione che le condizioni di queste confessioni (ancor più di quelle di nuova formazione) sono disagiate e precarie proprio in materia di edifici di culto e di attrezzature religiose essenziali». Interponendo difficoltà e complicazioni (amministrative, finanziarie e logistiche) alla realizzazione di nuovi templi, le norme in questione discriminerebbero irragionevolmente tra soggetti portatori di interessi identici, limitando e ostacolando l’esercizio della libertà religiosa e in particolare della libertà di professare la propria fede in forma associata ed esercitarne il culto in privato o in pubblico (è richiamata in proposito la sentenza della Corte costituzionale n. 195 del 1993).

1.2.2.– I commi 2-bis, lettera b), e 2-quater dell’art. 70 sono censurati per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera c), Cost. Ad avviso del ricorrente, il contrasto sussiste in quanto «la valutazione dei requisiti di cui al comma 2-bis (presenza diffusa, organizzata e consistente a livello territoriale e significativo insediamento nell’ambito del comune nel quale vengono effettuati gli interventi […], carattere religioso delle finalità istituzionali e rispetto dei principi e dei valori della Costituzione da parte degli enti delle confessioni religiose) viene, ai sensi del comma 2-quater, affidata a una “consulta regionale”, da nominarsi con provvedimento della Giunta regionale, competente al rilascio di un parere preventivo e obbligatorio sulla sussistenza dei requisiti di cui al menzionato comma 2-bis». In particolare, è denunciata come lesiva delle attribuzioni costituzionalmente riservate allo Stato la circostanza che si affidi a un organo regionale la valutazione di caratteristiche degli enti confessionali, quali le loro finalità istituzionali e il rispetto dei principi e dei valori costituzionali.

1.2.3.– Il comma 2-ter dell’art. 70 è censurato per violazione dell’art. 19 Cost., poiché definirebbe con una formula troppo generale e generica i presupposti della risoluzione o revoca della convenzione, che il Comune può disporre unilateralmente. In proposito, si osserva che un ente confessionale ben potrebbe svolgere, purché nel rispetto della pertinente legislazione, attività anche diverse da quelle di religione e culto, ad esempio di carattere culturale o sportivo.

1.2.4.– I commi 2-bis, 2-ter e 2-quater dell’art. 70 sono inoltre complessivamente censurati per violazione dell’art. 117, commi primo e secondo, lettera a), Cost., nei quali sarebbero «consacrati» i «principi europei ed internazionali in materia di libertà di religione e di culto». In particolare sono richiamati: a) il Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, i cui artt. 10, 17 e 19 impegnano l’Unione a lottare contro le discriminazioni religiose nell’elaborazione e nell’attuazione delle politiche europee, affermano il principio del dialogo con le confessioni religiose, salvaguardano i sistemi nazionali di disciplina dei rapporti tra le confessioni e gli Stati e affermano la competenza dell’Unione nell’elaborazione di provvedimenti per contrastare le discriminazioni fondate sulla religione; b) la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007), i cui artt. 10, 21 e 22 tutelano la diversità religiosa, garantiscono la libertà di religione e vietano discriminazioni basate sulla religione; c) il Patto internazionale sui diritti civili e politici (adottato a New York il 16 dicembre 1966, ratificato e reso esecutivo in Italia con legge 25 ottobre 1977, n. 881), il cui art. 18 (interpretato anche alla luce del Commento generale adottato il 20 luglio 1993 dal Comitato per i diritti umani dell’Organizzazione delle Nazioni Unite) obbliga gli Stati contraenti a rispettare la libertà di religione, la quale si estende a tutti gli atti che siano espressione diretta di fede, ivi compresa la realizzazione di luoghi dedicati al culto e alla discussione egli interessi sociali e culturali della comunità, nonché ad adottare misure infrastrutturali e condizioni favorevoli per facilitare lo sviluppo libero e non discriminatorio delle comunità religiose e dei loro membri, con i soli limiti, previsti dalla legge, che siano necessari – secondo canoni di proporzionalità e diretta correlazione – alla tutela della sicurezza pubblica, dell’ordine pubblico, della sanità pubblica, della morale pubblica o di altri diritti e libertà fondamentali, vietando comunque qualsiasi restrizione imposta o applicata per fini discriminatori.

1.2.5.– I commi 4 e 7, lettera e), dell’art. 72 della legge regionale n. 12 del 2005 (come introdotti dall’art. 1, comma 1, lettera c) della legge regionale n. 2 del 2015) sono censurati per violazione degli artt. 117, secondo comma, lettera h), e 118, terzo comma, Cost. Le relative norme, prescrivendo l’acquisizione di pareri inerenti a possibili questioni di sicurezza pubblica, nonché l’installazione di impianti di videosorveglianza, disporrebbero nella materia «ordine pubblico e sicurezza», rimessa alla competenza esclusiva della legge statale, alla quale pure è riservata la prerogativa di disciplinare eventuali forme di coordinamento tra Stato e Regioni nella stessa materia. Sono richiamate, in particolare, la sentenza n. 45 del 1957, la quale ha negato la sussistenza, nell’ordinamento vigente, di una corrispondenza necessaria tra libertà costituzionali e poteri di controllo preventivo da parte dell’autorità di pubblica sicurezza; nonché la sentenza n. 325 del 2011, dove la Corte ha chiarito che l’esercizio di una competenza propria della Regione non deve tradursi in uno strumento di politica criminale, né generare interferenze, anche solo potenziali, con la disciplina statale di prevenzione e repressione dei reati.

1.2.6.– L’art. 72, comma 4, ultimo periodo, è censurato per violazione dell’art. 19 Cost., dal momento che, affermando la facoltà dei Comuni di indire referendum in merito ai piani delle attrezzature religiose, farebbe sì che la possibilità di destinare a tali attrezzature determinate aree risulti «subordinata a decisioni espressione di maggioranze politiche o culturali o altro». È richiamata la sentenza n. 59 del 1958, con cui la Corte ha ricondotto all’ampia formula dell’art. 19 Cost. tutte le manifestazioni del culto, compresa l’apertura di templi e oratori.

1.2.7.– L’art. 72, comma 7, lettera g), è censurato per violazione degli artt. 3, 8 e 19 Cost. perché, richiamando con formula «già di per sé ambigua e non priva di una qualche inafferrabilità concettuale», le caratteristiche generali e peculiari del paesaggio lombardo, si presterebbe ad applicazioni così ampiamente discrezionali, da consentire facilmente applicazioni discriminatorie nei confronti di alcuni enti religiosi, tenuto conto delle specificità stilistiche e architettoniche che possono contraddistinguerne i luoghi di culto, per ragioni legate alla storia nazionale e a quella delle singole confessioni.

