G.U. 1 February 2017, No. 5
The Constitutional Court declared unfounded the questions of constitutional legitimacy of the modification of Article 275.4 of the code of criminal proceedings, in so far it forbids the taking of preventive detention measures for serious crimes vis-à-vis the parents of children of no more than six years. The constitutionality question concerned respect of Articles 3, 13, 24, 31 and 11 of the Constitution. For the Court, the amended provisions are the result of a balance between the constitutional values of protection of minors and the rules of the penitentiary system, in accordance with the Convention on the Rights of the Child and the Charter of Fundamental Rights of the EU. The provision was amended in accordance with the principle of the “best interest” of the child, which results from international and national law.
Sentenza
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 275, comma 4, del codice di procedura penale promosso dal Tribunale ordinario di Roma nei procedimenti penali riuniti (n. 12621/15 e n. 15385/15) a carico di C.M. e altri con ordinanza dell’11 novembre 2015, iscritta al n. 64 del registro ordinanze 2016 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 14, prima serie speciale, dell’anno 2016.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 7 dicembre 2016 il Giudice relatore Nicolò Zanon.
Ritenuto in fatto
1.– Il Tribunale ordinario di Roma, con ordinanza dell’11 novembre 2015, iscritta al n. 64 del registro ordinanze 2016, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 13, 24, 31 e 111 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 275, comma 4, del codice di procedura penale, «nella parte in cui prevede che non possa essere disposta o mantenuta la custodia cautelare in carcere nei confronti di imputati, detenuti per gravi reati, che siano genitori di prole solo di età non superiore a sei anni».
1.1.– Le questioni di legittimità costituzionale sono state sollevate nell’ambito di due giudizi penali riuniti, nei quali si procede nei confronti anche di G.A., madre di una minore, detenuta agli arresti domiciliari per il reato, tra gli altri, di cui all’art. 416-bis del codice penale. Il giudice a quo riferisce altresì che il padre della minore si trova anch’egli detenuto in custodia cautelare in carcere per il medesimo reato.
1.2.– In punto di rilevanza, il rimettente ha evidenziato che, nei confronti di G.A., l’originaria misura della custodia cautelare in carcere (applicata in uno dei due processi, laddove nel secondo era stata applicata ab origine la misura degli arresti domiciliari) era stata sostituita con quella degli arresti domiciliari, in ragione della presenza di una figlia minore che, all’epoca dell’applicazione di tale misura più favorevole, non aveva ancora compiuto i sei anni.
L’ufficio del pubblico ministero, in data 6 novembre 2015, sul presupposto del compimento dei sei anni di età da parte della minore, ha chiesto per G.A. il ripristino della custodia cautelare in carcere (mentre l’altro genitore rimane detenuto in custodia cautelare in carcere).
Secondo il giudice a quo, permangono a carico di G.A. le esigenze che hanno determinato l’applicazione della misura cautelare; la soluzione delle questioni di legittimità costituzionale appare perciò pregiudiziale all’adozione di una decisione sull’istanza presentata dal pubblico ministero per l’inevitabile ripristino, a suo carico, della misura della custodia cautelare in carcere.
1.3.– In punto di non manifesta infondatezza, il giudice rimettente rileva che l’art. 275, comma 3, cod. proc. pen. prevede, per reati di particolare gravità (quale quello contestato a G.A.), «l’obbligo della custodia cautelare in carcere», mentre al comma 4 sono previste le deroghe (di carattere tassativo) a tale regime e, in particolare, quella connessa alla presenza di prole di età non superiore ai sei anni.
Sulla base di tale formulazione normativa, a parere del giudice a quo, sussisterebbe l’obbligo di ripristinare la custodia cautelare in carcere per G.A., senza alcuna possibilità di apprezzare la particolare condizione della minore, che verrebbe a trovarsi privata di entrambi i genitori, detenuti per gravi reati nei medesimi procedimenti.
Tale «automatismo» non sarebbe conforme al dettato costituzionale, in quanto contrasterebbe, in primo luogo, con l’art. 3 Cost., stante l’ingiustificata differenziazione tra minori di sei anni di età e soggetti di poco maggiori, anche considerando che l’ordinamento penitenziario assicura comunque tutela ai minori, figli di soggetti già condannati in via definitiva, sino al compimento dei dieci anni (ai sensi degli artt. 21-bis, 47-ter, 47-quinquies della legge 26 luglio 1975, n. 354, recante «Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà»).