1.2.8.– Infine, l’art. 72, comma 5, contrasterebbe con l’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., in quanto stabilirebbe la mera facoltà, per i Comuni che intendano farlo, e non l’obbligo per tutti i Comuni di prevedere la realizzazione di nuove attrezzature religiose attraverso l’apposito piano. Per contro, l’art. 3 del decreto del Ministero dei lavori pubblici 2 aprile 1968, n. 1444 (Limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza fra i fabbricati e rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a parcheggi da osservare ai fini della formazione dei nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti, ai sensi dell’art. 17 della L. 6 agosto 1967, n. 765), nel determinare i rapporti massimi tra gli spazi destinati a insediamenti residenziali e quelli pubblici o riservati ad attività collettive, richiede che nella programmazione territoriale comunale siano individuati almeno 2 metri quadrati per abitante da destinare ad attrezzature di interesse comune, tra cui quelle religiose. Ad avviso del ricorrente, tale previsione di dotazioni minime ha carattere inderogabile, attiene alla materia dell’«ordinamento civile» e risponde a esigenze pubbliche sovrastanti gli interessi dei singoli (sono richiamate le sentenze n. 232 del 2005 e n. 120 del 1996).

2.– Con atto depositato il 13 maggio 2015, si è costituita in giudizio la Regione Lombardia, in persona del Presidente della Giunta regionale in carica, eccependo l’inammissibilità e l’infondatezza delle questioni sollevate dal Presidente del Consiglio dei ministri.

2.1.– La Regione premette una ricognizione dei contenuti degli artt. 70 e 72, con particolare riguardo alle principali innovazioni apportate ad essi dalla legge regionale n. 2 del 2015.

Tra l’altro, con riguardo all’art. 70, la Regione osserva che, prima di tali innovazioni, era previsto un «regime base» per la Chiesa cattolica, e uno «collaterale» per le altre confessioni, cui il regime di base era esteso. Attualmente, sarebbero previsti due modelli «base», pienamente equiparati, per la Chiesa cattolica e le confessioni religiose per le quali un’intesa sia stata stipulata e approvata con legge; e un «modello collaterale», per le altre confessioni. Tra le ulteriori novità, la difesa regionale segnala il requisito, per le confessioni per cui non sia stata approvata un’intesa con legge, del rispetto dei principi e dei valori della Costituzione; la risolvibilità della convenzione a fini urbanistici con il Comune, nel caso di violazione della stessa; l’istituzione di una consulta regionale che rilasci ai Comuni pareri preventivi e obbligatori, ma non vincolanti, in merito ai requisiti delle confessioni per cui non sia stata approvata un’intesa con legge.

2.2.– Dopo avere ripercorso anche i contenuti dell’art. 72 oggetto di censura, la Regione replica a ciascuno dei motivi di ricorso.

2.2.1.– In risposta alle censure rivolte contro l’art. 70, commi 2 e 2-bis, lettera a), anche la difesa regionale si riporta alla sentenza n. 195 del 1993, per distinguere quanto ivi è stato affermato in merito ai contributi regionali, alla pianificazione urbanistica delle infrastrutture religiose e, soprattutto, alla nozione di confessione religiosa rilevante a tali fini. Da un lato, sarebbe discriminatoria, e contrastante con l’art. 8, primo comma, Cost., l’esclusione dai benefici finanziari (vale a dire, dall’attribuzione delle risorse ricavate dagli oneri di urbanizzazione) delle confessioni per le quali non sussistano le condizioni di cui all’art. 8, commi secondo e terzo, Cost.; dall’altro, però, per l’ammissione ai predetti benefici non può bastare l’auto-qualificazione del richiedente come confessione religiosa; d’altra parte, in mancanza di intesa, la natura religiosa deve risultare da indici quali precedenti riconoscimenti pubblici, da chiare enunciazioni statutarie o dalla comune considerazione.

A fronte del crescente pluralismo religioso, sociale e culturale che si riscontra nel territorio italiano e lombardo, si pone per tutti «la necessità, a fini regolativi, di distinguere tra edifici di culto e sedi di circoli, comitati e associazioni, pur essi da tutelare in quanto espressione di principi costituzionali (libertà di associazione, di riunione, di comunicazione)». Le norme in questione avrebbero inteso predeterminare «criteri e parametri utili(zzabili)» in concreto, al fine della identificazione di una confessione religiosa, sopperendo alle difficoltà testimoniate anche dal crescente contenzioso amministrativo in materia.

Chiarito ciò, la difesa regionale ribadisce che le norme di cui al Capo III del Titolo IV della Parte II della legge regionale n. 12 del 2015 (recte: 2005) per la realizzazione di edifici di culto e attrezzature destinate a servizi religiosi si applicano a tutte le confessioni e che, d’altra parte, considerata anche la rilevanza urbanistico-territoriale di tali infrastrutture, non è irragionevole verificare che l’ente promotore sia mosso effettivamente da una finalità di culto, «non socio-politico-assistenziale-culturale», e sia in grado di dimostrare la sussistenza di una «domanda non insignificante», sul territorio, di attività religiose, «onde evitare che sorgano sedi poi “utilizzate” per finalità diverse (anche commerciali)».

2.2.2.– In replica alle censure rivolte contro l’art. 70, commi 2-bis, lettera b), e 2-quater, la difesa regionale osserva che il riscontro del carattere religioso degli enti e delle loro finalità istituzionali era già previsto nella precedente legislazione, non è mai stato contestato ed è inevitabilmente affidato, in tutte le leggi regionali in materia, ad autorità diverse da quella statale. L’istituzione di un’apposita consulta regionale è rispettosa delle attribuzioni dei Comuni, poiché la consulta rilascia pareri non vincolanti, né è irragionevole o superflua, atteso che, in una materia così delicata, disporre di parametri omogenei e affidati alla valutazione di esperti favorirebbe la corretta applicazione della legge.

2.2.3.– A proposito dell’art. 70, comma 2-ter, e di quanto ivi previsto in merito alla risoluzione della convenzione con il Comune ove questo accerti lo svolgimento di attività non previste, la Regione osserva che il legislatore regionale non ha inteso vietare che un ente confessionale svolga attività diverse da quelle di culto, ma solo richiedere che esse siano regolate nella convenzione. La revoca della convenzione stessa, peraltro, sarebbe soggetta alle norme di «tutela dei terzi contraenti» previste dall’ordinamento civile e amministrativo, sicché eventuali abusi potrebbero essere accertati e sanzionati in sede giudiziaria.

2.2.4.– Sarebbero inammissibili, perché generiche, le censure rivolte all’art. 70, commi 2-bis, 2-ter e 2-quater in relazione ai richiamati «principi europei e internazionali», i quali sarebbero pienamente rispettati dalle norme in questione le quali, anzi, li valorizzerebbero attraverso una regolazione che ne garantisce l’effettività. Per di più, il legislatore lombardo rimarca la propria scelta innovativa di includere nel concetto di attrezzature religiose anche gli immobili destinati a sedi di associazioni, società o comunità di persone, in qualsiasi forma costituite, le cui finalità statutarie o aggregative siano da ricondurre alla religione, all’esercizio del culto o alla professione religiosa, quali sale di preghiera, scuole di religione o centri culturali (art. 71, comma 1, lettera c-bis), della legge regionale n. 12 del 2005, introdotta dall’art. 12, comma 1, lettera m), della legge della Regione Lombardia 21 febbraio 2011, n. 3 (Interventi normativi per l’attuazione della programmazione regionale e di modifica e integrazione di disposizioni legislative – Collegato ordinamentale 2011). La Regione respinge, pertanto, la critica di avere nutrito intenti discriminatori; al contrario, sostiene che dinanzi alla propria legge tutte le confessioni siano ugualmente libere e responsabili, «non potendo sussistere libertà senza responsabilità verso i propri fedeli, ma anche verso il territorio di insediamento»; aggiunge che ogni regolazione implica una restrizione, legittima purché ragionevolmente finalizzata alla tutela di altri diritti e libertà fondamentali.

2.2.5.– Quanto alla denunciata violazione degli artt. 117, secondo comma, lettera h), e 118, terzo comma, Cost. da parte dell’art. 72, commi 4 e 7, lettera e), della legge regionale n. 12 del 2005 (introdotti dall’art. 1, comma 1, lettera c, della legge regionale n. 2 del 2015), la resistente ne contesta la sussistenza, considerato che il citato art. 72, comma 4, prevede espressamente che il coinvolgimento degli organi statali debba avvenire secondo modalità rispettose della loro autonomia, secondo una prassi secolare, espressione di leale collaborazione.

2.2.6.– In replica alle censure rivolte all’art. 72, comma 4, ultimo periodo, per violazione dell’art. 19 Cost., si osserva che la facoltà per i Comuni di sentire i propri cittadini non altera in alcun modo le competenze degli enti locali, ma si limita a suggerire un possibile modulo di consultazione, che non è estraneo alle attività pianificatorie e territoriali ma, anzi, ne costituisce fattore di legittimazione, in coerenza con il principio di sussidiarietà orizzontale previsto dall’art. 118, comma quarto, Cost.

2.2.7.– Anche le censure rivolte all’art. 72, comma 7, lettera g), sarebbero infondate, dal momento che le caratteristiche del paesaggio lombardo, oggetto di tutela, sarebbero qualificate nel piano territoriale regionale e che già oggi la pianificazione comunale detta norme e indirizzi affinché la realizzazione degli edifici (a uso pubblico, privato e produttivo) avvenga in armonia con il contesto paesaggistico ed edilizio, tenuto conto delle sue specificità – considerato che, ad esempio, un edificio moderno e innovativo per forma o materiali può ragionevolmente trovare migliore collocazione in un ambito di recente edificazione, che in un centro storico.

2.2.8.– Da ultimo, rispondendo alle censure indirizzate all’art. 72, comma 5, per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost. e, segnatamente, di quanto previsto all’art. 3 del d.m. n. 1444 del 1968, la Regione osserva che l’approvazione del piano delle attrezzature religiose non è facoltativa: deve avvenire entro diciotto mesi dall’entrata in vigore della legge regionale n. 2 del 2015, oppure unitamente al nuovo piano di governo del territorio. Dal canto suo, l’art. 3 del d.m. n. 1444 del 1968 non prevede l’obbligo di realizzare sempre e comunque nuove attrezzature religiose, mentre è proprio la normativa censurata a precisare le modalità con cui il Comune disciplina la nuova, e aggiuntiva, realizzazione di tali infrastrutture. In ogni caso, il vigente Titolo V della Parte II della Costituzione sarebbe ispirato da una forte valorizzazione delle potestà comunali in materia di pianificazione territoriale: ben al di là di quanto previsto nella legge 6 agosto 1967, n. 765 (Modifiche ed integrazioni alla legge urbanistica 17 agosto 1942, n. 1150) alla quale il d.m. n. 1444 del 1968 dà attuazione, il Comune sarebbe in seguito divenuto diretto «responsabile delle scelte di governo del territorio», titolare di «una competenza pianificatoria non più eterodiretta che trova la sua giustificazione nella maggiore capacità dell’ente di rilevare interessi, materiali, spirituali, culturali, eminentemente locali, facendosene naturale interprete».

3.– Con atto depositato l’11 maggio 2015, è intervenuta nel giudizio l’Associazione VOX – Osservatorio italiano sui Diritti. Con memoria depositata il 12 ottobre 2015, l’interveniente ha sostenuto l’illegittimità costituzionale della legge regionale n. 2 del 2015.

Considerato in diritto

1.– Con ricorso notificato il 3-7 aprile 2015 e depositato il 9 aprile 2015 (reg. ric. n. 47 del 2015), il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha impugnato gli artt. 70, commi 2, 2-bis, 2-ter e 2-quater, e 72, commi 4, 5 e 7, lettere e) e g), della legge della Regione Lombardia 11 marzo 2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio), come modificati dall’art. 1, comma 1, lettere b) e c), della legge della Regione Lombardia 3 febbraio 2015, n. 2, recante «Modifiche alla legge regionale 11 marzo 2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio) – Principi per la pianificazione delle attrezzature per servizi religiosi».

2.– L’intervento nel giudizio dell’Associazione VOX – Osservatorio italiano sui Diritti non è ammissibile.