In secondo luogo, sarebbe violato l’art. 31 Cost., che, garantendo specifica protezione all’infanzia, intenderebbe impedire che la formazione del minore sia gravemente pregiudicata dall’assenza dei genitori (assenza che, nella specie, riguarderebbe entrambe le figure genitoriali).
A sostegno dell’argomentazione, il giudice rimettente richiama la Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva in Italia con legge 27 maggio 1991, n. 176, e vincolante ai sensi dell’art. 10 Cost., la quale, all’art. 3, prevede che, in tutte le decisioni relative ai fanciulli, di competenza delle istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale, dei tribunali, delle autorità amministrative o degli organi legislativi, l’interesse superiore del fanciullo deve avere una considerazione preminente.
Ancora, secondo il giudice a quo, situazioni di «rigido automatismo», che determinano presunzioni di carattere assoluto, sono state valutate negativamente dalla stessa Corte costituzionale, poiché non consentono – irragionevolmente – al giudice alcuna valutazione di merito in relazione alle specificità del caso concreto: è richiamata, in proposito, la sentenza n. 185 del 2015 in tema di recidiva obbligatoria.
Infine, per il giudice rimettente, «sembrerebbe inoltre lesa l’effettività dell’obbligo di motivazione dei provvedimenti giurisdizionali previsto in via generale dall’art. 111 Cost. e, in via particolare, dall’art. 13 Cost. in materia de libertate, con conseguenti riflessi anche sul diritto di difesa tutelato dall’art. 24 Cost.».
2.– Con atto depositato il 26 aprile 2016 è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, concludendo per la non fondatezza delle questioni di legittimità costituzionale sollevate.
2.1.– L’Avvocatura generale dello Stato evidenzia che la presunzione assoluta di adeguatezza della sola misura della custodia cautelare in carcere a soddisfare le esigenze cautelari, prevista dall’art. 275, comma 3, cod. proc. pen., con particolare riferimento al delitto di associazione di tipo mafioso, è stata ritenuta conforme a Costituzione, in quanto, sulla base di dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell’id quod plerumque accidit, la misura custodiale carceraria appare l’unica idonea a soddisfare le esigenze cautelari (viene richiamata la sentenza della Corte costituzionale n. 48 del 2015): e il legislatore, proprio in base ai dettami della giurisprudenza costituzionale, con l’art. 4 della legge 16 aprile 2015, n. 47 (Modifiche al codice di procedura penale in materia di misure cautelari personali. Modifiche alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di visita a persone affette da handicap in situazione di gravità), ha modificato il testo dell’art. 275, comma 3, cod. proc. pen., limitando ai reati di cui agli artt. 270, 270-bis e 416-bis cod. pen. l’operatività della presunzione assoluta di adeguatezza della sola misura della custodia cautelare in carcere. Pertanto, il dubbio di legittimità costituzionale sollevato in relazione agli artt. 13, 24 e 111 Cost. non sarebbe fondato.
Quanto all’età di sei anni, considerata dalla norma censurata, l’Avvocatura generale dello Stato rileva che il riferimento a tale limite è giustificato dalla circostanza che, normalmente, tale età coincide con l’assunzione, da parte dei minori, dei primi obblighi di scolarizzazione e, conseguentemente, con l’inizio di una progressiva acquisizione di autonomia degli stessi.
La norma sospettata di incostituzionalità, dunque, risulterebbe essere il frutto di una scelta discrezionale del legislatore, esente da irragionevolezza, connotata da un non arbitrario bilanciamento tra l’esigenza di tutela dell’interesse del minore a fruire in modo continuativo dell’affetto e delle cure materne, da un lato, e l’esigenza, pur costituzionalmente rilevante, di difesa sociale, dall’altro, nell’esercizio di una discrezionalità riconosciuta espressamente dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 239 del 2014.