Il giudizio di costituzionalità delle leggi, promosso in via d’azione ai sensi dell’art. 127 della Costituzione e degli artt. 31 e seguenti della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), si svolge esclusivamente tra soggetti titolari di potestà legislativa, fermi restando, per i soggetti privi di tale potestà, gli altri mezzi di tutela giurisdizionale eventualmente esperibili. Pertanto, non è ammesso, nei giudizi di costituzionalità delle leggi promossi in via d’azione, l’intervento di soggetti privi di potere legislativo (ex plurimis, sentenze n. 118 e n. 31 del 2015, n. 210 del 2014, n. 285, n. 220 e n. 118 del 2013).

3.– Le disposizioni regionali impugnate apportano alcune modificazioni alla legge regionale per il governo del territorio n. 12 del 2005, intervenendo sui principi relativi alla pianificazione delle attrezzature per i servizi religiosi. Il ricorso del Presidente del Consiglio si articola in numerose censure che lamentano tanto la violazione dell’eguale libertà religiosa di tutte le confessioni, garantita dai principi costituzionali e dal diritto internazionale e sovranazionale, quanto l’eccesso di competenza legislativa da parte della Regione.

4.– All’esame delle singole censure, occorre premettere alcune considerazioni sui principi costituzionali in materia di libertà religiosa e di status delle confessioni religiose con e senza intesa con lo Stato.

4.1.– L’ordinamento repubblicano è contraddistinto dal principio di laicità, da intendersi, secondo l’accezione che la giurisprudenza costituzionale ne ha dato (sentenze n. 508 del 2000, n. 329 del 1997, n. 440 del 1995, n. 203 del 1989), non come indifferenza di fronte all’esperienza religiosa, bensì come salvaguardia della libertà di religione in regime di pluralismo confessionale e culturale: compito della Repubblica è «garantire le condizioni che favoriscano l’espansione della libertà di tutti e, in questo ambito, della libertà di religione», la quale «rappresenta un aspetto della dignità della persona umana, riconosciuta e dichiarata inviolabile dall’art. 2» Cost. (sentenza n. 334 del 1996).

Il libero esercizio del culto è un aspetto essenziale della libertà di religione (art. 19) ed è, pertanto, riconosciuto egualmente a tutti e a tutte le confessioni religiose (art. 8, primo e secondo comma), a prescindere dalla stipulazione di una intesa con lo Stato. Come questa Corte ha recentemente ribadito, altro è la libertà religiosa, garantita a tutti senza distinzioni, altro è il regime pattizio (artt. 7 e 8, terzo comma, Cost.), che si basa sulla «concorde volontà» del Governo e delle confessioni religiose di regolare specifici aspetti del rapporto di queste ultime con l’ordinamento giuridico statale (sentenza n. 52 del 2016). Data l’ampia discrezionalità politica del Governo in materia, il concordato o l’intesa non possono costituire condicio sine qua non per l’esercizio della libertà religiosa; gli accordi bilaterali sono piuttosto finalizzati al soddisfacimento di «esigenze specifiche di ciascuna delle confessioni religiose (sentenza n. 235 del 1997), ovvero a concedere loro particolari vantaggi o eventualmente a imporre loro particolari limitazioni (sentenza n. 59 del 1958), ovvero ancora a dare rilevanza, nell’ordinamento, a specifici atti propri della confessione religiosa» (sentenza n. 52 del 2016).

Per questo, in materia di libertà religiosa, la giurisprudenza di questa Corte è costante nell’affermare che «il legislatore non può operare discriminazioni tra confessioni religiose in base alla sola circostanza che esse abbiano o non abbiano regolato i loro rapporti con lo Stato tramite accordi o intese (sentenze n. 346 del 2002 e n. 195 del 1993)» (sentenza n. 52 del 2016). Di conseguenza, quando tale libertà e il suo esercizio vengono in rilievo, la tutela giuridica deve abbracciare allo stesso modo l’esperienza religiosa di tutti, nella sua dimensione individuale e comunitaria, indipendentemente dai diversi contenuti di fede; né in senso contrario varrebbero considerazioni in merito alla diffusione delle diverse confessioni, giacché la condizione di minoranza di alcune confessioni non può giustificare un minor livello di protezione della loro libertà religiosa rispetto a quella delle confessioni più diffuse (sentenza n. 329 del 1997).

4.2.– L’apertura di luoghi di culto, in quanto forma e condizione essenziale per il pubblico esercizio dello stesso, ricade nella tutela garantita dall’art. 19 Cost., il quale riconosce a tutti il diritto di professare la propria fede religiosa, in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitare in privato o in pubblico il culto, con il solo limite dei riti contrari al buon costume. L’esercizio della libertà di aprire luoghi di culto, pertanto, non può essere condizionato a una previa regolazione pattizia, ai sensi degli artt. 7 e 8, terzo comma, Cost.: regolazione che può ritenersi necessaria solo se e in quanto a determinati atti di culto vogliano riconnettersi particolari effetti civili (sentenza n. 59 del 1958).

Più in particolare, nell’esaminare questioni in parte simili alle odierne, questa Corte ha già affermato che, in materia di edilizia di culto, «tutte le confessioni religiose sono idonee a rappresentare gli interessi religiosi dei loro appartenenti» e la previa stipulazione di un’intesa non può costituire «l’elemento di discriminazione nell’applicazione di una disciplina, posta da una legge comune, volta ad agevolare l’esercizio di un diritto di libertà dei cittadini», pena la violazione del principio affermato nel primo comma dell’art. 8 Cost., oltre che nell’art. 19 Cost. (sentenza n. 195 del 1993). Al riguardo, vale il divieto di discriminazione, sancito in generale dall’art. 3 Cost. e ribadito, per quanto qui specificamente interessa, dagli artt. 8, primo comma, 19 e 20 Cost.; e ciò anche per assicurare «l’eguaglianza dei singoli nel godimento effettivo della libertà di culto, di cui l’eguale libertà delle confessioni di organizzarsi e di operare rappresenta la proiezione necessaria sul piano comunitario» (sentenza n. 346 del 2002).

Ciò non vuol dire – come ha chiarito la stessa giurisprudenza già citata e come si dirà ancora più avanti – che a tutte le confessioni debba assicurarsi un’eguale porzione dei contributi o degli spazi disponibili: come è naturale allorché si distribuiscano utilità limitate, quali le sovvenzioni pubbliche o la facoltà di consumare suolo, si dovranno valutare tutti i pertinenti interessi pubblici e si dovrà dare adeguato rilievo all’entità della presenza sul territorio dell’una o dell’altra confessione, alla rispettiva consistenza e incidenza sociale e alle esigenze di culto riscontrate nella popolazione.

5.– Alla luce di tali principi, costantemente affermati dalla giurisprudenza di questa Corte, sono fondate le questioni di legittimità costituzionale aventi ad oggetto i commi 2, 2-bis, lettere a) e b), e 2-quater, dell’art. 70 della legge regionale n. 12 del 2005, come modificati dall’art. 1, comma 1, lettera b), della legge regionale n. 2 del 2015, per violazione degli artt. 3, 8, 19 e 117, secondo comma, lettera c), Cost.

5.1.– In virtù delle modifiche apportate dalla legge regionale n. 2 del 2015, la legge regionale n. 12 del 2005, sul governo del territorio, nel capo dedicato alla realizzazione di edifici di culto e di attrezzature destinate a servizi religiosi (artt. 70-73), distingue tre ordini di destinatari: gli enti della Chiesa cattolica (art. 70, comma 1); gli enti delle altre confessioni religiose con le quali lo Stato abbia già approvato con legge un’intesa (art. 70, comma 2); gli enti di tutte le altre confessioni religiose (art. 70, comma 2-bis). A questa terza categoria di enti, collegati alle confessioni “senza intesa”, i citati artt. 70-73 sono applicabili solo a condizione che sussistano i seguenti requisiti: «a) presenza diffusa, organizzata e consistente a livello territoriale e un significativo insediamento nell’ambito del comune nel quale vengono effettuati gli interventi disciplinati dal presente capo; b) i relativi statuti esprimano il carattere religioso delle loro finalità istituzionali e il rispetto dei principi e dei valori della Costituzione». In virtù del comma 2-quater dell’art. 70, la valutazione di tali requisiti è obbligatoriamente rimessa al vaglio preventivo, ancorché non vincolante, di una consulta regionale, da istituirsi e nominarsi con provvedimento della Giunta regionale della Lombardia. Tuttavia, come affermato in udienza dalla difesa regionale, la consulta non è ancora stata istituita, benché sia passato oltre un anno dall’entrata in vigore della censurata legge regionale n. 2 del 2015.

5.2.– La normativa regionale illustrata, in quanto disciplina la pianificazione urbanistica dei luoghi di culto, attiene senz’altro al «governo del territorio», cosicché, riguardata dal punto di vista materiale, rientra nelle competenze regionali concorrenti, ai sensi dell’art. 117, terzo comma, Cost. (ex plurimis, sentenze n. 272, n. 102 e n. 6 del 2013). Nondimeno, la valutazione sul rispetto del riparto di competenze tra Stato e Regioni, richiede di tenere conto, oltre che dell’oggetto, anche della ratio della normativa impugnata e di identificare correttamente e compiutamente gli interessi tutelati, nonché le finalità perseguite (ex plurimis, sentenze n. 140 del 2015, n. 167 e n. 119 del 2014). Il legislatore regionale, nell’esercizio delle sue competenze, qual è quella in materia di «governo del territorio» che qui viene in rilievo, non può mai perseguire finalità che esorbitano dai compiti della Regione.

Da questo punto di vista occorre ribadire che la legislazione regionale in materia di edilizia del culto «trova la sua ragione e giustificazione – propria della materia urbanistica – nell’esigenza di assicurare uno sviluppo equilibrato ed armonico dei centri abitativi e nella realizzazione dei servizi di interesse pubblico nella loro più ampia accezione, che comprende perciò anche i servizi religiosi» (sentenza n. 195 del 1993). In questi limiti soltanto la regolazione dell’edilizia di culto resta nell’ambito delle competenze regionali. Non è, invece, consentito al legislatore regionale, all’interno di una legge sul governo del territorio, introdurre disposizioni che ostacolino o compromettano la libertà di religione, ad esempio prevedendo condizioni differenziate per l’accesso al riparto dei luoghi di culto. Poiché la disponibilità di luoghi dedicati è condizione essenziale per l’effettivo esercizio della libertà di culto, un tale tipo di intervento normativo eccederebbe dalle competenze regionali, perché finirebbe per interferire con l’attuazione della libertà di religione, garantita agli artt. 8, primo comma, e 19 Cost., condizionandone l’effettivo esercizio.

Pertanto, una lettura unitaria dei principi costituzionali sopra richiamati ed evocati dal ricorrente porta a concludere che la Regione è titolata, nel governare la composizione dei diversi interessi che insistono sul territorio, a dedicare specifiche disposizioni per la programmazione e realizzazione di luoghi di culto; viceversa, essa esorbita dalle sue competenze, entrando in un ambito nel quale sussistono forti e qualificate esigenze di eguaglianza, se, ai fini dell’applicabilità di tali disposizioni, impone requisiti differenziati, e più stringenti, per le sole confessioni per le quali non sia stata stipulata e approvata con legge un’intesa ai sensi dell’art. 8, terzo comma, Cost.

Per queste ragioni, deve essere dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 70, commi 2-bis, sia nelle lettere a) e b), sia nella parte dell’alinea che le introduce (vale a dire, nelle parole «che presentano i seguenti requisiti:»), e 2-quater, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005.

Per contro, non sono oggetto del presente giudizio l’art. 72, comma 1, della stessa legge regionale n. 12 del 2005, il quale ricollega alla valutazione delle «esigenze locali», previo esame delle diverse istanze confessionali, la programmazione urbanistica delle attrezzature religiose; e il successivo art. 73, comma 3, il quale fa riferimento alla «consistenza ed incidenza sociale» delle diverse confessioni nel territorio di un Comune, ai fini della ripartizione da parte di quest’ultimo dei contributi di cui allo stesso art. 73.

6.– È censurato anche il comma 2-ter dell’art. 70 (introdotto anch’esso dall’art. 1, comma 1, lettera b), della legge regionale n. 2 del 2015), il quale prevede che gli enti delle confessioni religiose diverse dalla Chiesa cattolica, di cui ai commi 2 e 2-bis, «devono stipulare una convenzione a fini urbanistici con il comune interessato» e che tali convenzioni devono prevedere espressamente «la possibilità della risoluzione o della revoca, in caso di accertamento da parte del comune di attività non previste nella convenzione».