Considerato in diritto
1.– Il Tribunale ordinario di Roma solleva questioni di legittimità costituzionale dell’art. 275, comma 4, del codice di procedura penale, «nella parte in cui prevede che non possa essere disposta o mantenuta la custodia cautelare in carcere nei confronti di imputati, detenuti per gravi reati, che siano genitori di prole solo di età non superiore a sei anni», per violazione degli artt. 3, 13, 24, 31 e 111 della Costituzione.
Secondo il rimettente, la disposizione censurata, imponendo il ripristino della misura della custodia cautelare in carcere nei confronti di madre di prole di età superiore a sei anni, imputata per uno dei reati di cui al comma 3 dell’art. 275 cod. proc. pen., impedirebbe al giudice di apprezzare la particolare condizione della minore, la quale, nel caso di specie, verrebbe privata di entrambi i genitori, detenuti per gravi reati nei medesimi procedimenti.
Tale «situazione di automatismo» si porrebbe anzitutto in contrasto con il principio di eguaglianza garantito dall’art. 3 Cost., stante l’ingiustificato diverso trattamento dei minori di sei anni, da una parte, e dei soggetti di poco maggiori, dall’altra, considerando che l’ordinamento penitenziario assicura comunque tutela ai minori, figli di soggetti già condannati in via definitiva, sino al compimento dei dieci anni.
Sarebbe, inoltre, violato l’art. 31 Cost., che, assicurando specifica protezione all’infanzia, intenderebbe impedire che la formazione del minore sia gravemente pregiudicata dall’assenza dei genitori, anche alla luce della Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva in Italia con legge 27 maggio 1991, n. 176, e vincolante ai sensi dell’art. 10 Cost.
Secondo il rimettente, vi sarebbe anche una violazione del principio di ragionevolezza, in considerazione del «rigido automatismo» determinato da presunzioni di carattere assoluto, che non consentirebbero al giudice alcuna valutazione in relazione alle specificità del caso concreto.
La disposizione censurata si porrebbe, infine, in contrasto con gli artt. 13, 24 e 111 Cost., apparendo «lesa l’effettività dell’obbligo di motivazione dei provvedimenti giurisdizionali previsto in via generale dall’art. 111 Cost. e, in via particolare, dall’art. 13 Cost. in materia de libertate, con conseguenti riflessi anche sul diritto di difesa tutelato dall’art. 24 Cost.».
2.– Le questioni non sono fondate.
2.1.– L’art. 275, comma 3, secondo periodo, cod. proc. pen. prevede che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza a carico dell’imputato del delitto di cui all’art. 416-bis del codice penale, le esigenze cautelari siano soddisfatte attraverso l’applicazione della misura della custodia cautelare in carcere (e non di altra misura). Tuttavia, nel giudizio a quo, la presenza di una figlia infraseienne, convivente con la madre imputata, aveva comportato l’adozione, a favore di quest’ultima, della misura degli arresti domiciliari, ai sensi dell’art. 275, comma 4, cod. proc. pen., che, per la parte qui rilevante, stabilisce che non può essere disposta né mantenuta la custodia cautelare in carcere (salvo sussistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza) quando l’imputata sia «madre di prole di età non superiore a sei anni con lei convivente».
Lamenta, dunque, il giudice a quo che il compimento del sesto anno d’età da parte della minore richiederebbe il rispristino della misura custodiale in carcere e pertanto censura, evocando i parametri costituzionali ricordati, l’irragionevole «situazione di automatismo» derivante dall’applicazione dell’art. 275, comma 4, cod. proc. pen., che impedirebbe al giudice di apprezzare le peculiarità del caso concreto, caratterizzato dalla contemporanea assenza dell’altro genitore, pure ristretto in custodia cautelare in carcere.
2.2.– Ragionando, a proposito della norma censurata (art. 275, comma 4, cod. proc. pen.), di una «presunzione assoluta» ovvero di una «situazione di automatismo», il giudice rimettente ne trae la conseguenza dell’impossibilità, derivante – a suo dire – dal tenore letterale della disposizione, di compiere una valutazione sulle specificità del caso concreto, con asserita lesione dell’effettività dell’obbligo di motivazione dei provvedimenti giurisdizionali (artt. 3, 13, 24 e 111 Cost.).
Così posta, la questione non è fondata.