Il ricorrente lamenta la lesione dell’art. 19 Cost., poiché la disposizione impugnata definirebbe con una formula troppo generica i presupposti della risoluzione o revoca della convenzione, tra l’altro interferendo con la libertà di un ente confessionale di svolgere anche attività diverse da quelle strettamente attinenti al culto (ad esempio, culturali o sportive). La censura, dunque, si riferisce esclusivamente al secondo periodo del comma 2-ter.

La questione non è fondata, nei sensi di seguito precisati.

La convenzione prevista dalla disposizione in esame, necessaria nella fase di applicazione della normativa in questione da parte del Comune, deve essere ispirata alla finalità, tipicamente urbanistica, di assicurare lo sviluppo equilibrato e armonico dei centri abitati. Naturalmente la convenzione potrà stabilire le conseguenze che potranno determinarsi nel caso in cui l’ente che l’ha sottoscritta non ne rispetti le stipulazioni, graduando l’effetto delle violazioni in base alla loro entità. La disposizione impugnata consente di annoverare tra queste conseguenze, a fronte di comportamenti abnormi, la possibilità di risoluzione o di revoca della convenzione. Si tratta, con ogni evidenza, di rimedi estremi, da attivarsi in assenza di alternative meno severe. Nell’applicare in concreto le previsioni della convenzione, il Comune dovrà in ogni caso specificamente considerare se, tra gli strumenti che la disciplina urbanistica mette a disposizione per simili evenienze, non ve ne siano altri, ugualmente idonei a salvaguardare gli interessi pubblici rilevanti, ma meno pregiudizievoli per la libertà di culto, il cui esercizio, come si è detto, trova nella disponibilità di luoghi dedicati una condizione essenziale. Il difetto della ponderazione di tutti gli interessi coinvolti potrà essere sindacato nelle sedi competenti, con lo scrupolo richiesto dal rango costituzionale degli interessi attinenti alla libertà religiosa.

La disposizione in questione, così interpretata, si presta a soddisfare il principio e il test di proporzionalità, che impongono di valutare se la norma oggetto di scrutinio, potenzialmente limitativa di un diritto fondamentale, qual è la libertà di culto, sia necessaria e idonea al conseguimento di obiettivi legittimamente perseguiti, in quanto, tra più misure appropriate, prescriva di applicare sempre quella meno restrittiva dei diritti individuali e imponga sacrifici non eccedenti quanto necessario per assicurare il perseguimento degli interessi ad essi contrapposti.

7.– In un ulteriore motivo di ricorso, i commi 2-bis, 2-ter e 2-quater dell’art. 70 della legge regionale n. 12 del 2005 (tutti introdotti dall’art. 1, comma 1, lettera b), della legge regionale n. 2 del 2015) sono censurati congiuntamente per violazione dell’art. 117, commi primo e secondo, lettera a), Cost., in relazione ai «principi europei ed internazionali in materia di libertà di religione e di culto». In particolare sono richiamati gli artt. 10, 17 e 19 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE); gli artt. 10, 21 e 22 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007); e, infine, l’art. 18 del Patto internazionale sui diritti civili e politici (adottato a New York il 16 dicembre 1966, ratificato e reso esecutivo in Italia con legge 25 ottobre 1977, n. 881).

La questione è inammissibile.

Per giurisprudenza costante, il ricorso in via principale deve identificare esattamente la questione nei suoi termini normativi, indicando le norme costituzionali (ed eventualmente interposte) e ordinarie, la definizione del cui rapporto di compatibilità o incompatibilità costituisce l’oggetto della questione e, inoltre, deve contenere una argomentazione di merito a sostegno della richiesta declaratoria di illegittimità costituzionale (sentenze n. 251, n. 233, n. 218, n. 153 e n. 142 del 2015).

Sul punto, invece, il ricorso, dopo avere menzionato nel proprio titolo le disposizioni sovranazionali e regionali ritenute reciprocamente incompatibili, illustra sinteticamente il contenuto delle prime, ma trascura del tutto le seconde. Di conseguenza, non risulta chiaro quali siano gli specifici contenuti della normativa regionale ritenuti incompatibili con i principi sovranazionali e nemmeno in quali esatti termini si ponga l’incompatibilità. Tale difetto argomentativo non può essere rimediato mediante una lettura complessiva del ricorso: la quale, al contrario, rende ancor più oscuro il senso del motivo ora in esame. In particolare, non è chiaro se il Presidente del Consiglio dei ministri abbia inteso semplicemente sottolineare il rilievo anche sovranazionale dei principi di eguaglianza e libertà religiosa, richiamati in altri motivi di ricorso, oppure denunciare l’incompatibilità, con gli anzidetti principi sovranazionali, di specifici contenuti dei commi censurati dei quali non è stata messa in dubbio la compatibilità con i corrispondenti principi della Costituzione italiana.

In riferimento alle disposizioni della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, la censura presenta un ulteriore profilo di inammissibilità. A norma del suo art. 51 (nonché dell’art. 6, paragrafo 1, primo alinea, del Trattato sull’Unione europea e della Dichiarazione n. 1 allegata al Trattato di Lisbona) e di una consolidata giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, le disposizioni della Carta sono applicabili agli Stati membri solo quando questi agiscono nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione: «le disposizioni della presente Carta si applicano […] agli Stati membri esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione» (art. 51 della Carta). Come questa Corte ha già affermato, perché la Carta dei diritti UE sia invocabile in un giudizio di legittimità costituzionale, occorre, dunque, che la fattispecie oggetto di legislazione interna «sia disciplinata dal diritto europeo – in quanto inerente ad atti dell’Unione, ad atti e comportamenti nazionali che danno attuazione al diritto dell’Unione, ovvero alle giustificazioni addotte da uno Stato membro per una misura nazionale altrimenti incompatibile con il diritto dell’Unione – e non già da sole norme nazionali prive di ogni legame con tale diritto» (sentenza n. 80 del 2011).

L’assenza di qualsiasi argomentazione in merito ai presupposti di applicabilità delle norme dell’Unione europea alla legge in esame rende il riferimento a queste ultime generico (sentenze n. 199 del 2012 e n. 185 del 2011), peraltro in un caso in cui i punti di contatto tra l’ambito di applicazione di tali norme e quello delle disposizioni censurate sono tutt’altro che evidenti (vedi, a contrario, sentenza n. 114 del 2012).

Lo stesso vale, a maggior ragione, per gli artt. 10, 17 e 19 del TFUE, i quali si rivolgono esplicitamente all’Unione e alle sue istituzioni e non stabiliscono ulteriori obblighi in capo agli Stati membri.