Infatti, l’individuazione normativa del limite dei sei anni di età del minore per l’applicazione del divieto di custodia cautelare in carcere non può essere accostata alle presunzioni legali assolute che comportano l’applicazione di determinate misure o pene sulla base di un titolo di reato, con l’effetto di impedire al giudice di tenere conto delle situazioni concrete o delle condizioni personali del destinatario della misura o della pena.
L’automatismo che il rimettente lamenta è, semmai, quello contenuto nell’art. 275, comma 3, cod. proc. pen., che, laddove sussistano esigenze cautelari, prevede – per gli imputati di alcuni gravi reati, fra i quali quello di cui all’art. 416-bis cod. pen. – che esse siano soddisfatte solo attraverso la custodia in carcere. È questa presunzione, in realtà, ad impedire al giudice di valutare la specifica idoneità di ciascuna misura in relazione alla natura e al grado delle esigenze cautelari. Ma tale presunzione è stata considerata non irragionevole da questa Corte, poiché i tratti tipici della criminalità mafiosa (qualificata da forte radicamento territoriale, fitta rete di collegamenti personali, alta capacità di intimidazione) forniscono un fondamento razionale alla valutazione legislativa – basata su dati di esperienza generalizzata, riassunti nella formula dell’id quod plerumque accidit – di adeguatezza della sola misura custodiale carceraria (sentenze n. 48 del 2015, n. 57 del 2013 e n. 265 del 2010; ordinanza n. 450 del 1995).
La disposizione espressamente censurata, cioè il successivo comma 4 dell’art. 275 cod. proc. pen., invece, contiene un divieto di applicazione della custodia cautelare in carcere, riferito ad alcune categorie di imputati (tra i quali la madre di figli minori infraseienni con lei conviventi); un divieto, si osservi, di carattere generale, che prescinde, cioè, dal titolo di reato e non è riferibile, pertanto, alle sole ipotesi considerate all’art. 275, comma 3, cod. proc. pen. Soprattutto, non si è in presenza di una «situazione di automatismo», ma, al contrario, di una deroga (sia pur soggetta a condizioni e limiti) ai criteri che i commi precedenti del medesimo articolo dettano in tema di applicazione delle misure cautelari e, quindi, anche alla presunzione legale stabilita al comma precedente (in questo senso è la giurisprudenza di legittimità: Corte di cassazione, sezione sesta penale, 30 aprile-4 luglio 2014, n. 29355; Corte di cassazione, sezione seconda penale, 16-28 marzo 2012, n. 11714; Corte di cassazione, sezione prima penale, 16 gennaio-6 febbraio 2008, n. 5840).
3.– Il rimettente non appunta, in ogni caso, le proprie considerazioni critiche sul comma 3 dell’art. 275 cod. proc. pen.: ciò che contesta, in realtà, è proprio l’individuazione legislativa del limite dei sei anni di età, oltre il quale è impedita l’applicazione di misure diverse dalla custodia cautelare in carcere e non sarebbe consentita una valutazione del caso concreto.
Da questo punto di vista, è posta esplicitamente in discussione, alla luce degli artt. 3 e 31 Cost., la valutazione che il legislatore ha compiuto in astratto, bilanciando le esigenze di difesa sociale, da un lato, e l’interesse del minore, dall’altro.
3.1.– Secondo la giurisprudenza di legittimità, la ratio del divieto legislativo di applicazione della misura cautelare carceraria, in presenza di minori di età inferiore ai sei anni, risiede nella necessità di salvaguardare la loro integrità psicofisica, dando prevalenza alle esigenze genitoriali ed educative su quelle cautelari (entro i limiti precisati), garantendo così ai figli l’assistenza della madre, in un momento particolarmente significativo e qualificante della loro crescita e formazione (Corte di cassazione, sezione sesta penale, 23 giugno-1° settembre 2015, n. 35806; Corte di cassazione, sezione sesta penale, 30 aprile-4 luglio 2014, n. 29355; Corte di cassazione, sezione prima penale, 12 dicembre 2013-31 gennaio 2014, n. 4748; Corte di cassazione, sezione quinta penale, 15-27 febbraio 2008, n. 8636).
Il divieto in questione è dunque frutto del giudizio di valore operato dal legislatore, il quale stabilisce che, nei termini e nei limiti ricordati, sulla esigenza processuale e sociale della coercizione intramuraria deve prevalere la tutela di un altro interesse di rango costituzionale, quello correlato alla protezione costituzionale dell’infanzia, garantita dall’art. 31 Cost. (sentenze n. 239 del 2014 e n. 177 del 2009; ordinanza n. 145 del 2009).