Ciò costituisce un ulteriore difetto di motivazione, e quindi causa di inammissibilità, del motivo di ricorso in esame, cui si deve infine aggiungere l’inconferenza del riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera a), Cost., il quale non può essere considerato un diverso ed ulteriore presidio, rispetto agli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., del rispetto della conformità ai vincoli comunitari (sentenza n. 185 del 2011).

8.– Dell’art. 72 della legge regionale n. 12 del 2005 (interamente novellato dall’art. 1, comma 1, lettera c, della legge regionale n. 2 del 2015), sono censurati i commi 4 e 7, lettera e). Il comma 4 – qui considerato solo nel suo primo periodo – prevede che, nel corso del procedimento per la predisposizione del piano delle attrezzature religiose di cui allo stesso art. 72 (denominato «Piano per le attrezzature religiose» nella rubrica di tale articolo), vengano acquisiti «i pareri di organizzazioni, comitati di cittadini, esponenti e rappresentanti delle forze dell’ordine oltre agli uffici provinciali di questura e prefettura al fine di valutare possibili profili di sicurezza pubblica, fatta salva l’autonomia degli organi statali». La seconda disposizione censurata esige che, nel piano predetto, sia prevista, per ciascun edificio di culto (se non già esistente all’entrata in vigore della legge regionale n. 2 del 2015, in virtù dell’art. 72, comma 8), «la realizzazione di un impianto di videosorveglianza esterno all’edificio, con onere a carico dei richiedenti, che ne monitori ogni punto di ingresso, collegato con gli uffici della polizia locale o forze dell’ordine». Prescrivendo l’acquisizione di pareri inerenti a questioni di sicurezza pubblica, nonché l’installazione di impianti di videosorveglianza, le disposizioni censurate entrerebbero nella materia «ordine pubblico e sicurezza», rimessa alla competenza legislativa esclusiva dello Stato, anche con riguardo alle possibili forme di coordinamento con le Regioni (artt. 117, secondo comma, lettera h, e 118, terzo comma, Cost.).

La questione è fondata.

Nella Costituzione italiana ciascun diritto fondamentale, compresa la libertà di religione, è predicato unitamente al suo limite; sicché non v’è dubbio che le pratiche di culto, se contrarie al «buon costume», ricadano fuori dalla garanzia costituzionale di cui all’art. 19 Cost.; né si contesta che, qualora gli appartenenti a una confessione si organizzino in modo incompatibile «con l’ordinamento giuridico italiano», essi non possano appellarsi alla protezione di cui all’art. 8, secondo comma, Cost. Tutti i diritti costituzionalmente protetti sono soggetti al bilanciamento necessario ad assicurare una tutela unitaria e non frammentata degli interessi costituzionali in gioco, di modo che nessuno di essi fruisca di una tutela assoluta e illimitata e possa, così, farsi “tiranno” (sentenza n. 85 del 2013). Tra gli interessi costituzionali da tenere in adeguata considerazione nel modulare la tutela della libertà di culto – nel rigoroso rispetto dei canoni di stretta proporzionalità, per le ragioni spiegate sopra – sono senz’altro da annoverare quelli relativi alla sicurezza, all’ordine pubblico e alla pacifica convivenza. Tuttavia, il perseguimento di tali interessi è affidato dalla Costituzione, con l’art. 117, secondo comma, lettera h), in via esclusiva allo Stato, mentre le Regioni possono cooperare a tal fine solo mediante misure ricomprese nelle proprie attribuzioni (ex plurimis, sentenza n. 35 del 2012). Nel caso di specie, invece, le disposizioni censurate, considerate nella loro ratio e nel loro contenuto essenziale (sentenze n. 118, n. 35 e n. 34 del 2012), perseguono evidenti finalità di ordine pubblico e sicurezza: da valutare ex ante, nella programmazione (art. 72, comma 4: «nel corso del procedimento di predisposizione del piano […] vengono acquisiti i pareri di […] rappresentanti delle forze dell’ordine oltre agli uffici provinciali di questura e prefettura, al fine di valutare possibili profili di sicurezza pubblica»); e da gestire a posteriori, in ogni nuovo luogo di culto, mediante la realizzazione di capillari sistemi di videosorveglianza, collegati con le forze dell’ordine (art. 72, comma 7, lettera e). Sotto questo profilo, pertanto, le disposizioni censurate sono da ritenersi costituzionalmente illegittime, in quanto eccedono dai limiti delle competenze attribuite alla Regione.

9.– È censurato anche l’art. 72, comma 4, secondo periodo, della legge regionale n. 12 del 2005, a norma del quale, con riguardo al piano delle attrezzature religiose, «resta ferma la facoltà per i comuni di indire referendum nel rispetto delle previsioni statutarie e dell’ordinamento statale». Il ricorso lamenta la violazione dell’art. 19 Cost., in quanto, affermando la facoltà dei Comuni di indire tali referendum, farebbe sì che la possibilità di destinare a edilizia di culto determinate aree risulti «subordinata a decisioni espressione di maggioranze politiche o culturali o altro».

La questione è inammissibile.

Come è evidente dal suo chiaro tenore testuale, la disposizione non modifica in alcun modo il procedimento di approvazione del piano, né incide sulla disciplina dei referendum comunali, limitandosi, in proposito, a rinviare a quanto già previsto dalla rilevante normativa locale e nazionale. La disposizione è quindi meramente ricognitiva, priva di «autonoma forza precettiva o, se si preferisce, di quel carattere innovativo che si suole considerare proprio degli atti normativi» (sentenza n. 346 del 2010); sicché deve ritenersi insussistente l’interesse della parte ricorrente a impugnarla (sentenze n. 230 del 2013 e n. 401 del 2007).

10.– Il vigente art. 72, comma 7, lettera g), della legge regionale n. 12 del 2005 prevede che il piano delle attrezzature religiose garantisca «la congruità architettonica e dimensionale degli edifici di culto previsti con le caratteristiche generali e peculiari del paesaggio lombardo, così come individuate nel PTR». La citata lettera g) è censurata per violazione degli artt. 3, 8 e 19 Cost. perché, richiamando con formula ambigua le caratteristiche del paesaggio lombardo, attribuirebbe all’amministrazione una discrezionalità troppo ampia, tale da consentire facilmente applicazioni discriminatorie.

La questione non è fondata, nei sensi precisati di seguito.