Il bilanciamento compiuto dal legislatore tra le esigenze di difesa sociale e l’interesse del minore ha conosciuto, nel tempo, varie modulazioni, caratterizzate dal progressivo ampliamento della tutela accordata a quest’ultimo.
Originariamente, per la parte che qui rileva, l’art. 275, comma 4, cod. proc. pen., prevedeva non potersi disporre la custodia cautelare in carcere, salva la sussistenza di esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, quando imputata fosse «una persona incinta o che allatta la propria prole». Già con l’art. 5, comma 2, della legge 8 agosto 1995, n. 332 (Modifiche al codice di procedura penale in tema di semplificazione dei procedimenti, di misure cautelari e di diritto di difesa), il confine dell’interesse del minore in tenera età al mantenimento di un rapporto continuativo con una figura genitoriale fu spostato in avanti, e il comma 4 dell’articolo in esame venne modificato nel senso che, fatte sempre salve le esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, non potesse disporsi la custodia cautelare in carcere quando imputati fossero una donna incinta o madre di prole di età inferiore a tre anni con lei convivente, ovvero padre, qualora la madre fosse deceduta o assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole.
Da ultimo, è stata la legge 21 aprile 2011, n. 62 (Modifiche al codice di procedura penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, e altre disposizioni a tutela del rapporto tra detenute madri e figli minori), all’art. 1, comma 1, ad aver riformulato il comma 4 dell’art. 275 cod. proc. pen., ampliando ulteriormente la tutela dell’interesse del minore: attualmente, la custodia cautelare in carcere non può essere né disposta, né mantenuta, quando imputati siano una donna incinta o madre di prole di età non superiore a sei anni con lei convivente, ovvero padre, qualora la madre sia deceduta o assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole.
3.2.– Questa Corte ha già avuto modo di porre in evidenza (sentenze n. 239 del 2014, n. 7 del 2013 e n. 31 del 2012) la speciale rilevanza dell’interesse del figlio minore a vivere e a crescere nell’ambito della propria famiglia, mantenendo un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, dai quali ha diritto di ricevere cura, educazione e istruzione, ed ha riconosciuto che tale interesse è complesso ed articolato in diverse situazioni giuridiche. Queste ultime trovano riconoscimento e tutela sia nell’ordinamento costituzionale interno – che demanda alla Repubblica di proteggere l’infanzia, favorendo gli istituti necessari a tale scopo (art. 31, secondo comma, Cost.) – sia nell’ordinamento internazionale, ove vengono in particolare considerazione le previsioni dell’art. 3, comma 1, della già citata Convenzione sui diritti del fanciullo e dell’art. 24, comma 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 7 dicembre 2000, adattata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo.
Queste due ultime disposizioni qualificano come «superiore» l’interesse del minore, stabilendo che in tutte le decisioni relative ad esso, adottate da autorità pubbliche o istituzioni private, tale interesse «deve essere considerato “preminente”: precetto che assume evidentemente una pregnanza particolare quando si discuta dell’interesse del bambino in tenera età a godere dell’affetto e delle cure materne» (così, in particolare, sentenza n. 239 del 2014).
L’elevato rango dell’interesse del minore a fruire in modo continuativo dell’affetto e delle cure materne, tuttavia, non lo sottrae in assoluto ad un possibile bilanciamento con interessi contrapposti, pure di rilievo costituzionale, quali sono certamente quelli di difesa sociale, sottesi alle esigenze cautelari, laddove la madre sia imputata di gravi delitti (in senso analogo, si veda ancora la sentenza n. 239 del 2014). Lo dimostra, del resto, la stessa disposizione censurata, che fa comunque salve le esigenze cautelari di eccezionale rilevanza anche in presenza di un figlio minore di sei anni.