Diversamente da quanto suggerito dal rimettente, la disposizione impugnata non richiede, genericamente, che gli edifici di culto si conformino a non meglio identificate caratteristiche del «paesaggio lombardo»; essa specifica invece che le caratteristiche a cui debbono conformarsi anche gli edifici di culto sono quelle «individuate nel PTR», vale a dire, nel piano territoriale regionale, di cui agli artt. 19 e seguenti della stessa legge regionale n. 12 del 2005. Letta nella sua integralità, comprensiva del rimando al piano territoriale regionale, la disposizione esige che, nel valutare la conformità paesaggistica degli edifici di culto, si debba avere riguardo, non a considerazioni estetiche soggettive, occasionali ed estemporanee, come tali suscettibili di applicazioni arbitrarie e discriminatorie, bensì alle indicazioni predeterminate dalle pertinenti previsioni del piano territoriale regionale. Si conferma così che quest’ultimo, anche con riguardo allo specifico ambito qui considerato, è atto di orientamento di tutta la programmazione e pianificazione territoriale locale della Lombardia, nonché quadro di riferimento per le valutazioni sulla compatibilità degli atti di governo del territorio, anche comunali, sulle cui eventuali previsioni contrastanti ha la prevalenza. Così intesa, la disposizione censurata non è altro che una specificazione di quanto previsto, in generale, dagli artt. 19 e 20 della legge regionale n. 12 del 2005. Un eventuale cattivo uso della discrezionalità programmatoria, atto a penalizzare surrettiziamente l’insediamento delle attrezzature religiose, potrà essere censurato nelle sedi competenti.

11.– A norma del vigente art. 72, comma 5, della legge regionale n. 12 del 2005, «[i] comuni che intendono prevedere nuove attrezzature religiose sono tenuti ad adottare e approvare il piano delle attrezzature religiose entro diciotto mesi dalla data di entrata in vigore della [legge regionale n. 2 del 2015]» (primo periodo); «decorso detto termine il piano è approvato unitamente al nuovo PGT» (secondo periodo). Il citato comma 5, ad avviso della difesa statale, contrasterebbe con l’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., in quanto stabilirebbe la mera facoltà, per i Comuni che intendano farlo, di prevedere la realizzazione di nuove attrezzature religiose attraverso l’apposito piano. In tal modo, la disposizione si porrebbe in contrasto con il decreto del Ministero dei lavori pubblici 2 aprile 1968, n. 1444 (Limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza fra i fabbricati e rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a parcheggi da osservare ai fini della formazione dei nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti, ai sensi dell’art. 17 della legge 6 agosto 1967, n. 765) e, in particolare, con il suo art. 3, a norma del quale negli insediamenti residenziali deve essere assicurata, per ogni abitante, una dotazione minima di 18 metri quadrati per spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggio, da ripartire normalmente in modo tale che 2 metri quadrati siano destinati ad attrezzature di interesse comune, anche «religiose», oltre che «culturali, sociali, assistenziali, sanitarie, amministrative, per pubblici servizi» e altre. Il ricorrente ricorda che la giurisprudenza costituzionale ha già ricollegato alla competenza di cui all’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost. alcune previsioni del d.m. n. 1444 del 1968: sono citate, in proposito, le sentenze di questa Corte n. 232 del 2005 e n. 120 del 1996.

La questione è manifestamente inammissibile.

A prescindere da ogni considerazione circa la correttezza dell’interpretazione data dal ricorrente al censurato art. 72, comma 5, è assorbente il rilievo che, per come è evocato, il parametro risulta del tutto inconferente (sentenze n. 269 e n. 121 del 2014). Il ricorrente non spiega in alcun modo perché la disciplina delle dotazioni urbanistiche contenuta nell’art. 3 del d.m. n. 1444 del 1968, dovrebbe ritenersi attinente all’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost. Sul punto, pertanto, il ricorso non è sufficientemente e adeguatamente motivato. In ogni caso, il cattivo o il mancato esercizio del potere da parte delle autorità urbanistiche potrà essere censurato nelle sedi competenti.

per questi motivi

La Corte Costituzionale

1) dichiara inammissibile l’intervento dell’Associazione VOX – Osservatorio italiano sui Diritti, nel giudizio promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso in epigrafe;

2) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 70, commi 2-bis, limitatamente alle parole «che presentano i seguenti requisiti:» e alle lettere a) e b), e 2-quater, della legge della Regione Lombardia 11 marzo 2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio), introdotti dall’art. 1, comma 1, lettera b), della legge della Regione Lombardia 3 febbraio 2015, n. 2, recante «Modifiche alla legge regionale 11 marzo 2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio) – Principi per la pianificazione delle attrezzature per servizi religiosi»;

3) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 72, commi 4 e 7, lettera e), della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, introdotti dall’art. 1, comma 1, lettera c), della legge reg. Lombardia n. 2 del 2015;

4) dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 70, comma 2-ter, ultimo periodo, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, introdotto dall’art. 1, comma 1, lettera b), della legge reg. Lombardia n. 2 del 2015, promossa, in riferimento all’art. 19 della Costituzione, dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso in epigrafe;

5) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 70, commi 2-bis, 2-ter e 2-quater, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, introdotti dall’art. 1, comma 1, lettera b), della legge reg. Lombardia n. 2 del 2015, promossa – in riferimento all’art. 117, commi primo e secondo, lettera a), Cost., in relazione agli artt. 10, 17 e 19 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, agli artt. 10, 21 e 22 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007) ed all’art. 18 del Patto internazionale sui diritti civili e politici (adottato a New York il 16 dicembre 1966, ratificato e reso esecutivo in Italia con legge 25 ottobre 1977, n. 881) – dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso in epigrafe;

6) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 72, comma 4, ultimo periodo, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, introdotto dall’art. 1, comma 1, lettera c), della legge reg. Lombardia n. 2 del 2015, promossa, in riferimento all’art. 19 Cost., dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso in epigrafe;

7) dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 72, comma 7, lettera g), della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, introdotto dall’art. 1, comma 1, lettera c), della legge reg. Lombardia n. 2 del 2015, promossa, in riferimento agli artt. 3, 8 e 19 Cost., dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso in epigrafe;

8) dichiara manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 72, comma 5, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, introdotto dall’art. 1, comma 1, lettera c), della legge reg. Lombardia n. 2 del 2015, promossa, in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 febbraio 2016.