In tale contesto, la disposizione non preclude in assoluto alla madre, imputata per gravi reati, l’accesso alla misura cautelare più idonea a garantire il suo rapporto col figlio minore in tenera età, ma stabilisce che questo accesso trova un limite, laddove il minore abbia compiuto il sesto anno d’età. Sulla base di dati di esperienza, tenuti in conto nei lavori preparatori della legge n. 62 del 2011 (Senato della Repubblica – Commissione II – giustizia, seduta n. 226 del 22 marzo 2011), la scelta legislativa appare non irragionevolmente giustificata dalla considerazione che tale età coincide con l’assunzione, da parte del minore, dei primi obblighi di scolarizzazione e, dunque, con l’inizio di un processo di (relativa) autonomizzazione rispetto alla madre.
3.3.– Se la descritta opera di bilanciamento tra esigenze di difesa sociale e interesse del minore, compiuta necessariamente in astratto dal legislatore, non appare manifestamente irragionevole ai sensi degli artt. 3 e 31 Cost., non può accogliersi la richiesta del giudice a quo, che domanda una declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 275, comma 4, cod. proc. pen., «nella parte in cui prevede che non possa essere disposta o mantenuta la custodia cautelare in carcere nei confronti di imputati, detenuti per gravi reati, che siano genitori di prole solo di età non superiore ai sei anni». Con tale addizione, infatti, si vorrebbe dare prevalenza assoluta all’interesse del minore, a prescindere dalla sua età, a mantenere un rapporto continuativo con la madre, cancellando il bilanciamento compiuto dal legislatore.
Non minori incongruità, del resto, produrrebbe una soluzione, pure suggerita nelle pieghe della motivazione dell’ordinanza di rimessione, che affidasse alla discrezionalità del giudice penale l’apprezzamento, caso per caso, della particolare condizione del minore. Questa soluzione – a sua volta da adottarsi al cospetto di un minore di qualsiasi età – restituirebbe l’incoerente condizione di un giudice penale chiamato ad applicare una misura nei confronti di un imputato, sulla base di valutazioni relative non già a quest’ultimo, ma a un soggetto terzo – il minore – estraneo al processo.
Tutte le misure che i codici penale e di procedura penale, nonché la legge 26 luglio 1975, n. 354, recante «Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà», prevedono a tutela dei minori, in relazione alla condizione detentiva dei genitori, indicano al giudice un criterio oggettivo, calibrato sull’età del minore (oltre alla disposizione oggetto del presente giudizio e a quella, ad essa collegata, contenuta all’art. 285-bis cod. proc. pen., si ricordino gli artt. 146 e 147 cod. pen. e gli artt. 21-bis, 21-ter, 47-ter e 47-quinquies della legge n. 354 del 1975). E non può trascurarsi che tali criteri oggettivi – posti dal legislatore in riferimento alla condizione di un soggetto, il minore, estraneo al processo e non coinvolto nelle valutazioni sulla pericolosità dell’imputato – costituiscono anche un efficace usbergo della serenità del giudice, chiamato a delicate decisioni, in special modo nei casi relativi a gravi delitti di criminalità organizzata.
Nei casi in cui questa Corte, attraverso proprie pronunce, ha consentito al giudice di derogare caso per caso a limiti o differenze di età fissati dal legislatore – ad esempio, nel ben diverso campo delle adozioni, al cospetto di previsioni legislative richiedenti una necessaria differenza d’età, stabilita in maniera “rigida”, fra adottante e minore adottato – ciò ha fatto perché tale differenza d’età è univocamente fissata a tutela del minore, affinché i genitori d’adozione non risultino troppo anziani. Sicché la valutazione più flessibile, consentita in determinate ipotesi al giudice, è condotta secondo modalità tutte interne al preminente interesse del minore, senza confliggere con altri, e opposti, interessi di rango costituzionale (sentenze n. 283 del 1999, n. 303 del 1996, n. 148 del 1992, n. 44 del 1990, n. 183 del 1988).
4.– Nella motivazione dell’ordinanza, ma non nel dispositivo, il Tribunale rimettente adombra una violazione del principio di eguaglianza, rilevando che varie disposizioni dell’ordinamento penitenziario assicurano tutela al preminente interesse dei minori, figli di soggetti già condannati in via definitiva, sino al compimento dei dieci anni, e non già solo fino al compimento del sesto anno d’età, come invece prevede l’art. 275, comma 4, cod. proc. pen.
Anche tale questione non è fondata.
Se riguardato dal solo punto di vista del preminente interesse del minore a mantenere un rapporto costante ed equilibrato con le figure genitoriali, potrebbe suscitare perplessità il diverso esito del bilanciamento compiuto dal legislatore, a seconda del titolo che legittima la restrizione della libertà personale del genitore (cautelare o esecutivo). Tale preminente interesse del minore, in effetti, resta il medesimo in entrambi i casi, e si mantiene egualmente inalterata la necessità di evitare che il “costo” della strategia di lotta al crimine venga traslato, secondo modalità irragionevoli, su un soggetto terzo, estraneo alle attività delittuose delle quali un genitore sia imputato, o in conseguenza delle quali sia stato condannato in via definitiva (con riferimento a condanne definitive, sentenza n. 239 del 2014).
Tuttavia, quello che il giudice a quo chiede è un intervento di parificazione omogeneizzante, all’interno di un bilanciamento legislativo nel quale, se l’interesse del minore resta sempre uguale a sé stesso, mutano invece profondamente, a seconda del titolo di detenzione, le esigenze di difesa sociale.
Questa Corte, al cospetto di fattispecie analoghe a quella ora in discussione, ha invero sempre considerato che le disposizioni in materia cautelare finalizzate alla tutela dell’interesse dei minori figli di genitori imputati non costituiscono idonei tertia comparationis rispetto a quelle analoghe dettate dall’ordinamento penitenziario per i genitori ristretti a seguito di condanna (ordinanza n. 260 del 2009). Essa ha anzi sottolineato, più in generale, la non assimilabilità, ai fini di uno scrutinio di eguaglianza, di status fra loro eterogenei, quello dell’imputato sottoposto ad una misura cautelare personale, da una parte, e quello del condannato in fase di esecuzione della pena, dall’altra. E, con riferimento alle ben diverse funzioni della pena e della custodia cautelare in carcere (sentenza n. 25 del 1979 e ordinanza n. 145 del 2009), ha rilevato come le misure cautelari, a differenza della pena, siano volte a presidiare i pericula libertatis, cioè ad evitare la fuga, l’inquinamento delle prove e la commissione di reati (ordinanza n. 532 del 2002).
Se le rispettive esigenze di difesa sociale sono di natura profondamente diversa, ne consegue che il principio da porre in bilanciamento con l’interesse del minore è, nei due casi, differente. E non raggiunge, pertanto, il livello della irragionevolezza manifesta la circostanza che il bilanciamento tra tali distinte esigenze e l’interesse del minore fornisca esiti non coincidenti.
5.– Non sfugge, infine, a questa Corte la circostanza che, nel caso dal quale originano le questioni di legittimità costituzionale in esame, anche il padre, oltre alla madre, risulta assente, perché imputato dello stesso delitto (art. 416-bis cod. pen.) e ristretto in custodia cautelare in carcere. Questo elemento, peraltro, è semplicemente addotto dal giudice a quo, che non offre ulteriori informazioni sulla concreta condizione della minore e, soprattutto, non ne trae conseguenze in ordine al tipo di pronuncia richiesta.
Del resto, anche a prescindere dalla mancanza di una specifica domanda calibrata sulle peculiarità del caso, l’assenza del padre non potrebbe comunque giustificare una pronuncia che affermi, in casi del genere, il divieto di disporre o mantenere la misura della custodia cautelare in carcere nei confronti della madre del minore, pur oltre il sesto anno d’età. Solo in apparenza, infatti, una tale soluzione gioverebbe alla continuità del rapporto tra madri imputate e figli minori. A ben vedere, invece, e con conseguenze sull’intero sistema dei benefici previsti a tutela dell’interesse del minore, una soluzione di questo tipo risulterebbe ispirata al principio dell’indispensabile presenza di uno dei due genitori, giustificando persino la custodia in carcere della madre se il padre è presente, secondo una ratio del tutto eccentrica rispetto al contesto normativo desumibile dalle disposizioni del codice di procedura penale e dell’ordinamento penitenziario, attualmente orientate nel senso di assicurare in via primaria il rapporto del minore con la madre.
per questi motivi
La Corte Costituzionale
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 275, comma 4, del codice di procedura penale, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 13, 24, 31 e 111 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Roma, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 dicembre 2016.